Intervista
17 novembre 2001

2° Congresso dei DS: il testo dell'intervento di Massimo D'Alema

Pesaro, 16- 18 novembre 2001


Care compagne, cari compagni,
dobbiamo tutti essere grati a Piero Fassino per la schiettezza con la quale egli ha voluto proporre al Congresso una piattaforma più avanzata rispetto ai termini della discussione che si è svolta nelle sezioni. Una piattaforma che, senza la pretesa di proporre una sintesi unitaria alla vecchia maniera, offrisse a tutti l’opportunità di un confronto più ricco, elementi di un programma di lavoro comune, il quadro di un progetto forte entro il quale le differenze possano vivere come un valore e non come un elemento paralizzante e disgregante.
D’altro canto Piero è stato spinto a questo non solo dalla sua sensibilità unitaria ma anche dalla necessità di misurarsi con grandi e sconvolgenti novità che hanno mutato il contesto nel quale si è svolto e si svolge il nostro dibattito. Una discussione che avviene mentre il mondo cambia senza che, a volte, se ne tenga adeguatamente conto.
E non si tratta soltanto della novità terribile del terrorismo. Tutto il carico di pericoli che esso porta con sé: il terrorismo, la guerra, il rischio di una militarizzazione della politica ma anche i nuovi processi politici che delineano alleanze, convergenze, collaborazioni, opportunità che nel passato apparivano impensabili.
Siamo certamente di fronte a una sfida drammatica ma viviamo anche un momento straordinario della storia del mondo.
La mia impressione è che di fronte a tutto questo la sinistra europea nel suo complesso abbia sofferto una vecchiezza delle sue categorie; abbia finito per tornare a dividersi tra filo-americani e anti-americani, tra Realpolitik e pacifismo; tra le ragioni di una politica di potenza e una visione europea. La verità è che mai come in questo momento è apparso chiaro che la piena assunzione delle nostre responsabilità e dei nostri obblighi per quanto attiene all’uso della forza non solo non si contrappone all’esigenza di un rilancio delle ragioni della politica ma ne è una ineludibile condizione. Vedete, nessuno più di me dà atto del significato etico e politico del dissenso di un pacifismo di cui vedo le radici profonde nel nostro Paese. E questo forse non avviene a caso - mi è già capitato di parlarne - in Italia e in Germania più che in altri Paesi europei. Bisogna però anche dire che il valore etico del dissenso pacifista risalta perché dall’altra parte c’è il valore etico del consenso responsabile della grande maggioranza dell’Ulivo. E questo perché se il dissenso pacifista fosse diventata la posizione dell’Ulivo, non solo non se ne sarebbe colto il valore etico ma sarebbe stato un disastro politico che avrebbe consegnato all’On. Berlusconi ciò che egli non merita e cioè il diritto di poter dire “l’Italia è in Europa e nel mondo grazie al fatto che io la governo e ho la maggioranza”.
Noi dobbiamo forse domandarci perché leader come Yasser Arafat, Nelson Mandela, o su di un piano molto diverso Gheddafi, hanno compreso che il colpo a questo terrorismo andava dato. Parlo di leaders che non sono certo sospettabili di filoamericanismo. Eppure personalità che più direttamente di noi hanno capito il rischio terribile di un mondo dominato dallo scontro, dal terrorismo, da una politica di potenza. Hanno capito forse perché prima di noi che cosa è questo fondamentalismo oscurantista, reazionario; lo hanno percepito come l’altra faccia, il volto oscuro della globalizzazione. Qualcosa che rappresenta un pericolo terribile non solo per l’Occidente indicato come il nemico da abbattere, ma in modo particolare per quelle classi dirigenti, non solo moderate ma progressiste e laiche del terzo mondo, che sono l’alleato a cui per troppo tempo l’Occidente non ha teso la mano.
Allora io credo che da questa vicenda viene la spinta a liberarci di categorie, di modi di guardare alla realtà che sono figli di un’altra epoca, che avevano la loro ragion d’essere nel mondo della guerra fredda, delle grandi contrapposizioni ideologiche del passato e che oggi diventano un ostacolo all'esercizio pieno di una funzione politica. La politica significa oggi subito l’ONU in Afghanistan. Vedete come è cambiato lo scenario in una settimana. Al pacifismo poteva sembrare cruciale sette giorni fa fermare i soldati che partivano; adesso non ci sarebbe pacifista che non sente il bisogno che essi vadano presto a difendere i diritti umani, a pacificare, a impedire le stragi e le vendette. Vedete come sette giorni sono bastati a sconvolgere una visione statica perché, appunto, non in grado di cogliere queste novità.
La politica significa il Medioriente. Ne abbiamo parlato poco e non vorrei che da questo punto di vista ci trovassimo spiazzati da quello che io considero un fatto positivo cioè una ferma posizione del Governo italiano su questo.
C’è un dovere di iniziativa politica, c’è un dovere di solidarietà. Nell’agenda di un grande partito deve tornare ad esserci l’organizzazione della solidarietà concreta verso i profughi dell’Afghanistan ma anche verso le popolazioni palestinesi che vivono nei territori assediati una condizione drammatica.
La politica significa tornare a proporsi obiettivi ambiziosi che a me sembrano la vera frontiera di una battaglia per la pace, e cioè un ordine mondiale che abbia regole, istituzioni, poteri in grado di prevenire i conflitti, in grado di sostituire a quello che fu un ordine che nessuno rimpiange - l’ordine fondato sul bipolarismo e sull’equilibrio del terrore - un ordine fondato sul diritto internazionale, sul rispetto dei diritti umani e su quei valori che sarebbe sbagliato definire occidentali perché sono valori universali, anche se certamente hanno avuto qui in Europa la loro culla.
Vedete, io credo alla forza creatrice della politica ma naturalmente la forza creatrice della politica di cui parlava Antonio Gramsci non è fantasticare a prescindere dalla realtà. E’ capacità di costruire strumenti, istituzioni, forze in grado di fare scaturire dalla realtà delle cose le soluzioni più avanzate possibili.
E oggi la politica ha innanzitutto bisogno di strumenti e vale poco dire che non dobbiamo passare dall’ossequienza verso l’Unione Sovietica - dalla quale per la verità ci eravamo liberati da tempo - a una sorta di riconoscimento agli Stati Uniti del ruolo di Stato guida.
In definitiva vale poco lamentarsi del fatto che oggi nel mondo globalizzato vi sia un solo attore politico globale. La vera risposta a questo problema sta nella capacità di metterne in campo altri.
Parlo di Stati, istituzioni, movimenti e da questo congresso non deve uscire una lamentazione ma delle proposte perché tra qualche giorno si riunisce il Consiglio dell’Internazionale Socialista.
Io dico certamente “se non ora quando” l’Internazionale socialista debba battere un colpo, debba dire una parola, debba fare sentire qual è la sua funzione. E’ la prima grande assise mondiale dove saremo insieme, l’Europa, l’Asia, l’Africa, ed è il momento di dire qualcosa di importante se vogliamo restituire la parola alla politica.
Ma certo è del tutto chiaro che la leva fondamentale per quella politica che vogliamo che torni ad essere protagonista è per noi l’Europa. Non un’Europa contrapposta agli Stati Uniti ma un’Europa in grado di essere partner degli Stati Uniti, di assumere le proprie responsabilità. Quella Europa, potenza gentile come è stato scritto, anche perché segnata nella sua cultura, nei suoi valori, dall’azione della sinistra, del movimento socialista, oltre che dai grandi movimenti religiosi, laici, democratici.
Quell’Europa che rimane la parte del mondo più sensibile ai valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dei diritti umani e il cui ruolo nella costruzione di un nuovo ordine mondiale risponde quindi anche a una essenziale necessità di fare pesare questi valori nel processo che si è aperto.
L’Europa, ripeto, non le singole potenze europee. In queste settimane si è svolto un confronto ed io giudico la linea di evoluzione emersa positiva non negativa.
E’ vero che c’è un ritardo - ne siamo consapevoli - nella difesa europea, nella politica estera comune ma è anche vero che mai come in questi giorni è emersa la necessità di un’azione politica ed anche di un’assunzione di responsabilità militare da parte delle maggiori potenze europee:
E’ vero che la Gran Bretagna è stata come sempre al fianco degli Stati Uniti ma è anche vero che mai come in questa crisi si è avvertita una preoccupazione europeista del gruppo dirigente della Gran Bretagna. Con Tony Blair noi abbiamo in Gran Bretagna, per la prima volta, una classe dirigente animata da un’autentica tensione europeista. Guai se noi non vediamo anche questi segnali di novità, queste possibilità e se non comprendiamo quanto è importante in questo momento la battaglia che conduce Romano Prodi al quale voglio esprimere non solo solidarietà politica ma anche vicinanza umana in una battaglia difficile nella quale non è in gioco un conflitto di potere tra istituzioni. E’ in gioco molto di più e cioè la possibilità di fare crescere una statualità sovranazionale che è la condizione per cominciare a dare una risposta a quella domanda di democrazia che è il fondamento più significativo e profondo dei movimenti dei giovani intorno al tema della globalizzazione. Di quella protesta che nasce da un mondo nel quale il potere non sembra più controllabile e dove le grandi decisioni sfuggono alla possibilità della partecipazione dei cittadini. Vedete, guai se non cogliessimo il valore di questa protesta, guai se non tenessimo aperto un dialogo. Ma guai se noi non vedessimo che il compito del riformismo è riempire quel vuoto tra apologia di una globalizzazione senza regole e rifiuto e paura della globalizzazione, che è esattamente il vuoto che chi crede nella politica deve porsi il compito storico di riempire. Insomma una grande forza politica, un movimento mondiale si arricchisce nel confronto con i movimenti, ma non può travestirsi ed accodarsi perché viene meno alla sua funzione.
Sono convinto che cedendo a questa possibilità - accodarsi alla protesta dei movimenti – poi alla fine ci rispettano anche di meno. Questi nuovi movimenti hanno bisogno di qualcuno che discuta con loro, ma più è forte politicamente e culturalmente il punto di vista che portiamo a quel confronto e più il confronto sarà utile, e più ci staranno ad ascoltare.
In un momento così straordinario della storia nel mondo noi avvertiamo – io con amarezza, ma credo tutti noi – il problema della debolezza dell’Italia. E badate, alla fine io credo che la critica di fondo che noi dobbiamo rivolgere alla destra è questa: di un Paese in questo momento minato nella sua credibilità internazionale che sembra affidarsi esclusivamente al prestigio del Capo dello Stato, e meno male che c’è. Un paese minato certo dalle scelte e dai comportamenti di chi ci governa ma anche dalla debolezza e dalle divisioni dell’opposizione. Anche questo, attenzione, non aiuta il nostro prestigio, e noi dobbiamo saperlo. Perché anche questo è un metro della serietà di un grande Paese. E comunque certamente abbiamo a che fare con una classe dirigente guardata con sospetto non per un complotto mondiale del comunismo ma perché condizionata da un groviglio di interessi particolari, inconfessabili. Una classe dirigente che rappresenta un’anomalia nel quadro delle democrazie liberali. Non c’è niente da fare, le cose stanno proprio così. Ed anche per altre ragioni. Perché questa classe dirigente divide il Paese, ecco la verità. E si propone più come una somma di particolarismi, di corporativismi, di egoismi che come un progetto coerente di società e di modernizzazione della società italiana, sia pure in chiave liberista.
Avverto che su questo punto c’è tra di noi una discussione vera, una differenza di analisi. Continuo a pensare che sarebbe un errore scambiare questa destra con la signora Thatcher. Continuo a pensare che al fondo della destra italiana rimane ancora una fondamentale resistenza antiliberista, che sia una destra venata di statalismo, di corporativismo protesa a difendere un groviglio di interessi. Una destra che non è in grado di liberare il Paese da quelle pastoie e da quegli impedimenti che certamente vi sono e che impediscono il pieno dispiegarsi delle potenzialità della nostra società e della nostra economia.
Fassino ha indicato in modo puntuale gli elementi costitutivi della nostra battaglia di opposizione. Battaglia che, per la verità, dopo un’incertezza iniziale ha cominciato a prendere quota. Anche perché di fronte a ciò che veniva fatto è stato anche forse più semplice delineare una reazione; penso a quelle che abbiamo definito leggi vergogna. Il fatto che vogliamo arrivare ad un referendum almeno sulle norme più gravi contenute nella legge sulle rogatorie per cancellarle dal nostro codice rappresenta una scelta di campo chiara e significativa. E’ anche questo un modo per collegarci con le ragioni di un movimento che riprende nella società. E da questo punto di vista è stata certamente molto importante la grande manifestazione dei metalmeccanici di ieri mattina a Roma. E sono d’accordo con Bruno Trentin che ne ha dato qui la lettura giusta, e cioè un momento che non sottolinea le divisioni ma una grande manifestazione che deve incoraggiare l’unità. In questo senso noi ci rivolgiamo anche alle altre organizzazioni sindacali perché c’è una convergenza di giudizio fra i tre sindacati malgrado le divisioni su alcuni fra gli aspetti più gravi della politica del governo. Questo è un fatto importante così come è importante la ripresa di un movimento nelle scuole dove avanza un disegno controriformista che rappresenta la negazione più radicale di quella istanza di modernità di cui la destra si riempie la bocca. Ma l’opposizione non può limitarsi a ribattere colpo su colpo, non può lasciarsi chiudere sulla difensiva, non può accettare lo schema fasullo di un governo che vuole cambiare mentre noi difendiamo conquiste che pure è giusto difendere. Se noi ci facciamo chiudere in quest’angolo sarà più difficile preparare quella rivincita che sentiamo necessaria e che certamente richiederà un lavoro duro e coerente. Spetta a noi a rispondere all’inquietudine e alla protesta sociale rimettendo in campo un progetto di cambiamento dell’Italia: della società, dell’economia e delle istituzioni del nostro paese. Un progetto in grado di unire lavoro, impresa, intelligenza sociale. Vedete, quando abbiamo vinto noi abbiamo vinto per questo. Abbiamo riflettuto sulla sconfitta del congresso, possiamo continuare a farlo ma credo che forse la riflessione sulla sconfitta avrebbe dovuto intrecciarsi di più anche con una riflessione sulla vittoria. Abbiamo vinto nel ‘96 perché eravamo uniti certo, per l’Ulivo certamente, ma anche perché avevamo messo in campo un progetto di modernizzazione del paese che si identificava nell’Euro, nel legame con l’Europa. Un progetto che ha parlato alle forze fondamentali dell’economia e della società. E la forza del centrosinistra è venuta appannandosi quando, realizzato quel progetto di cambiamento, noi non siamo più stati in grado di metterne in campo un altro più avanzato in grado di dare una risposta agli stessi problemi che il successo dell’Euro aveva creato portando l’Italia in Europa e mettendo l’economia italiana di fronte alla sfida di una competizione che non aveva più riparo nella svalutazione della moneta. Occorreva allora mettere in campo un processo di riforme in grado di dare nuova competitività al paese, di affermare in questo quadro nuovi diritti e nuove libertà e noi non siamo stati capaci di farlo. Ecco, vorrei che questo fosse il tema centrale di quella convenzione dell’Ulivo a cui il nostro congresso deve passare il testimone; un grande momento democratico rifondativo dell’alleanza di centro sinistra intorno ad un progetto per l’Italia. In questo processo dovranno avere spazio anche la passione e la ricchezza del nostro dibattito liberato da quei problemi che il congresso ha risolto.
Possiamo offrire all’Ulivo un contributo programmatico che con l’apporto delle altre forze e delle altre culture deve portare ad una sintesi più credibile e convincente.
Vedete, credo che Fassino ci ha aiutato a fare un grande passo avanti. In particolare perché è stato in grado, meglio di quanto siamo riusciti a fare noi che l’abbiamo preceduto, di proporre un rapporto tra Ulivo e socialismo europeo, e cioè le due grandi coordinate che definiscono la nostra politica, la nostra funzione e la nostra identità. Un rapporto non conflittuale, non di elisione reciproca, non antagonistico, ma un rapporto di arricchimento reciproco nella collaborazione con altre correnti del riformismo democratico.
E non c’è dubbio che la contrapposizione fra appartenenza al socialismo europeo e coalizione dell’Ulivo è apparsa, in determinati momenti, come un elemento paralizzante ed è forse l’errore più grave che noi abbiamo fatto. Del quale – per parte mia – mi prendo le mie responsabilità. Credo comunque che questa responsabilità non sia stata esclusiva, e penso che, dall’altra parte, abbia pesato una visione culturalmente confusa dell’Ulivo come luogo del superamento, non dell’alleanza, delle grandi tradizioni politiche europee. Un’impostazione che ha finito per alimentare l’attesa messianica di qualcosa di nuovo, di qualcosa che andava oltre, distaccandoci dal compito più prosaico e faticoso di costruire nel socialismo la nuova identità e il nuovo programma della sinistra italiana.
Vi voglio dire che anche Francesco Rutelli ci ha aiutato, e molto. Io ho apprezzato il suo intervento non solo per il sentimento sincero di amicizia, di sincerità, che egli ha portato qui – e d’altro canto è uomo politico intelligente e che capisce che se si incrina questa colonna poi è tutta la costruzione che rischia di traballare - ma anche perché egli ci ha aiutato a superare un altro antagonismo letale: quello tra i partiti, il loro radicamento, la loro capacità di essere forze organizzate e la coalizione. Queste esigenze sono complementari e guai se noi ce ne dimentichiamo finendo per contrapporre l’una all’altra in un conflitto estenuante ed esiziale.
Noi siamo già una grande forza del socialismo europeo e certo questa affermazione l’abbiamo enunciata da molti anni; il vero problema è che poi una grande forza del socialismo europeo non siamo riusciti a costruirla. L’enunciato è antico, ma siamo stati frenati da incertezze, ambiguità ed errori. Credo che oggi Piero Fassino ci riproponga questo progetto forte e chiaro in termini che ci consentono di raggiungere davvero l’obiettivo e non credo che avremo prove d’appello. Questa volta dobbiamo, tutti insieme, portare avanti il cammino verso un esito positivo. Questo grande obiettivo viene lanciato senza nessuna pretesa di autosufficienza e d’altro canto vorrei dire a Giorgio Tonini: quando si parla oggi una grande forza del socialismo europeo ci si riferisce ad un movimento la cui ricchezza, la cui capacità di confronto con culture religiose, ambientaliste, democratiche, liberali non è certo paragonabile a quella della socialdemocrazia degli anni Cinquanta.
Socialismo europeo è questo crogiuolo di culture progressiste. Questo processo di rinnovamento è cominciato già da tempo nel resto d’Europa; non hanno atteso noi e le nostre indicazioni, i nostri suggerimenti. Liberiamoci di quel provincialismo che a volte ci fa credere di essere l’avanguardia del mondo mentre forse dobbiamo ancora faticare per metterci al passo con le grandi forze socialiste del continente.
Nessuna tradizione, quindi, è autosufficiente. Ma vorrei dire di più: che sarebbe sbagliato che ci considerassimo tutti insieme autosufficienti, cioè ciò che resta delle grandi forze della sinistra italiana. Non lo siamo, tanto è vero che stiamo cercando le vie di un rinnovato confronto con la cultura, con la società, con le nuove generazioni perché altrimenti il mettere insieme soltanto noi stessi è operazione insufficiente. E’ vero, l’abbiamo tentata, è andata male, non ho difficoltà a riconoscerlo.
Io penso, cari compagni, che questo progetto che Piero ci ha proposto è un progetto in cui possono vivere in modo utile differenze che sono una ricchezza se si muovono dentro un progetto forte e condiviso anche perché altrimenti rischiano di essere un elemento di disgregazione e di crisi.
E’ talmente evidente che le cose stanno così che ne siamo tutti consapevoli. Nessuno può pensare che si voglia soffocare la dialettica interna al Partito; ma vorrei dire che anche bloccare questa dialettica nella logica delle contrapposizioni congressuali è un modo di impoverirla, perché questa dialettica è più ricca, perché ci sono dentro questo partito delle differenze che il Congresso non contiene: le donne, i giovani, le diverse culture politiche. E lasciatemi dire una cosa che spero non appaia scandalosa: ciascuno di noi, che è individuo, con il suo pensiero, con le sue idee, e non è mozione se non nel tempo del Congresso. Soltanto se noi ci rimettiamo a ragionare insieme supereremo questo limite perché, vedete, la logica della cristallizzazione è che ognuno ragiona per conto suo e poi ci si confronta e quando ci si chiude fra i propri ci si eccita a vicenda cosicché, quando poi si va al confronto, tutto risulta più spigoloso, più radicalizzato, più difficile.
Io dico: discutiamo insieme. Del resto sono convinto – e anche questo credo Piero lo farà meglio dei suoi predecessori- che le sedi collettive di questa discussione, quelle statutarie, funzioneranno con puntualità e in modo aperto. E vorrei dire che anche questa è una delle condizioni perché tra di noi le differenze politiche non diventino inasprimento dei rapporti tra le persone.
Vorrei dire che sono molto grato da questo punto di vista a Giovanni Berlinguer e ad Enrico Morando perché il modo in cui essi hanno guidato la battaglia congressuale è stato rispettoso verso le persone, non ha alimentato una logica di contrapposizione personale. Tuttavia abbiamo sentito in alcuni momenti una tensione eccessiva, quasi dannosa, che ha finito per enfatizzare oltre il limite questioni che forse avrebbero dovuto essere ridotte alla loro dimensione funzionale e fisiologica, compresa quella della nomina o meno di un Presidente del Partito, essendo del tutto chiaro, cari compagni, che il nostro Statuto e la realtà delle cose fa sì che la guida del partito sia quella che è stata votata nelle Sezioni e che nessuno più di me sarà rispettoso dei compiti, delle competenze, delle prerogative del Segretario del Partito. Oltre tutto perché a lui è andata la mia fiducia e credo che abbia le qualità politiche e umane per farlo nel modo migliore.
A noi, a ciascuno di noi spetta il dovere di dargli una mano perché, lo ripeto, ho paura che questa volta non ci sarebbe appello. Però è anche vero che le energie e le passioni che abbiamo visto ritornare in campo nel confronto di queste settimane – in questo senso le divisioni a volte mettono in campo anche energie e passioni – debbono volgersi ora verso gli obiettivi comuni che il Congresso indicherà. Sono le energie e le passioni decisive e che possono condurci alla vittoria.

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