A chi serve davvero questa devolution? Insomma chi dovrebbe beneficiarne e perché altri avrebbero ragione a temerne gli effetti? La questione andrebbe posta al centro del confronto di questi giorni. E non solo per un dovere di chiarezza, ma per strappare un argomento di fortissimo impatto sulla vita dei cittadini dai tecnici degli addetti ai lavori. Mettiamola così; quando si parla di devolution, e più in generale di una riforma della Costituzione sul terreno del riparto delle competenze tra lo Stato e il sistema delle autonomie locali, si mettono i piedi nel piatto di problemi – dalla scuola alla sanità, alla sicurezza pubblica – che, sommati, configurano la costituzione materiale del Paese, il suo funzionamento quotidiano e concreto.
Ed è proprio qui la ragione prima della pericolosità del progetto del governo; nell’essere, su una materia tanto delicata, un disegno confuso ed ambiguo. E’ una devolution, quella di Bossi e Berlusconi, che potrebbe essere “tutto” o “nulla” a seconda della lettura che ne daranno i diretti destinatari. “Tutto” perché il progetto di riforma prevede la facoltà da parte delle Regioni di avvalersi di poteri assolutamente straordinari come, tra gli altri, l’istituzione di una polizia territoriale con compiti di repressione della micro-criminalità. “Nulla” dal momento che, per ovvie ragioni, è auspicabile che i più lascino una tale opzione scritta sulla carta, evitando su questo come su altri terreni l’esplosione di lacerazioni, disarmonie e conflitti dalle ricadute gravissime.
Il punto è che altri pericoli del genere, purtroppo, nel disegno del governo, non mancano. A partire dalla scuola, sulla quale, come è noto, la Costituzione prevede una competenza primaria dello Stato, ma che la devolution bossiana declina nel senso di un intervento diretto delle Regioni sui programmi didattici.Con una conseguenza devastante sotto il profilo della tenuta di un sistema unitario dell’istruzione pubblica, si da prevedere contenuti e saperi differenziati, magari in funzione di distinte maggioranze politiche. Ma, oltre a ciò, con un grado di confusione generalizzato dall’intero modello di riforma.
Questo per dire quanto appaia serio e giustificato l’allarme crescente nei confronti di un progetto di revisione costituzionale propagandistico confuso. Un impianto, soprattutto, che non affronta i problemi veri di un decentramento credibile, equilibrato, efficiente.
Quali sono, dunque, questi nodi? Ne indico tre. In primo luogo la verifica sullo stato di attuazione di quella riforma del Titolo V della Costituzione che il Parlamento approvò in chiusura della passata legislatura. Qui c’è un punto difficilmente aggirabile. Una riforma esiste già. Un progetto di decentramento coraggioso che già pone non pochi problemi. E’ del tutto evidente che un trasferimento di poteri così impegnativo richiede, al contempo, quelle garanzie di attuazione senza le quali non c’è né vi può essere da parte del sistema delle autonomie un’effettiva capacità di applicazione della riforma. Del resto, basterebbe a confermare questo dato le decine e decine di ricorsi depositati dalle Regioni presso la Corte Costituzionale aventi tutti come oggetto il conflitto di competenze tra Stato centrale e poteri decentrati. Ricorsi e contenziosi che ci segnalano però anche l’estrema difficoltà di una condivisione di funzioni. Soprattutto quando questa scelta si dovesse accompagnare, come nel disegno di Bossi, a una pericolosa ambiguità dell’impianto di fondo e all’insorgere inevitabile di conflitti tra centro e periferia, potenzialmente insanabili.
La seconda priorità da affrontare è legata alla riforma del Parlamento e all’istituzione, finalmente, di quella Camera delle Regioni, o Senato federale, senza la quale ogni architettura istituzionale fondata sul decentramento di funzioni e poteri è destinata a restare orfana di un pezzo costitutivo. Anche in questo caso non esistono scorciatoie o soluzioni di comodo. Se vogliamo dare alle Regioni la possibilità di partecipare attivamente al quadro delle decisioni comuni, non esiste altra via, né altro modello sperimentale, che il superamento dell’attuale bicameralismo perfetto.
Terza ed ultima urgenza è il rafforzamento del governo centrale. Siamo approdati oramai ad una situazione quasi paradossale. Quella di presidenti delle Regioni eletti direttamente dai cittadini, col potere e la legittimazione che ne consegue, ai quali fa da contraltare un Presidente del Consiglio che non può, neppure volendolo, revocare il mandato di un ministro in carica. Diciamo che si tratta di asseto istituzionale per lo meno disequilibrato, dove il processo federalista si è fatto strada sul versante della maggiore autonomia regionale, ma senza determinare l’altrettanto auspicabile rafforzamento del ruolo e del profilo dell’Esecutivo.
Insomma un governo fragile, questa è la realtà. Quella stessa fragilità che espone Berlusconi allo spiacevole ricatto di Bossi e alla sua minaccia di far saltare per aria l’intera maggioranza se la devolution non dovesse divenire legge. Ora, di là delle beghe interne al governo, come risolvere la contraddizione esistente? Non certo con lo strappo presidenzialista tanto caro al leader di Forza Italia, ma con una riforma adeguata ai bisogni di una democrazia efficiente e matura. Ad esempio, come alcuni sostengono da tempo, con un capo del governo scelto dai cittadini insieme alla sua maggioranza, quindi con un grado di legittimazione elevato, e dotato del potere di nomina e revoca dell’Esecutivo e dei sui singoli membri.
Ecco tre esempi – tre possibili vie, percorribili da subito – di una riforma costituzionale ragionevole e che potrebbe consentire, nell’immediato, la ripresa in Parlamento del dialogo tra maggioranza e opposizione. Sono scettico, purtroppo, sulla possibilità che qualcosa del genere possa accadere, tanti e tali sono i condizionamenti più o meno espliciti che il leader della Lega esercita sulla propria coalizione. Quel che mi preme sottolineare, però, è un elemento di verità nel dibattito acceso di questi giorni. Non è affatto vero che la destra vuole fare le riforme mentre il centrosinistra si oppone. La realtà, per quanto amara, è quella di una maggioranza prigioniera delle sue stesse promesse e delle cambiali sottoscritte a suo tempo in una campagna elettorale tanto roboante quanto bugiarda. Il fatto che dall’altra parte via sia chi, nonostante tutto, si ostina a richiamare l’attenzione sui ritardi e i limiti veri della nostra democrazia dovrebbe rappresentare un motivo di conforto per ogni persona assennata e, in quanto tale, convinta del bisogno di non sfasciare l’Italia nel nome di un improbabile dio Po.