Intervista
23 settembre 2001

Festa Nazionale dell'Unità di Reggio Emilia

Massimo D'Alema chiude la manifestazione


Carissime compagne e compagni,

grazie.

Grazie per essere qui e per essere così tanti nonostante il tempo inclemente.

Ma forse questa volta era più difficile non venire.

Non sentire – come in altri momenti drammatici – il bisogno di ritrovarci.

Il mondo è in angoscia.

Viviamo una tragedia difficile da descrivere.

E’ stato detto che la morte nel cuore di Manhattan è un evento che cambia la storia.

E’ vero.

Cambia la politica ma anche il senso comune, il modo di pensare di tante persone.

Persino il vocabolario fatica a trovare termini adatti.

Certo, non convince l’idea che all’improvviso siamo entrati in una guerra.

Ma neanche la parola “terrorismo” basta a spiegare e a capire.

Noi il “terrorismo” lo abbiamo sofferto, combattuto, sconfitto.

Ma era un’altra cosa.

Le stragi di New York e Washington non sono simili a nessun’altro attentato del passato.

E’ un terrorismo nuovo che usa i mezzi e i ricatti della guerra: che non risparmia una violenza folle.

Comunque la si definisca ha preso corpo la più grande minaccia sull’avvenire del mondo, dei nostri figli, della convivenza pacifica tra i popoli.

Ed è la prova che ci attende nei prossimi anni.

* * *

Di fronte a questa sfida la sinistra – in Italia e in Europa – non deve tentennare.

Come ha scritto Gerhard Schroeder, colpendo gli Stati Uniti e assassinando migliaia di persone,
autori, mandanti e complici di quelle stragi hanno colpito tutti noi.

Questo è forse ancora più vero per noi italiani.

Scorrendo i nomi delle vittime o dei dispersi è facile imbattersi in un cognome familiare.

Sono figli e nipoti degli emigranti che partirono in cerca di fortuna.

C’è anche questo legame a cementare la nostra amicizia e solidarietà verso l’America colpita.

Come c’è ammirazione per la reazione del popolo americano, per l’orgoglio mostrato nel momento più duro.

Anche questo è un effetto della tragedia; che ogni residuo anti americanismo è stato cancellato dalla forza e dalla generosità di quelle persone che hanno dato la vita per salvarne altre.

Tanto più siamo consapevoli che in una situazione così drammatica l’uso della forza non è un tabù.

Individuare e colpire gli assassini è un dovere morale.

Non una rappresaglia cieca che provocherebbe nuove vittime innocenti tra i civili, ma un’azione mirata in grado di neutralizzare i nuovi terroristi e chi li protegge.

Allo stesso tempo, non ci può essere alcuna indulgenza verso un regime come quello talebano: un regime che nega diritti umani fondamentali, che respinge le donne in una condizione di vita inaccettabile, che non tollera alcuna forma di dissenso.

Reagire, dunque, è la condizione per combattere il terrore e difendere la democrazia e la convivenza civile.

Il punto è che anche questo può non bastare.

Perché dietro quelle morti c’è altro; c’è odio, disprezzo della vita umana, della propria stessa vita, c’è una profonda avversione verso di noi, la nostra cultura.

E’ qui la novità.

Ma è per questo che i muscoli e le armi da sole non sono sufficienti.

Per affrontare una crisi di questa natura, che sarà lunga e difficile, occorrono intelligenza politica, nervi saldi, una grande maturità.

Quella stessa maturità che una parte larga dell’opinione pubblica in Italia e in Europa ha mostrato di possedere rifiutando l’idea di una rappresaglia cieca.

* * *

Vedete – cari compagni – la tragedia di questi giorni impone di pensare all’Occidente come a una parte del mondo.

Noi non siamo tutto.

La nostra cultura non è tutto.

E l’errore più grande sarebbe considerare nemico tutto ciò che è diverso e distante da noi.

Ma lo scontro non è tra l’Occidente e l’Islam.

Lo scontro è tra le ragioni dell’umanità e la barbarie che disprezza il valore della vita.

E l’umanità non vincerà questa sfida se l’Occidente avrà così scarsa fantasia da identificare se stesso con il mondo.

Vincerà – noi tutti vinceremo – se oltre a punire i colpevoli sapremo prosciugare il consenso cresciuto intorno a loro in tanti luoghi disperati e dimenticati della terra.

* * *

La vera sfida è bonificare i giacimenti dell’odio e della disperazione.

Per riuscirci non serve una nuova crociata.

La verità è che pace, tolleranza, dialogo religioso sono i valori della democrazia, dell’Europa, dell’America, ma non sono soltanto valori nostri.

Sono anche i valori profondi della maggioranza dei mussulmani, valori condivisi oltre i confini storici e culturali dell’Occidente.

Guai se chiudessimo questi principi dentro un fortino assediato.

Faremmo il gioco dei barbari e degli assassini.

Il punto è capire che il mondo islamico, la sua più larga parte, è la prima vittima del fanatismo.

Le bombe e le stragi sono dirette anche a loro. Sono il tentativo di bloccare i paesi e i popoli dell’Islam nel cammino verso una politica aperta e pacifica.

Per questo è giusto rafforzare ora il dialogo con quella cultura e con le forze moderne e di progresso che lottano in quei paesi per consolidare una politica democratica.

E bisogna farlo collaborando con chi proviene da un’altra storia, con popoli arricchiti da una diversa spiritualità, con chi è diverso da noi ma vuole vivere in pace insieme a noi.

Questa è l’unica strada possibile.

L’unico modo per non guardare con sospetto colui che già oggi è nostro vicino di casa. Per non temere la moschea che domani sorgerà a tre isolati da noi.

Questa è anche l’unica via per la politica.

Capire che non c’è un Impero del Male.

Mentre bisogna placare antiche ragioni di odio e disordine.

* * *

L’Europa e gli Stati Uniti devono misurarsi con questa dimensione dei problemi.

E fare i conti con i propri errori.

Primo tra tutti aver lasciato che rabbia e violenza, indebolissero l’idea di una pace giusta in Medio Oriente rafforzando le frange più estreme tra gli arabi e gli israeliani e logorando il filo sottile del dialogo.

E’ un merito di Arafat essersi schierato subito e senza esitazioni a fianco degli Stati Uniti e contro il terrorismo ed è suo dovere vigilare adesso sull’ordine di tregua imposto ai palestinesi.

Così come è stata una decisione saggia quella del governo israeliano di bloccare ogni azione militare nei territori sottoposti al controllo dell’Autorità nazionale palestinese.

Sono primi passi necessari – altri dovranno seguire – perché si riprenda a dialogare, trattare, convivere.

Ma il percorso è difficile.

Ci sono e ci saranno ostacoli da superare.

Come dimostra, nella giornata di oggi, il rinvio dell’atteso incontro tra Shimon Peres e Yasser Arafat.

Il veto imposto in queste ore dall’estrema destra israeliana rischia di compromettere le prospettive di pace.

Anche per questo l’Europa e gli Stati Uniti debbono assumere decisioni tempestive: favorire con ogni mezzo la ripresa stabile dei negoziati.

E prevedere subito un piano speciale di aiuti per le popolazioni palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, provate da mesi di tensione e di guerra.

Il futuro della Palestina e del Medio Oriente oggi più che mai riguarda il futuro di tutti.

Per questo non possiamo lasciare soli i palestinesi, né isolate le forze che in Israele più spingono verso la pace.

Dobbiamo esprimere solidarietà a un popolo che invoca la sua patria e alle ragioni della pace con una mobilitazione straordinaria.

“Pace in Palestina. Ora”.

Trasformiamo questo slogan in una grande campagna di iniziative e impegnamo ogni città, ogni sezione del partito, a rafforzare lo spirito della collaborazione e del dialogo.

Promuoviamo iniziative di solidarietà; sosteniamo anche con adeguate sottoscrizioni il bisogno di un ritorno rapido alla normalità.

Sarà il nostro modo – di ciascuno di noi, intendo – per non sentirci solo “spettatori”.

Questa del resto è la sola via da percorrere. Altre non ce ne sono.

Mentre il tempo a disposizione si riduce e deve tornare in campo la forza della politica.

* * *

La politica, dunque.

E’ solo con la politica che si affronta una crisi delle dimensioni attuali.

Non meno ma più politica.

Anche perché gli attentati alle Torri e al Pentagono hanno rivelato una seconda drammatica verità.

Suturare le ferite, a partire dalle più antiche, pacificare le aree di crisi e prevenire nuovi e più aspri conflitti su scala regionale, non è solo un dovere imposto dalla solidarietà verso i più deboli.

Questo rimane un valore fondamentale della sinistra. Una delle sue ragioni d’essere.

Ma, insieme, c’è la consapevolezza che la sicurezza è un bene indivisibile.

E che se la guerra divampa anche lontano da noi, noi non siamo sicuri.

La violenza – la più cieca e imprevedibile – può colpirci ovunque e all’improvviso. In casa nostra.

Se qualcuno pensava ancora che le guerre rispettassero i confini si è svegliato bruscamente.

I conflitti sono cambiati insieme al mondo che li genera.

E questo complesso di problemi ripropone in modo assai più drammatico la questione della globalizzazione.

Come governare democraticamente contraddizioni e opportunità.

Torna con forza il tema di un nuovo “ordine”, di una nuova regolazione dei rapporti tra stati, religioni, culture.

Qualcosa che subentri al vuoto seguito alla fine del vecchio ordine che certo non rimpiangiamo ma che pure ha funzionato per decenni.

Oggi abbiamo un problema in più.

Dobbiamo ripartire opportunità di vita, di benessere, di lavoro. E farlo – insisto – sulla base di un incontro di civiltà, respingendo le sirene dell’omologazione e i richiami primitivi allo scontro.

Prima della tragedia americana – alla vigilia, durante e dopo le drammatiche giornate di Genova – questo tema ha fatto irruzione nel dibattito del paese.

Tutti abbiamo compreso meglio una realtà nuova.

Abbiamo capito che di fronte alla globalizzazione si sono affermate due culture radicali.

Da un lato il neoliberismo più estremo e privo di regole.

Un primato assoluto del mercato, del profitto, della speculazione, con la politica relegata a rimuovere gli ostacoli esistenti, siano essi diritti sociali o i bisogni di masse di diseredati.

Sul fronte opposto il radicalismo degli anti globalizzatori.

Arcipelago variegato, composito, dove convivono un’anima di sinistra e pulsioni di una destra ostile a capitalismo e secolarizzazione.

Sembra a volte che i protagonisti di questa protesta esprimano il disperato tentativo di arginare la storia.

C’è in una parte larga di questi movimenti una rivolta etica sincera – qualcosa di sano, di puro – ma noi sappiamo che un’etica svincolata dalla politica è priva di speranza. E’ un atto di fede, una testimonianza, non un progetto.

Ecco perché tra queste due visioni estreme va ricercato lo spazio e il ruolo della politica e della sinistra.

E’ un lavoro lungo; e molto c’è da fare.

Dobbiamo anche chiederci perché non abbiamo saputo cogliere quella domanda di partecipazione che migliaia di giovani hanno manifestato in tante parti d’Europa e del mondo.

E’ vero: sono mancate alla sinistra risposte convincenti.

Come se non avessimo teso l’orecchio a sufficienza, magari troppo concentrati su noi stessi per vedere cosa accadeva fuori.

Fuori, dove invece stava cambiando qualcosa nella percezione dei processi economici, culturali, del consumo.

* * *

Alcuni giorni fa, in una delle nostre feste, mi ha fermato un ragazzo.

Mi ha detto: “sono ancora giovane e la politica mi interessa, ma già contavo poco quando le scelte si facevano a Roma. Adesso scopriamo che contano meno anche i governi e che il potere si allontana sempre di più. Come pensate che possiamo stare zitti di fronte a tutto questo?”

Guardate che nasce anche da qui – da questo sentimento – il desiderio di farsi sentire.

E’ una cosa giusta.

E’ un modo per sentirsi di nuovo padroni della propria vita.

Ed ecco perché la riunione del G8 diventa l’obiettivo di una protesta così sentita e diffusa.

Perché in assenza di altri luoghi della politica, della partecipazione, della decisione, quello è il simbolo di un potere che appare sempre più distante.

Si dà voce al bisogno di non subire un esproprio.

Questo appello va colto.

Perché è un appello positivo.

C’è una grande responsabilità della sinistra e del socialismo europeo nel non lasciare soli questi giovani.

E’ del tutto evidente che per misurarci con questi problemi bisogna rafforzare l’unità del riformismo e del socialismo europei.

Ma questo non è affatto in contrasto con lo spirito di tanti ragazzi che si avvicinano alla politica percorrendo strade nuove.

Ce lo dicono le battaglie emblematiche e di principio che riempiono l’agenda di questo nuovo movimento.

Sono temi che la politica deve accogliere perché sono i nostri temi e perché è in questo modo che si escludono le frange violente.

Qualcosa, del resto, in questi anni abbiamo fatto. La sinistra al governo in gran parte dell’Europa non è stata inerte come ha mostrato la forte iniziativa
per l’azzeramento del debito.

E comunque ora bisogna fare di più.

La lotta alla fame, la battaglia per salvare milioni di vite debellando malattie che si possono sconfiggere: sono altri terreni che fondono la politica con una tensione etica.

L’obiettivo di tutto ciò è chiaro: affermare un mondo più giusto, più libero, più umano.

E allora bisogna dire che a fianco alla coalizione mondiale contro il terrorismo, compito della sinistra è indicare la priorità di una coalizione mondiale contro la fame, contro la miseria, contro lo sfruttamento dei lavoratori, delle donne, dei bambini.

E’ questa l’identità della politica che un ragazzo di oggi cerca di trovare in mezzo a noi.

E se non la troverà qui, la cercherà altrove.

Dobbiamo saperlo.

Ognuno di noi ha scelto la sinistra per una ragione.

I più anziani per liberare l’Italia dal fascismo.

Chi è venuto dopo per difendere la pace e garantire ai propri figli il diritto a studiare in quelle università dove prima entravano solo i figli dei ricchi.

Forse, dieci anni fa, c’è stato chi ha scelto la sinistra perché vedeva cambiare il mondo e sperava di poterlo cambiare in meglio.

Oggi, dobbiamo conquistare alla sinistra nuove generazioni che scoprono la politica perché temono di vedersi sottratto il diritto a decidere sulla propria vita.

Sta a noi dimostrare loro che non è così.

Tocca a noi creare i luoghi, il vocabolario di una nuova militanza.

Dobbiamo essere una sinistra ospitale, generosa.

Nessuno torna in una casa dove ti trattano male.

Dove ti fanno stare in piedi e non ti danno la parola.

Noi dobbiamo rinnovare la casa e dire a questi giovani che la sinistra è anche casa loro.

* * *

Ecco perché la politica non può occuparsi di altro.

Vedete, anche la follia di un terrorismo che scatena il suo anatema contro la civiltà occidentale, è parte di un gigantesco rivolgimento del mondo.

E’ l’espressione di un disordine, di una fragilità della politica e delle istituzioni che riduce le sicurezze, le garanzie, i diritti.

Per noi combattere il terrorismo ha anche questo valore.
E’ una scelta vitale per una forza che si fonda sulla partecipazione.

Perché badate, se prevale la logica della paura, della guerra, e con essa l’insicurezza, la militarizzazione, la chiusura nelle proprie residue certezze, noi veniamo sconfitti.

Ecco perché la battaglia contro questo pericolo è anche uno scontro culturale, una lotta per il diritto alla politica.

Nessuna neutralità, quindi: contro i terroristi e per la democrazia.

Questa scelta di campo, ancora una volta, è indiscutibile e decisiva.

L’economia, i maghi della finanza, il libero commercio da soli non possono governare le contraddizioni che si sono aperte. E che senza una politica dotata di respiro strategico sono destinate ad accrescersi.

Se le parole hanno un senso, un peso, non possiamo dire che tutto cambia, che cambia la storia del mondo, e non trarne le conseguenze.

Prima tra tutte il fatto che si apre una corsa contro il tempo.

Si tratta di capire se i valori della politica, della democrazia, della sinistra saranno in grado di recuperare il terreno e di imporsi come una necessità del futuro.

Ma questa è la ragione per cui non possiamo accontentarci di quello che siamo: perché la trasformazione che ci investe non si capisce, non si governa, con le culture del secolo scorso.

Ci viene chiesto – viene chiesto alla sinistra – di guardare avanti, di ricercare nuove vie, di non avere paura.

Noi non possiamo avere paura del futuro.

Questo dev’essere il vero collante che ci tiene uniti.

Poi avremo opinioni diverse, punti di vista differenti. Ma al fondo, la vera questione è che la grandezza dei processi in atto non chiama la sinistra alla rilettura del passato ma all’esplorazione dell’avvenire.

* * *

Questi – care compagne e compagni – sono i problemi che abbiamo davanti.

Ed è legittimo chiedersi quale sarà di fronte a sfide di questa natura il ruolo dell’Italia.

Negli anni passati abbiamo raggiunto traguardi fondamentali: l’Euro, la funzione svolta nei Balcani e durante il conflitto nel Kossovo.

Siamo stati un ponte credibile tra Stati Uniti, Europa e mondo arabo.

Ci siamo fatti apprezzare, dopo anni di silenzi e di imbarazzo, per la serietà con la quale abbiano rispettato i nostri obblighi internazionali.

Tutto questo rischia ora di venire appannato.

Rischiamo un passo indietro tanto più dannoso perché coinciderebbe col momento di maggiore tensione della vicenda politica mondiale.

Il G8 di Genova e l’incapacità drammatica del governo a gestire eventi di tale rilievo sono una ferita che si cicatrizzerà soltanto con scelte e comportamenti diversi.

Ma al di là di singoli episodi che hanno rivelato una certa improvvisazione e incapacità, c’è una preoccupazione di fondo che riguarda il segno della politica estera del governo in questi primi mesi.

L’Italia può esercitare un forte ruolo autonomo sulla scena internazionale solo all’interno di un disegno di unità e coesione dell’Europa. E non invece nella ricerca di un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione americana. Un rapporto da “primi della classe” che non paga e non aiuta a rafforzare il nostro prestigio.

Lo diciamo con senso di responsabilità. Lo stesso che abbiamo dimostrato apprezzando quel comune sentire degli ultimi giorni quando il governo ha mostrato, dopo la tragedia negli Stati Uniti, attenzione verso l’opposizione e i suoi diritti.

Un apprezzamento che non ci esime dalla preoccupazione per la credibilità internazionale del paese.

Il ruolo dell’Italia, il suo prestigio, sono un patrimonio di tutti; un interesse generale della nazione.

E noi siamo pronti con le parole e i fatti ad assumerci fino in fondo le nostre responsabilità.

Ci muove ancora una volta un alto senso dello Stato, la coscienza di essere una forza che ha saputo esercitare appieno una funzione di guida del paese.

Eccoci.

Siamo qui.

L’Italia, il Parlamento, il governo, i nostri alleati internazionali possono contare sull’Ulivo e su di noi.

Ma attenzione, perché con la stessa chiarezza noi diciamo alla maggioranza e all’Onorevole Berlusconi: non approfittatene.

Non scambiate la nostra responsabilità verso le istituzioni e verso il paese come un cedimento.

Lo diciamo al governo che quando verrà in Parlamento a chiedere con un voto, come è giusto, troverà il sostegno responsabile a tutte le misure che in modo efficace e adeguato si attiveranno nella lotta al terrorismo.

Noi faremo la nostra parte ma esigiamo il pieno rispetto delle regole democratiche.

Proprio perché in cima a tutto mettiamo gli interessi dell’Italia.

Ed è per questo che non metteremo la sordina sui danni che arrecate al futuro di un paese che noi abbiamo contribuito a salvare dalla bancarotta governandolo con giudizio ed equità.

Lo ripeto: non approfittatene.

Sentiamo balenare il messaggio di una “finanziaria di guerra” per coprire le mancate promesse della campagna elettorale.

Siate seri!

Noi abbiamo affrontato una guerra che ha impegnato direttamente il paese senza chiedere una lira in più agli italiani.

E non pensi il Presidente del Consiglio di approfittare della guerra per far dimenticare che egli si era impegnato solennemente a risolvere il tema del conflitto d’interessi nella prima riunione del Consiglio de Ministri.

“Lo farò entro i primi cento giorni” aveva detto.

Bugie!

Come non capire che questo non aiuta a considerare l’Italia un paese come gli altri?

Altro che disfattismo!

Noi poniamo la questione decisiva dell’autonomia dell’Italia nel nuovo sistema di relazioni internazionali.

E chi non affronta e non risolve questa anomalia spinge la nazione verso una nuova marginalità.

Il pericolo è contare di meno. Essere di nuovo degli osservati speciali.

Ecco perché continueremo a incalzare il governo.

Perché siamo davanti a una questione di fondo che investe le prospettive dell’Italia e il suo avvenire.

* * *

Allo stesso tempo, è fondamentale che l’Ulivo non smarrisca la cultura di governo costruita nel corso degli anni.

L’opposizione di chi ha guidato il paese dev’essere rigorosa e intelligente.

Questo vuol dire rimanere sulla scena come una grande forza di governo; mantenere ed estendere, soprattutto in una fase come questa, la rete dei collegamenti internazionali in modo da svolgere un ruolo attivo e propositivo.

Noi – e non solo noi – abbiamo avvertito nei mesi successivi alla sconfitta la difficoltà a riprendere il filo di un’azione adeguata, efficace.

Ci sono state incertezze e qualche smarrimento.

Ma ora non è tempo di penitenza.

Adesso bisogna risollevarsi.

Bisogna ripartire.

Una parte importante del paese si attende questo.

Nessuna resa dei conti ma un’opposizione forte, decisa, che sappia presentarsi come un’alternativa di governo credibile.

Ma è un obiettivo che ci chiede innanzitutto di mantenere e rafforzare l’unità dell’Ulivo.

Disperdere in una disputa tra i partiti la ritrovata coesione della campagna elettorale, sarebbe un errore grave.

Bisogna sapere che mai come oggi – con al governo una destra socialmente iniqua – la nostra vera forza è nell’Ulivo.

Fissare un quadro di regole certe, dare forza all’Ulivo anche con un radicamento democratico, rilanciare il coordinamento dei parlamentari del centrosinistra: questi sono gli obiettivi definiti insieme a Francesco Rutelli in vista della convenzione dell’Ulivo della prossima primavera.

Senza titubanze. Evitando gli errori compiuti nel passato e di cui anch’io, per la mia parte, mi sento responsabile.

In questo quadro guardiamo con favore alla crescita della Margherita.

Quell’aggregazione ora può e deve consolidarsi.

E a noi spetta il compito di costruire una sinistra più forte, più larga, più unita.

Ma la Margherita si rafforzerà e con essa si rafforzeranno la sinistra e le altre sue componenti se l’Ulivo vivrà come un soggetto reale, se sarà in grado di parlare al paese.

Diciamoci la verità: dopo la sconfitta poteva spezzarsi il nostro legame profondo con una parte importante dell’Italia.

Ma appunto per questo la nostra opposizione ha bisogno di recuperare un rapporto con le persone, di restituire fiducia e speranza.

* * *

Cari compagni,

fare l’opposizione richiede certamente dei “No”.

Ma l’opposizione deve anche misurarsi con un corpo di idee e progetti propri.

Deve indicare degli obiettivi e battersi.

Uno di questi, importante, è davanti a noi.

E’ la battaglia per un “Sì” al referendum sulla riforma federalista del prossimo 7 ottobre.

“SI’” per una vera grande riforma che vuole cambiare il paese e di fronte alla quale la maggioranza è divisa tra chi vota SI’, chi vota NO e chi fa appello a starsene a casa: eccola qui la classe dirigente che dovrebbe cambiare l’Italia!

Noi lavoreremo perché la gente non stia in casa ma vada a votare SI’.

Lo faremo per rafforzare una riforma che avvicina il potere ai cittadini. Una riforma invocata dai comuni, dalle province e dalle regioni e che garantisce l’unità del paese e l’uguaglianza dei diritti sociali tra tutti i cittadini

Altro che i giuramenti padani!

Anche da qui, dunque, da questa prossima scadenza passa una buona opposizione.

E’ un’illusione pensare che il nostro ruolo si riduca a inceppare l’azione del governo in un Parlamento dove i numeri non sono dalla nostra parte.

Ma se è vero che non si governa solo dai Palazzi, e lo abbiamo capito sulla nostra pelle, è tanto più vero che l’opposizione non si fa solo in Parlamento.

L’opposizione vive nel legame diretto con la gente, nel confronto quotidiano tra “noi” e “loro”, tra la buona amministrazione di tante città e regioni come questa e i guasti di cui sono capaci.


* * *

Del resto i primi passi del governo parlano da soli.

Mostrano quanto sia necessaria un’opposizione decisa e consapevole dei propri mezzi.

Basta guardare allo scarto tra le promesse e le scelte concrete di questa destra.

E’ vero: c’è un tempo per ogni cosa.

Diciamo che ai pensionati è toccato il tempo della propaganda e dei comizi. Poi le pensioni sono rimaste le stesse.

Noi le pensioni minime le abbiamo aumentate.

Il problema è che in generale non hanno molta dimestichezza con i conti.

Il ministro Tremonti ha impiegato tre minuti di telegiornale per dimostrare l’esistenza di un buco inesistente.

Non mi pare che i dati dell’Istat pubblicati qualche giorno fa abbiano avuto lo stesso spazio.

Dati ufficiali, che parlano di un “risanamento robusto”.

“la spesa pubblica italiana è scesa più rapidamente rispetto al resto d’Europa”.

E “la pressione fiscale non è affatto fra le più elevate ma è di 0,7 punti percentuali inferiore alla media dei paesi dell’area dell’Euro”.

Queste sono le cifre, caro Ministro Tremonti.

Sarebbe il caso che lei andasse alla televisione per chiedere scusa agli italiani e all’Ulivo.

* * *

La verità è che le scelte compiute dal governo in questi primi mesi rivelano lo spirito della nuova classe dirigente.

Berlusconi aveva chiesto dieci anni per occuparsi dell’Italia.

Ma non aveva detto che i primi sei mesi gli servivano per occuparsi degli affari suoi e di quelli dei suoi amici.

Meno tasse ai miliardari.

Una modifica della legge sul falso in bilancio con la prescrizione di un reato che lo vedeva imputato.

Fino a un pacchetto di regalie alla grande impresa; scelta legittima in cambio di nuovi investimenti, nuovi posti di lavoro, incentivi alla crescita.

Invece niente di tutto questo.

E’ tanto se gli hanno detto “Grazie”.

Poi, presi dal buon umore, alcuni imprenditori hanno rispolverato l’antica vocazione al licenziamento senza troppi vincoli.

Così, tanto per mostrare d’aver a cuore gli interessi del paese e dei lavoratori.

Ma vedete, è proprio qui il punto, la differenza di fondo tra noi e la destra.

E’ una differenza culturale prima che politica.
La loro idea della competitività del paese è chiara: aiutare i ricchi e dare mano libera alle imprese.

Noi sappiamo che una idea moderna di competitività ha al centro il grande tema del lavoro.

Creare lavoro, arricchirlo di nuovi contenuti, renderlo sempre più qualificato.

Quale lavoro, insomma, oltre a quanto lavoro.

Educazione, cultura, formazione: è su questo che si gioca il nostro futuro.

Vedete, noi abbiamo dato prova negli anni scorsi di non temere le parole.

Abbiamo discusso di flessibilità, di come favorire l’ingresso nel mercato del lavoro di una nuova generazione.

Ma lo abbiamo sempre fatto avendo a cuore l’equilibrio e la coesione sociale del paese.

Restiamo convinti che dalla qualità del lavoro dipendono anche il successo e lo sviluppo delle imprese.

Non abbiamo governato con una parte contro l’altra.

Mai, neppure nei momenti più critici.

Quel che colpisce oggi, invece, è il disegno complessivo: l’idea che si debbano azzerare le riforme degli ultimi anni, cancellare tutto ciò che è stato fatto senza che emerga un quadro di proposte alternative e credibili.

L’obiettivo non è più la modernizzazione dell’Italia in un contesto di equità e di pace sociale.

Non ci si confronta neppure col merito delle riforme che sono state introdotte: la scuola, l’assistenza, i diritti dell’infanzia, delle donne, delle famiglie. Innovazioni condotte sempre con l’occhio rivolto ai più deboli.

No, prevale solo un’ansia distruttrice verso provvedimenti che molto spesso hanno risposto a criteri di buon senso, di efficienza, di solidarietà.

In questo senso la nuova legge sull’immigrazione è l’emblema di questo modo di procedere.

Certo ci vuole severità, accoglienza ed efficienza nella lotta contro il crimine e l’immigrazione clandestina insieme a una politica di accoglienza e integrazione: sfide complesse che non si risolvono con leggi manifesto

Che senso ha stabilire che il clandestino è un criminale?

Non sarà certo la minaccia di sei mesi di carcere che spaventerà chi viene in Italia per gestire la prostituzione o rapinare le ville. Mentre questo spingerà a nascondersi quella povera gente scaricata sulle nostre coste dagli scafisti.

Alla fine noi avremo più clandestini, più lavoro nero, più manodopera per la criminalità: sarà un fallimento totale.

E le città più sicure, onorevole Berlusconi?

Aumentano i crimini, anche i più odiosi, come le rapine nelle case delle persone e il governo non fa assolutamente nulla.

Certo non si poteva pretendere che tutto fosse risolto in cento giorni, ma non è stato compiuto un solo atto, non c’è un solo gesto di attenzione rivolto al tema della sicurezza dei cittadini.

Anzi con i fatti di Genova, è stato inferto un colpo alle forze dell’ordine, seminando sconcerto e disorientamento negli stessi apparati di sicurezza dello Stato.

E questo sarebbe il consuntivo dei primi cento giorni.

Per l’amor del cielo: fermatevi!

Prendetevi una pausa di riposo!

* * *

Di tutto ciò comunque non si parla o si parla poco.

Anche questo – vedete – è un segnale preoccupante.

L’impressione che vi possa essere, soprattutto in un sistema televisivo ormai asservito agli interessi di un solo padrone, una reticenza di fondo.

La paura di disturbare il manovratore.

Per noi, invece, il capitolo dell’autonomia e del pluralismo dell’informazione segna un discrimine profondo.

Perché è una grande questione di democrazia, di cultura e di libertà.

E dovrebbe allarmare tutti i sinceri liberali il fatto che ancora una volta il progetto di spezzare il duopolio televisivo in Italia sia morto prima ancora di vedere la luce.

Sarà questo un terreno di iniziativa e battaglia politica che condurremo con lo schieramento più ampio e unitario possibile.

Con l’Ulivo, con le forze della cultura, le associazioni, i singoli cittadini.

Una grande iniziativa per il pluralismo dell’informazione e per la libertà di pensare in modo diverso.

Ecco, tutto questo va detto agli italiani.

Va detto con l’orgoglio per ciò che abbiamo fatto, con la coscienza dei nostri limiti, ma anche con la preoccupazione verso la cultura che affiora da questa nuova maggioranza.

Una cultura dello Stato e delle regole che mescola in modo insopportabile affari privati e bene pubblico, interessi personali e benessere generale, sfera del diritto e convenienza momentanea.

Tutto questo non è compatibile con una democrazia solida e matura.

* * *

Come vedete – cari compagni – siamo entrati in una fase delicata che ci chiama alle nostre responsabilità.

In questa cornice difficile si svolgerà anche il nostro congresso.

Un congresso atteso, partecipato, e dal quale dovrà uscire un partito più forte e motivato.

I fatti – le cose del mondo – ci spingono a rimettere in campo la sinistra, le sue ragioni.

E’ giusto riflettere sul passato e sugli errori compiuti, ma questa riflessione ha senso se è volta a costruire il futuro.

E’ possibile che questo nostro lungo percorso si concluda con un atto d’orgoglio, di chiarezza, di unità.

Molti compagni esprimono una sofferenza vera.

La paura che una discussione così logorante si traduca in una resa dei conti.

C’è un appello che proviene dal partito, dai militanti, dagli iscritti.

Un appello che dice: “non litigate più”.

E’ un richiamo che va raccolto. Perché la vicenda della sinistra italiana e il suo destino non sono nella nostra disponibilità.

Noi dobbiamo consegnare a chi verrà dopo una sinistra vitale, forte, combattiva.

Un sinistra ricca di passioni, non di rimpianti.

E allora confrontiamoci, discutiamo, votiamo, perché la vita democratica di un partito è la sua carta d’identità. Ma con il pensiero rivolto al giorno dopo, quando ci ritroveremo uniti per costruire insieme una sinistra più forte.

E ciò sarà tanto più facile se nella sincerità del confronto sapremo rispettarci gli uni con gli altri e rispettare ciò che abbiamo fatto per l’Italia.

E ai compagni, agli iscritti, diciamo: “venite in sezione. Partecipate a questo confronto”.

Se saremo in tanti tutto sarà più facile e anche i dirigenti saranno aiutati a non sbagliare dalla passione unitaria di tante donne e tanti uomini che hanno a cuore il futuro della sinistra.

E’ giusto: c’è bisogno di rinnovamento, di una nuova generazione di dirigenti.

Io mi sento di dire che c’è posto.

C’è posto, perché molto rimane da fare.

Ma insisto, noi abbiamo la responsabilità di guardare al giorno dopo il congresso.

Sarà da lì che riprenderà un cammino di unità e di lotta.

Dobbiamo fare in modo che molti giovani, molte donne in quel momento siano con noi.

I ragazzi della Sinistra Giovanile che abbiamo lasciato troppo soli nelle giornate di Genova, ma che stanno crescendo in fretta come accade sempre quando una generazione è chiamata a misurarsi con sfide difficili.

Le donne di questo partito, capaci di offrire un contributo prezioso di idee, valori, progetti che ci rammentano la forza di una identità comune.

Da loro viene un messaggio forte che unisce la lotta di decenni per eguali diritti e opportunità alla rivendicazione di una differenza che è prima di tutto, una visione del mondo, della libertà, dell’autodeterminazione.

Le donne hanno più diritti da rivendicare e per questo corrono più rischi.

Ma la storia ha dimostrato che una condizione di debolezza, di sofferenza – pensate alle giovani ragazze afghane alle quali è negato il diritto di studiare – è divenuta spesso la ragione della loro forza.

E così dovrà essere in futuro.

* * *

Care compagne, cari compagni,

io non so dire se davvero ci attende una lunga traversata.

Né so quanto sarà lunga o tormentata.

Avremo tempi difficili, questo sì.

Saremo chiamati a prove impegnative.

Ma la sinistra italiana sarà in campo, come sempre, con uno spirito unitario.

Più riusciremo a unire la sinistra, ad allargarne i confini, più saremo forti e in grado di affrontare le sfide.

Noi abbiamo perso le elezioni, ma non la voglia di batterci per le nostre idee, per vincere, per tornare a guidare il paese.

Adesso siamo pronti al cammino.

Uniti. Consapevoli. Orgogliosi.

L’Italia ha ancora bisogno di noi.

E noi – care compagne e cari compagni – ci saremo.

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