Intervista
31 marzo 2001

Pace fatta con Forattini, ma resta il confine tra la satira e la calunnia

di Massimo D'Alema


Ho deciso di rinunciare al giudizio civile promosso contro Forattini. Sono lieto di averlo potuto fare anche perché davvero mi sentivo stretto nei panni di censore che qualcuno mi aveva cucito addosso.
Quando Forattini pubblicò una vignetta che mi raffigurava — all’epoca ero Presidente del Consiglio — intento a sbianchettare gli elenchi del dossier Mitrokin, la magistratura stava accertando la sussistenza o meno di un’accusa di manipolazione di quegli stessi elenchi. L’immagine, dunque, accreditava implicitamente la veridicità di un’azione delittuosa che proprio in quei giorni era oggetto di una violenta polemica politica e di un’indagine giudiziaria. La domanda che posi all’epoca e ripropongo oggi è: quale differenza separa la responsabilità di un giornalista che nel suo editoriale scrive «D’Alema ha alterato il dossier» da quella di un disegnatore che esprime lo stesso concetto, semplicemente utilizzando un linguaggio diverso? La risposta che da più parti mi è stata data è in una concezione della satira ritenuta zona franca, qualcosa che per definizione non si può censurare né contro la quale ci si può rivalere, fosse pure per vie legali.
E qui subentra una prima distinzione necessaria. Io non ho mai chiesto di sopprimere la rubrica di Forattini o di chicchessia. Ho soltanto intentato una causa civile fondata sul presupposto che quella particolare vignetta non fosse satira ma qualcos’altro, nello specifico un’accusa circoscritta e dettagliata di un reato che finiva col ledere la mia onorabilità di uomo politico e di capo del governo. Mi si è risposto, «ma è satira». Eh no, troppo facile; ci sarà pure un confine oltre il quale anche la libera espressione creativa si scontra col diritto del singolo a difendere la propria reputazione. Se negassimo questo limite vorrebbe dire che ogni forma d’aggressione o linciaggio o persecuzione, purché inscritta formalmente nel codice comunicativo della satira, è da considerarsi legittima. Ma allora sì che saremmo di fronte a un’interpretazione sconcia del diritto sacrosanto di ciascuno a vedere rispettata la propria integrità. Il vero problema è come conciliare la libertà incomprimibile di espressione, non solo della satira naturalmente, e il diritto altrettanto insopprimibile per il singolo di tutelare la propria onorabilità. Diritto che diventa un dovere quando si tratta di affermare la correttezza istituzionale di una persona, e dunque quando in gioco non è solo la reputazione di una persona ma qualcosa di più. Questo, non altro, è il tema che ho sollevato, non certo la possibilità di transitare per i tribunali al fine di imbavagliare nessuno. Altra cosa, e tutt’altra cosa, è una richiesta di censura, e cioè la volontà di spegnere una voce o spuntare una matita che non risultino gradite. Vorrei si cogliesse la differenza tra i due comportamenti.
Certo, se fosse vero che Berlusconi e Dell’Utri non hanno sporto querela nei confronti degli autori di un volume che li accusa di atti gravissimi, la decisione apparirebbe strana e incomprensibile. Anche perché chi vuole dimostrare la limpidezza dei propri comportamenti non ha mezzi diversi dal ricorso alla legge per fare valere i propri diritti. Questo vale in generale e tanto più per l’uomo pubblico il quale deve sfidare i propri accusatori e non metterli a tacere. Questo mi pare il nocciolo del problema. Il fatto che, invece, si sia preferito scatenare un ambaradan senza precedenti al solo scopo di cancellare dal palinsesto un comico e il suo programma. Ma cosa c’entrano col diritto di satira o la legittima difesa, le liste di proscrizione, gli insulti gratuiti, le minacce d’epurazione condite di nomi e cognomi? Nulla di nulla, anzi sono il segno di una grande fragilità e confusione tipiche di chi non sa distinguere tra il rispetto delle regole e il bastone del comando, aspetto quest’ultimo sempre sgradevole ma tanto più antipatico quando il manganello viene roteato alla cieca, a mo’ di minaccia tanto per spaventare chi si ostina a non capire l’aria che tira.
Tornando alla vicenda che mi riguarda, ho sempre dichiarato che in qualunque momento l’incidente poteva essere chiuso da chi lo aveva determinato. In altre parole, bastava una dichiarazione di Forattini dalla quale risultasse chiaro, oltre ogni ragionevole dubbio, l’intento non diffamatorio della vignetta per risolvere la querelle. Non era, dunque, mia intenzione arricchirmi alle spalle di uno dei più noti disegnatori satirici né, come ho detto, minacciarne la libertà espressiva. Ieri, finalmente, ho ricevuto attraverso il mio avvocato la dichiarazione con la quale Forattini riconosce testualmente che la sua vignetta è da considerare «un’espressione squisitamente artistica, senza alcuna intenzione... di voler rappresentare fatti reali». E aggiunge: «Quando ho realizzato la vignetta, non ero in possesso di alcun elemento certo che mi consentisse di ritenere che l’allora Presidente del Consiglio avesse nella realtà posto in essere una condotta quale quella descritta nella fantasia sempre paradossale del mio disegno». Non la rappresentazione di un fatto ’’storico’’ accaduto, dunque, ma un paradosso satirico; così l’autore del disegno descrive il proprio lavoro. Ne prendo atto e, come avevo annunciato, considero queste parole necessarie e sufficienti a chiudere definitivamente l’incidente.
Rimane, sullo sfondo, il tema irrisolto dello spazio della satira e di quale codice di regolazione o autoregolazione dovrebbe ispirarne lo svolgimento. Non ho la pretesa di dettare io queste regole, né ritengo sia un compito della politica. Ciò non toglie che la questione esiste e che forse dovrebbero essere gli stessi autori di satira a cercare una soluzione non limitandosi alla sola difesa d’ufficio, del tutto condivisibile, della libertà d’espressione e di critica in una società democratica. Mi auguro se ne possa discutere, pacatamente, serenamente, fuori dalle aule di tribunale, ma per riuscire nell’intento bisogna che tutti, e non solo alcuni, rispettino pochi dettami fondamentali tra i quali la possibilità e il diritto di ciascuno di tutelare il proprio buon nome. Ripeto, nulla a che spartire con la censura, odiosa in ogni sua espressione, ma neppure qualcosa che si può sovrapporre o confondere con l’obbligo di sopportare in silenzio accuse ingiuste e immotivate. Lo dico senza polemica all’Onorevole Berlusconi il quale sbaglia, essendo per altro leader dell’opposizione, a scatenare una crociata ideologica contro programmi, artisti e conduttori che hanno l’unico torto, se tale può dirsi, di pensarla diversamente da lui. Perché anche da questi segnali, piaccia o meno, si capisce quale cultura ispira una forza politica, uno schieramento, una classe dirigente che si candida al governo del paese.

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