Intervista
15 gennaio 2003

Svegliati, gigante

Dal numero speciale di Gennaio di Carta Capital settimanale di politica e cultura brasiliano.


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Massimo D’Alema, ex primo ministro ed ex segretario dei Ds, partito erede del Pci, principale leader della sinistra italiana, colleziona civette. Sono fatte di metallo colorato, vetro di Murano, ceramica, legno, “sono più di 250”, dice, esibendo alcuni esemplari nel suo studio, presso la fondazione Italianieuropei, della quale è presidente. Con forme svariate, da soprammobile a giocattolo, l’uccello notturno propriamente detto è rappresentato da un maestoso esemplare impagliato con piume azzurro scuro: una civetta alta più di mezzo metro, proveniente dalla Transilvania.
Appare superfluo domandare, ad un politico che ama distinguersi per la lucidità e la freddezza analitica, la ragione di tanta devozione per questo uccello che vede nel buio, noto simbolo di vigilanza e sapienza. Per gli antichi romani, gli antenati di D’Alema, l’uccello era simbolo di Minerva che impersonava la Sapienza.

Primo ministro tra il 1998 e il 2000, D’Alema è stato il primo post-comunista ad assumere il governo del paese, con una coalizione di centro-sinistra il cui lavoro ha consentito all’Italia di entrare nell’euro.
Oggi, a 53 anni, il “leader Massimo” come è soprannominato con un inevitabile gioco di parole, è Presidente dei Democratici di sinistra, il maggiore partito dell’opposizione a Berlusconi. Criticato dalla minoranza, che lo considera distante dalle questioni più tradizionali della sinistra ed eccessivamente preoccupato di allargare il dialogo verso il centro, D’Alema è l’unico leader –come ammettono anche i suoi detrattori- che quando parla in Parlamento, sia destra sia sinistra gli prestano attenzione. Famoso per le sue battute feroci, è autore di numerosi libri di riflessione politica, l’ultimo dei quali “Oltre la paura” analizza le nuove sfide del socialismo europeo nel mondo globalizzato e i limiti critici del dibattito nella fase trascorsa.

Carta Capital: Lei è stato in Brasile, nel giugno scorso, per sostenere la candidatura di Lula, poi è tornato a novembre, al termine di un viaggio in America latina. Qual è il motivo di due viaggi così ravvicinati?
D’Alema: Lula venne qui alla Fondazione nell’ottobre del 2001, con Aloizio Mercadante e Luiz Dulci. Da tempo ero stato invitato da Tarso Genro a visitare il Rio Grande do Sul, stato in cui risiedono molte comunità di italiani. A San Paolo ero stato invitato da Marta Suplicy per il Forum internazionale, Urbis 2002, con amministratori locali latinoamericani su “Globalizzazione e sviluppo locale”. Decisi di andare per poter collaborare in qualche modo alla campagna elettorale di Lula.
Era un momento difficile, in cui la speculazione sui mercati finanziari veniva usata contro di lui. Lula era impegnato a tranquillizzare l’opinione pubblica. Discutemmo dello stato delle cose e su chi contattare qui in Europa. Un aiuto da dietro le quinte, cose più politiche. Diedi interviste e parlai con imprenditori italiani. Le grandi imprese, che influenzano l’opinione pubblica, ebbero un atteggiamento molto aperto. La Pirelli annunciò un proprio piano di investimenti nel corso della campagna elettorale, che equivaleva a dire “non abbiamo paura, scommettiamo sul futuro del Brasile”. Combinammo che, in caso di vittoria, sarei tornato per abbracciarlo. Per questo sono tornato a novembre, al termine di un lungo giro per l’America latina, durante il quale ho incontrato molti dirigenti politici, leader di opposizione o di governo, come il Presidente dell’Uruguay, del Cile e della Bolivia.


CC: Il Presidente Lula è stato molto caloroso. Ha dichiarato pubblicamente di aver molto da imparare da chi aveva governato un paese importante come l’Italia
D: E’ stato veramente affettuoso. Alla fine, rompendo il protocollo ha voluto accompagnarmi all’incontro con i giornalisti, con un gesto carico di vera amicizia. Con il suo gesto voleva evidenziare il fatto che non ero andato lì solo perché aveva vinto, e adesso tutti lo cercano. Con Lula abbiamo partecipato a tante iniziative insieme qui in Europa, abbiamo un antico rapporto di amicizia con lui e con il PT


CC: significa che lei può essere considerato una specie di consigliere?
D: non si tratta di questo. Il mio viaggio in Sud America aveva un duplice obiettivo: da un lato sviluppare le relazioni tra la sinistra europea e quella latinamericana. Spero che il PT entri nell’Internazionale socialista e che potremo contare su di loro già nella riunione del Consiglio IS, che si terrà a gennaio a Roma, che discuterà i temi della globalizzazione. D’altro canto, come uomo politico italiano, mi preoccupo delle relazioni tra Italia e Brasile. Sono rimasto impressionato incontrando l’associazione Brasile-Italia che è composta da alcuni tra i maggiori imprenditori brasiliani, come Luiz Ferdinando Furlan, nel vedere che sono solidali con il progetto di Lula di dar vita a un nuovo patto sociale per definire i destini del paese. Al mio ritorno in Italia ho tenuto una conferenza presso l’Istituto Italo- LatinoAmericano di Roma, e ne ho parlato con dirigenti politici italiani ed europei, tra cui il Ministro degli esteri Frattini.


CC: Qual è il rilievo internazionale della vittoria di Lula?
D: Penso che l’elezione di Lula abbia un incidenza sugli equilibri mondiali, il Brasile è un sub-continente. La straordinaria novità brasiliana si inserisce in una situazione internazionale in movimento, piena di rischi, ma anche di una nuova coscienza: la domanda di maggiore giustizia sociale e di un governo capace, con strumenti certi, di affrontare la globalizzazione. C’è una aspettativa di stabilità e pace, accanto ai rischi di chiusura da parte dei paesi più ricchi e di forzature unilaterali da parte degli Usa. Tutto ciò rende l’elezione di Lula un avvenimento ancora più importante, penso che la sinistra europea debba prestare a questo nuovo interlocutore più attenzione di quanto fatto finora.


CC: Come vede l’elezione di Lula nel contesto latino-americano?
D: La situazione del continente è difficile, segnata da un equilibrio precario tra tragedie e speranze di mutamento. Si corrono rischi di arretramento e disgregazione e anche di populismo, come nel caso del Venezuela e dell’Equador. In un quadro di così grande complessità, la vittoria di Lula è vista da tutti con grande speranza, non solo, ovviamente, dai leader di sinistra, ma anche da quelli conservatori; certamente da Ricardo Lagos, Presidente del Cile, che considero una delle più forti personalità dell’America latina, ma anche dai Presidenti di Uruguay e Bolivia, che sono liberal-conservatori e tuttavia considerano Lula quasi come l’unica speranza nel momento attuale. E’ logico, la possibilità che il gigante-Brasile si metta in movimento fa piacere a tutti, perché trascinerebbe con sé il continente nella direzione dello sviluppo.


CC: Gli avversari di Lula, speravano che la paura derivante dalla tragedia argentina giocasse contro di lui; al contrario, sembra aver incoraggiato l’elettorato a contrastare il pericolo delle ricette neoliberiste del Fondo monetario internazionale.
D: Senza dubbio, non è vero infatti che il sistema argentino sia collassato per effetto di cambiamenti avventurosi, al contrario: i suoi governanti non hanno avuto la forza sufficiente e il coraggio per cambiare una politica basata sul consenso di Washington e sulla dollarizzazione. Logica perversa che ha imprigionato l’economia del continente.


CC: Come vede la prospettiva per l’America latina?
D: Non penso che si possa tornare indietro rispetto alla liberalizzazione dei mercati, anche se, in molti casi, l’esperienza delle privatizzazioni è stata negativa. Le privatizzazioni sono positive quando creano mercati competitivi, se invece si limitano a trasferire a privati i monopoli pubblici, hanno solo un effetto speculativo e comportano la dispersione di un patrimonio nazionale. Non di rado sono accompagnate da fenomeni di corruzione delle classi dirigenti. In Argentina ciò è stato particolarmente evidente.
Al momento è prioritaria l’attenzione alle politiche sociali, perché la principale carta vincente dello sviluppo per l’America latina è il suo mercato interno. E’ necessario aver il coraggio di creare un grande mercato attraverso il processo di integrazione regionale avviato che deve essere portato avanti, non in parallelo, ma con l’interconnessione tra Mercosur e Patto andino. Vi è una logica di subcontinente da articolare, che sarà una dei grandi compiti di Lula.


CC: Un Brasile forte è importante per l’America latina, ma al tempo stesso spaventa. Basandosi sull’esperienza europea, ha qualche consiglio da dare ai brasiliani?
D: Non vedo altre prospettive, fuori dall’integrazione, per far crescere un grande mercato sudamericano, ma anche per reimpostare le relazioni con gli Usa. Passare ad una negoziazione continentale, fuori dalla logica del caso per caso, che interessa molto i nordamericani. Come continente, il sud America può avere una forza contrattuale molto superiore a quella della somma di relazioni bilaterali privilegiate. Parallelamente, sarebbe opportuno aprire un negoziato con l’Europa.


CC: Quant’è effettivamente interessata l’Europa?
D: In Europa è aperta una discussione. L’Europa deve avere il coraggio di accantonare il suo tradizionale protezionismo agricolo, non è più accettabile la politica dei sussidi alle esportazioni agricole. La posizione irriducibile su questo di alcuni paesi, su tutti la Francia, è stato il vero impedimento allo sviluppo delle relazioni tra Europa e America latina. Paradossalmente, sotto questo aspetto, dobbiamo fare una battaglia liberale: sconfiggere il protezionismo. Nei paesi sviluppati è in vigore una strana idea, per cui la globalizzazione è una porta girevole in una sola direzione: entrano i vantaggi, ma non gli svantaggi. Questo è un punto cruciale nell’ordine del giorno della discussione che dovremo sviluppare nella prossima riunione della internazionale socialista. Dobbiamo favorire una integrazione commerciale che non sia unidirezionale. L’Europa, a volte, ha poca consapevolezza della propria missione, è necessario invece che sia più orgogliosa e sappia collocarsi al livello delle aspettative che genera.


CC: Lei ha parlato dell’urgenza di riforme sociali:
D: I grandi obiettivi di carattere sociale –la riduzione delle diseguaglianze- sono essenziali per lo sviluppo. La lotta contro la fame deve essere sostenuta internazionalmente. Il perdurare di questa e di altre forme drammatiche di emarginazione sociale è, oltre che intollerabile dal punto di vista della giustizia sociale, anche un handicap gravissimo per l’economia. Il neoliberismo ha coltivato l’idea disastrosa che non fosse più necessaria una politica di industrializzazione.


CC: La globalizzazione è stata presentata come qualcosa di inevitabile che, presto o tardi, avrebbe portato benefici a tutti. Invece, è fatta di trattati e accordi che favoriscono solo alcuni.
D: La formazione di un mercato mondiale a libera circolazione delle merci è un processo inarrestabile, non credo a ritorni al passato. Però, se questo processo non viene governato genera enormi diseguaglianze, si creano vincitori e vinti. Grazie alla globalizzazione, oggi, un miliardo e mezzo di asiatici vive meglio; non è poca cosa. Ho visitato la Cina prima e dopo questo evento. E’ evidente l’enorme progresso economico e sociale. L’America latina e l’Africa invece sono i continenti sconfitti, la globalizzazione accentua la competizione tra paesi Li rende più crudeli e con minori possibilità di difesa. La forza del sistema asiatico, nella competizione globale, è stata quella di disporre di una gran massa di lavoratori professionalizzati, disciplinati e a basso costo. L’Europa e gli Usa hanno tecnologia, grandi Università, ricerca, know-how. L’America latina invece è stata spremuta, come lo sono state in generale le classi medie. Non è riuscita a trovare un proprio modello di competizione, anche per colpa dei suoi governanti.


CC: In un suo libro recente, il Premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz dice che le decisioni del Fmi sono orientate da un misto di ideologia e cattiva economia.
D: Abbiamo tenuto un seminario di parlamentari dell’Ulivo con Stiglitz, poche settimane fa. Questa riflessione sulla globalizzazione comincia a farsi strada nella sinistra internazionale. Parlo della sinistra riformista che certamente ha peccato per una lettura troppo ottimista della globalizzazione. Il dibattito sulla “terza via” sicuramente ha sofferto di questo limite. L’idea che lo sviluppo globale avrebbe portato progressi per tutti, invece, senza dubbio siamo davanti ad una drammatica esplosione di contraddizioni. L’11 settembre prova cha la globalizzazione senza evoluzione politica genera conflitti e rischi enormi. Torniamo a riflettere sulla globalizzazione con la coscienza della necessità di correggere gli squilibri, di governare il processo, di rilanciare il ruolo dei grandi organismi democratici multilaterali. Non è possibile continuare a delegare decisioni di grande rilevanza politica a organismi tecnici come il Fmi o la Banca mondiale.

CC: Cosa può esser fatto perché la politica recuperi l’enorme terreno ceduto all’economia?
D: Rafforzare le istituzioni sovranazionali. Se, con una economia globale, l’agire politico rimane chiuso nell’ambito nazionale, la politica sarà sempre un gradino più in basso dell’economia. L’unico modo per regolare lo sviluppo mondiale è dar vita ad una rete di istituzioni globali dotate di reali poteri. O grandi istituzioni sopranazionali. Per noi, l’Europa è cruciale; è necessario che l’Unione europea, non sia solo banca, moneta e mercato. Abbiamo bisogno di un governo europeo che sia banco di prova assai concreto di cosa vuol dire governare la globalizzazione.

CC: Un processo generalizzato di cessione di sovranità in favore di organismi sovranazionali?
D: Sì. Penso anche alle Nazioni Unite. Ho rilanciato una antica idea nella recente conferenza che ho tenuto sulla globalizzazione: l’istituzione, a fianco dell’attuale Consiglio di sicurezza, di un “Consiglio di sicurezza economico”, capace di intervenire nelle crisi economiche. Il Fmi e la Banca mondiale dovrebbero essere solo strutture operative al suo servizio. Non sedi decisionali. Non è pensabile che la politica degli stati sia dettata dal Fondo monetario.

CC: Sembra un’idea controcorrente, rispetto alla tendenza conservatrice di svuotamento dell’Onu.
D: C’è un confronto in atto negli Stati Uniti. Anche così sono stati costretti ad accettare che il Consiglio di sicurezza si riunisse e hanno dovuto accettare le sue deliberazioni. La volontà di comando americana deve essere combattuta. L’Europa non può accettare che il mondo sia comandato da un unico paese. E’ uscito in questi giorni un sondaggio sull’opinione pubblica nei paesi europei: sembra che il sentimento di ostilità verso gli Stati Uniti sia in aumento in Europa, come nelle altre parti del mondo. Spero che gli americani si rendano conto che questa loro posizione è difficile da sostenere. Anche per Blair la situazione è delicata. L’opinione pubblica inglese è divisa, così come quella degli elettori laburisti. Per quanto la posizione tradizionale inglese sia di solidarietà verso gli Stati uniti, un attacco all’Iraq, senza un’esplicita decisione dell’Onu, sarebbe una decisione dura.


CC: ci sarà la guerra?
D: Penso che non sia inevitabile.


CC: Il giorno dopo la vittoria di Lula, un editoriale del Guardian criticava Blair e la ristrettezza di vedute della sua politica internazionale per aver rifiutato di incontrare Lula durante il suo viaggio in Brasile.
D: Davvero? È accaduto che tutti noi abbiamo stabilito una buona relazione con Cardoso, molto voluta da Clinton che lo voleva come membro della Terza via. Abbiamo fatto insieme il Convegno sul governo globale a Firenze, durante il mio governo. Penso che sia stato positivo coinvolgere il Brasile nel dialogo sulle prospettive internazionali del riformismo. Cardoso è una personalità complessa, un intellettuale di formazione progressista che si è messo a capo di una coalizione. . . il processo politico brasiliano non è facile da comprendere per chi ha in testa categorie europee. Normalmente in America latina il partito più conservatore si chiama rivoluzionario, no? In Bolivia il partito di centro è il Movimento Nazionale Rivoluzionario, in Messico, Rivoluzionario Istituzionale. Nelle ultime elezioni brasiliane il candidato più a destra era socialdemocratico, un altro era socialista, l’altro ancora socialista popolare, tutto l’arco della sinistra. Sembrava una specie di congresso dell’Internazionale socialista! (ride) La destra non esiste? Sappiamo invece che la realtà è diversa, però, apparentemente, ci siamo trovati di fronte alle elezioni di un paese conservatore senza candidati di destra.


CC: In una sua intervista lei definì Cardoso come un intellettuale progressiste che si è alleato con le classi privilegiate e ha realizzato un governo conservatore.
D: Tecnocatico-conservatore, diciamo. E’ stato un ottimo Presidente per le esportazioni e molto più contraddittorio nell’intraprendere politiche di rinnovamento e riduzione delle diseguaglianze nel paese. Però è stata una importante figura di transizione per il Brasile. Penso che non si debba sottovalutare il ruolo avuto da Cardoso nel rafforzare l’istitutuzione presidenziale in Brasile, cosa che sarà preziosa per Lula. Con una base parlamentare frammentata e le pressioni dei Governatori, se non avesse come leva la forza della Presidenza, dovrebbe negoziare tutto di continuo e sarebbe difficilissimo governare. Il sistema istituzionale del Brasile mi pare abbastanza fragile. Un presidente eletto da 52 milioni di persone mi pare che non abbia un potere corrispondente. Mi sbaglio?


CC: Quanto è diverso essere di sinistra in America latina e in Europa?
D: Sostanzialmente non è diverso. Sono diversi i contesti: le aspirazioni e i valori però sono gli stessi. In America latina il lavoro della sinistra deve essere molto più drammaticamente impegnato. Una volta, quando discutevamo su come riformare il Welfare State, Ricardo Lagos commentò: “ci sono modi diversi di accostarsi al tema, tra chi uno Stato sociale ce l’ha e chi no”. Nella stessa occasione, fece lo stesso esempio riguardo la globalizzazione, tra globalizzatori e coloro che vengono globalizzati. Penso che sia importante rafforzare il legame tra la sinistra sudamericana e quella europea: una delle risposte alla globalizzazione è creare una sinistra più unita. Spero che Lula e il PT entrino a far parte dell’Internazionale socialista, sarà molto importante per il Brasile e per noi.


CC: Lula non è un intellettuale progressista, come altri leader della sinistra.
D: Sì, il fatto è piuttosto raro, però la sinistra ha leader importanti che vengono dal popolo. Lula possiede una grande carica umana, ha conservato le sue radici popolari e la sua semplicità, la relazione calorosa e diretta con le persone, è molto simpatico. L’ho conosciuto molti anni fa. Era più estremista nel modo di presentarsi e di affrontare le cose. Attraverso l’esperienza è diventato il “Lulinha pace e amore” di oggi, non è così? E’ un uomo che si è addolcito col tempo, è maturato umanamente, è divenuto meno conflittuale.


CC: Più realista e pragmatico?
D: Più realista, certo, ma soprattutto più delicato. E’ un uomo attento, molto simpatico, molto caloroso.


CC: Lei è stato il primo Presidente del Consiglio italiano proveniente dal Partito comunista. Il Pci, maggior partito comunista d’occidente, che raggiunse nel 1984 il 34% dei voti. Un partito sempre innovativo, da Gramsci a Berlinguer. Cosa di questo passato è importante oggi nel suo partito?
D: Non c’è dubbio che siamo cresciuti alla scuola di un partito molto originale. Nel panorama del movimento comunista fu una sorta di comunismo eretico –diciamo così- portatore di una tensione democratica e critica verso il socialismo reale. In America latina, dove prevaleva un comunismo ortodosso, il Pci rappresentò un punto di riferimento e uno stimolo importante per le forze intellettuali più aperte. Fu un partito originale nel panorama internazionale e nella politica italiana. Stiamo parlando di una forza politica che si è esaurita da quasi 15 anni e che ha raggiunto il suo apice, con Berlinguer, quasi 20 anni fa. E’ importante collocarla storicamente.


CC: Dicono che Berlinguer la considerava il suo erede.
D: Purtroppo non possiamo domandarlo a lui. Con Berlinguer avevo una relazione personale autentica. Mi chiamava per parlare, voleva che gli raccontassi le cose che facevo, mi mandò in Cina, prima di andarci lui, cosa che considero come una grande “prova d’amore”. Nel 1978, con la fine della guerra civile, dopo che Deng Xiaoping aveva sconfitto la “banda dei quattro”, si decise di riallacciare le relazioni con il partito comunista cinese, e Berlinguer fece uno storico viaggio in Cina. Sei mesi prima, mandò l’organizzazione giovanile, perché si iniziasse a riprendere contatto. Un viaggio indescrivibile. Venti giorni attraverso il paese -non si vedevano occidentali- passando da un incontro politico ad un altro. Al ritorno parlammo fino a mezzanotte, voleva sapere tutto. Era curioso e possedeva una grande visione internazionale dei problemi.


CC: Cosa sopravvive di quella eredità oggi?
D: Siamo stati formati da una grande scuola di politica, stimolati all’innovazione e alla ricerca, con una visione internazionale. Ma il mondo è cambiato. Potremo salvare questo patrimonio singolare della sinistra italiana portando il partito nell’ambito del socialismo democratico. Penso che questo fosse il destino del partito, nel momento in cui il movimento comunista si concludeva con una sconfitta, compresa la nostra. Berlinguer nutrì fino alla fine la speranza di una evoluzione democratica del comunismo. Sopravvivono oggi alcuni nostalgici, ma il movimento comunista ha esaurito il suo ruolo storico.


CC: In “Oltre la paura” lei sostiene che la sinistra “dura e pura”, quella dei valori ideologici tradizionali è complementare a coloro che dichiarano la fine della sinistra: “due facce di una stessa rinuncia”.
D: Secondo me non esistono nuovi valori. Ciò che deve cambiare sono i mezzi, le soluzioni politiche, i simboli. I simboli non sono un valore, sono un fatto funzionale. I simboli hanno una storia. I valori sono un elemento costitutivo della sinistra. Una volta chiesero a Berlinguer quale fosse il segreto della sua vitalità e lui rispose: “continuo a lottare per le idee della mia gioventù”. Lo disse in modo non retorico. Per quanto mi riguarda, credo che non siano cambiate le ragioni del mio impegno politico. Entrai in politica perché credevo in un mondo più giusto, sentivo che era necessario fare qualcosa contro le oppressioni e l’ingiustizia. Questo pensavo a sedici anni e questo penso ancora oggi. Sono arrivato alla conclusione che il comunismo non era il modo di realizzare quelle aspirazioni, il che non è una convinzione irrilevante, lo ammetto. Però i valori sono gli stessi.


CC: Lei coltiva una immagine pubblica di grande razionalità. Però, nel suo libro sottolinea che in politica, oltre ai programmi, è necessario mantenere viva la passione. Com’è questo doppio aspetto della attività politica?
D: La passione è fondamentale, ma deve essere amministrata. Inoltre è indispensabile non confondere la passione con la retorica. Sono due cose ben differenti. La retorica deve essere esibita, la passione non necessariamente. Senza razionalità non si individua la strada da seguire. I programmi sono il modo in cui si dà sostanza a una determinata visione delle cose. I valori si incarnano nei programmi e nella capacità della politica di dare risposte, indicare prospettive ai problemi delle persone. Il programma non è una lista della spesa, ma un progetto. Il problema della sinistra italiana, oggi, è delineare una visione del futuro del paese, un progetto capace di mettere le forze in movimento. In politica sono necessarie tutte queste cose, che devono essere alimentate però dalle convinzioni. Le persone si appassionano per i valori, per le idee-forza, non per i programmi.


CC: Che significa essere riformista? La parola riforme è stata molto usata anche dalla destra.
D: Bisogna non farsi rubare le parole. Le parole sono importanti. La destra italiana chiama “riforma” lo smantellamento dello stato sociale. La parola nasce nella sinistra, in alternativa alla prospettiva rivoluzionaria. Riforma o rivoluzione. La prospettiva rivoluzionaria non mi pare sia molto attuale. Le riforme sono lo strumento democratico per cambiare la realtà. Il riformismo è soprattutto il contrario del laissez-faire liberista.


CC: E le riforme della destra. . .
D: Il “riformismo” della destra si può riassumere nella definizione di un dirigente politico sud-coreano: la missione della politica è svolgere i compiti che le assegna l’economia. Quali sono i compiti che l’economia ha assegnato alla politica negli ultimi 10 o 15 anni? Rimuovere gli ostacoli alla liberalizzazione dei mercati. Questo loro chiamano riformismo. Il riformismo invece, nel significato socialista originario è fare in modo che l’economia assolva ai compiti che la politica le assegna. Esattamente il contrario. Il riformismo della destra afferma il primato dell’economia , quello della sinistra, invece, afferma il primato della persona, ossia della politica, sull’economia.


CC: L’informatica ha agevolato tanto la politica quanto l’economia?
D: L’informatica ha cambiato il mondo, creando immense potenzialità, ma anche grandi problemi. Questa grande trasformazione pone seri interrogativi alla democrazia. Alcuni anni fa mi trovavo nella sala operativa di una grande società di gestione finanziaria, in una delle torri gemelle a New York. Vi lavoravano tre giovani, due afroamericani e un asiatico, che negoziavano titoli del debito pubblico italiano per centinaia di miliardi al giorno.
Naturalmente, se compravano, i tassi calavano, se vendevano salivano. Per un paese come l’Italia, con un debito pubblico pari al 120% del Pil, quando il tasso d’interesse saliva di mezzo punto significava che lo Stato doveva sborsare, in interessi, circa 6.000 miliardi di vecchie lire. Quando uno Stato spende tanto per gli interessi, ha meno risorse per strade, scuole, ospedali. Chiaramente. Si può dire quindi, paradossalmente, che quei tre ragazzi avevano il potere di 50 deputati. Sulla base di cosa prendevano le loro decisioni? Leggendo le notizie su un terminale di agenzie. Un leader di una coalizione annuncia che non voterà la finanziaria In quel momento quelli vendono. In un’epoca in cui i rimbalzi tra politica ed economia sono così rapidi e fatali, è chiaro che si restringano gli spazi di democrazia. Chi controlla quei ragazzi?


CC: Qual è la sua opinione sui cosiddetti No Global e le loro proposte di modelli alternativi di società? Che contributo dà questo movimento?
D: E’una sigla sotto la quale si racchiude una realtà eterogenea. Si va da frange violente a gruppi che organizzano il volontariato nelle regioni più povere dell’Africa. Non c’è dubbio però che questo movimento ha avuto il ruolo di sollecitare la politica sulla necessità di governare la globalizzazione. La denuncia dei No Global è giusta, il problema però è come si affrontano quelle questioni. L’ipotesi di ricostruire le barriere nazionali ricorda il movimento che contrastava lo sviluppo industriale perché sfruttava il lavoro degli uomini. Per combatterlo distruggevano le macchine. Durò cinque anni, poi fallì. Non si arresta il progresso, dobbiamo indirizzarlo, ma non è in nostro potere fermarlo.


CC: Allora?
D: La globalizzazione apre tre grandi questioni: come ridurre le diseguaglianze sociali che si sono accentuate. Come far convivere le diverse identità in un mondo globale – non si può omologare il mondo ai valori e alle identità della sua parte più forte: una delle ragioni più profonde del terrorismo islamico è legata alla necessità di rispondere a tale minaccia. Il terzo problema riguarda la democrazia. Nel momento in cui si interrompe la relazione tra capitalismo e Stato nazionale, il capitalismo rimane privo del controllo democratico. E libero da ogni vincolo, c’è il rischio che si formino ristrette oligarchie capaci, nei fatti, di dominare il mondo.

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