(lettera sull'Unità in risposta ad un articolo del professor Paolo Sylos Labini apparso sullo stesso giornale il 16 novembre.)
Gentile professore,
in generale cerco di non replicare agli attacchi personali. Tendo volentieri a discutere - questo sì - opinioni e punti di vista anche assai distanti dai miei, ma di solito mi trattengo quando colgo nell'interlocutore un elemento di pregiudizio.
Se nel suo caso mi sottraggo a questa consuetudine è per due ragioni: la stima che nutro verso la sua figura di intellettuale e di studioso e, su un piano diverso, la speranza di sgomberare il campo - chissà - una volta per tutte - dall'accusa che da più parti mi viene rivolta di essere stato l'artefice di uno scambio inconfessabile e immorale in materia di Costituzione e di conflitto di interessi con l'onorevole Silvio Berlusconi.
«Un pettegolezzo, invecchiando, diventa un mito» così scrive in uno dei suoi illuminanti aforismi Stanislaw Lec. E questo mito mi viene fatto gravare sulle spalle da diversi. Da alcuni per una concezione consapevolmente calunniosa della lotta politica; da altri in buona fede, come nel suo caso, ma con non minore asprezza.
«D'Alema - lei scrive - ha come prima responsabilità quella di aver consentito che venisse aggirata, con un miserabile cavillo, una legge del 1957 che stabiliva la ineleggibilità di titolari di importanti concessioni pubbliche, e ha bloccato ogni serio tentativo di risolvere il problema del conflitto di interessi; tutto ciò per portare a compimento, niente meno, la riforma della Costituzione: con quel socio! Sembra incredibile».
Già, sembra incredibile; ma soprattutto ciò che lei scrive è falso, caro professore.
Ma procediamo con ordine.
Nel luglio del 1994 la giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò a maggioranza il ricorso contro la elezione a deputato di Silvio Berlusconi. I deputati del mio partito (del quale ero segretario da pochi giorni) votarono ovviamente contro, come gli altri parlamentari progressisti. Con la maggioranza si schierarono due deputati del Partito popolare, allora sotto la guida dell'on. Buttiglione. Non vedo proprio quindi che cosa mai avrei io consentito, in cosa potesse entrarci con la Bicamerale la decisione del '94. In realtà ciò che si dimostrò allora è (come poi più volte ho sostenuto) la insostenibilità di una norma che, in tempi di sistema elettorale maggioritario, affida alla giurisdizione domestica e politica del Parlamento il giudizio in materia di ineleggibilità. Anche per questo proposi in seguito una riforma che consentisse il ricorso di fronte alla Corte costituzionale, cioè a un giudice indipendente dalle parti politiche.
E anche questo aspetto dimostra quanto fosse necessaria una riforma della Costituzione.
Per realizzare le riforme l'Ulivo indicò la via di una commissione parlamentare in alternativa alla proposta della destra di una Assemblea costituente. E insistemmo molto sulla necessità che le riforme non fossero imposte dalla volontà di una maggioranza parlando - come recita il programma elettorale dell'Ulivo - di «un patto da scrivere insieme». Continuo a pensare che quella scelta fosse giusta e comunque quella linea politica, del dialogo e della comune responsabilità di fronte alle istituzioni, ci consentì di vincere le elezioni del 1996. Non è affatto vero che l'istituzione della Commissione Bicamerale bloccò o impedì l'esame di una legge sul conflitto di interessi. La legge venne discussa e approvata all'unanimità nell'aprile del 1998. Certo, si trattò di quella legge che il centro-sinistra considerò poi del tutto inadeguata a risolvere in modo efficace e serio i nodi del conflitto di interessi. Ma non fui certo io ad imporla, né vi era alcun nesso con la vicenda della Bicamerale che aveva tra l'altro già concluso i propri lavori.
In un bel libro di recentissima pubblicazione («Democrazia e conflitto di interessi. Il caso italiano») Stefano Passigli, che pure ricostruisce in chiave fortemente critica l'intera vicenda, ridicolizza la tesi dello scambio o «dell' inciucio» tra D'Alema e Berlusconi. In effetti basta leggere gli atti del Parlamento per rendersi conto che quella legge fu voluta dall'intero centro-sinistra; dal governo che fu attivamente partecipe della discussione e della elaborazione del testo con il sottosegretario Bettinelli, sino alle componenti più insospettabilmente anti-berlusconiane. Come ricorda Passigli in sede di dichiarazione di voto l'on. Elio Veltri, braccio destro del dr. Di Pietro, ebbe a dire «Questo testo non è molto distante dalla proposta di legge che avevo presentato - abbiamo ottenuto garanzie maggiori nelle procedure - perché la separazione della gestione fosse effettiva e il trust fosse effettivamente cieco». Nella maggioranza dell'Ulivo la posizione più critica fu invece proprio quella dei Ds che cercarono, almeno sul piano fiscale, di rendere la normativa meno "di favore" per il proprietario di Mediaset.
Se dunque errore vi fu, e certamente vi fu, esso rivelò un limite culturale dell'intero centrosinistra.
Ma i fatti smentiscono nel modo più netto la teoria dello scambio Bicamerale/conflitto di interessi di cui sarei stato protagonista io. Non mi sfugge tuttavia che, al di là dei fatti, il diffuso pregiudizio, il sospetto, il disagio per la ricerca di una intesa costituzionale con la destra ha finito per incrinare il rapporto di fiducia fra noi e una parte dell'opinione pubblica di sinistra. E ciò, paradossalmente, è tanto più significativo proprio perché quel pregiudizio non è fondato sui fatti né su una seria analisi politica della vicenda della Bicamerale.
La Bicamerale rappresentò infatti un momento indubbiamente positivo per l'Ulivo. Fu un aiuto per il governo Prodi in quanto concorse ad un clima parlamentare favorevole alle scelte difficili ma necessarie per la rincorsa dell'Euro. Fu un momento alto del profilo riformista. Costrinse la destra a un confronto che ne stemperò il carattere "eversivo" di forza di rottura istituzionale e fece emergere articolazioni e divisioni.
Soprattutto delineò un impianto di riforme - certo non privo di debolezze e incongruenze - ma che avrebbe potuto rappresentare la base per una grande riforma da fare in Parlamento e che segnasse un approdo sicuro della lunga transizione italiana. Fra l'altro sul tema che ci appassiona, della incompatibilità e ineleggibilità, il progetto della Bicamerale segnava un netto passo in avanti prevedendo la possibilità di ricorso alla Corte Costituzionale.
Fu Berlusconi a rompere e a far fallire il disegno della Bicamerale. Prova questa indubitabile che nel progetto di riforme non si nascondeva alcuna oscura concessione sui principi e sui valori, come pure invece si è poi detto in questi anni. E da questa rottura comincia la sua rivincita. Anche perché egli non pagò alcun prezzo e fu anzi aiutato dalla campagna sull' «inciucio» che, sostenuta in modo aspro anche da una parte della opinione del centrosinistra, gli spianò la strada scaricandolo di ogni responsabilità per aver fatto fallire le riforme costituzionali.
La verità è che non pochi furono quelli che, anche nel nostro campo, tirarono un sospiro di sollievo. E l'Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle resistenze conservatrici, finì per lasciare sbiadire via via (con l'eccezione della legge sul federalismo) il suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terreno costituzionale.
Resta in me la convinzione che ci abbia danneggiato di più - anche elettoralmente - non averle fatte le riforme che avere cercato di farle con la Bicamerale. Ma lei dice: «con quel socio!». Capisco il problema. E sarebbe troppo facile rispondere che le riforme si fanno in Parlamento e i soci non li scegliamo noi ma il popolo italiano. Questo non la commuove dato che come lei scrive nel suo libro non esclude - per una comprensibile indignazione civile - di «dimettersi da italiano».
Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l'impegno politico, ha l'ambizione di tornare a governare questo paese e intanto il dovere di concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni. Con questa destra, sulla quale il mio giudizio non differisce molto dal suo, continuo a pensare che tra «l'inciucio» (che non ci fu ma apparve), e la demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi) possa esserci una terza via capace di unire la nettezza della contrapposizione politica, programmatica, etica (quando ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando siano in gioco le istituzioni e il bene dell'Italia.