Versione ingleseCari amici e gentili ospiti,
Alcune settimane fa ho compiuto un viaggio in Irak insieme a una delegazione dell’Internazionale Socialista.
Ci siamo recati a Baghdad su invito dell’Upk (l’Unione patriottica del Kurdistan) e nell’arco di tre giorni abbiamo avuto modo di incontrare i rappresentanti di numerose formazioni e movimenti politici della ex opposizione al regime di Saddam.
La guerra – qualsiasi guerra – segna un paese prima di tutto fisicamente. E Bagdad mostra oggi le tracce evidenti del conflitto.
Eppure, persino al di là delle rovine materiali, ciò che più colpisce, a quasi tre mesi dalla fine dei bombardamenti, è il clima di questo dopoguerra.
Il fatto che la maggior parte delle attese che hanno preceduto l’arrivo delle truppe alleate – una democratizzazione effettiva del paese e una sua stabilizzazione dopo gli anni della dittatura – non si è concretizzata.
Anzi, anche tra coloro – e sono molti – che hanno salutato le forze anglo-americane come i nuovi liberatori, cresce la disillusione. Crescono i timori e le incertezze in relazione al “dopo”. Cresce un senso di insicurezza destinato a prolungarsi nel tempo.
Insicurezza alimentata dal disagio quotidiano di migliaia di famiglie alle prese con l’assenza di acqua, luce, spesso dei viveri necessari.
E d’altra parte, non è un caso – o solo la somma di incidenti isolati – se, nel dopoguerra, il numero delle vittime tra i soldati americani e inglesi rischia di superare quello dei militari caduti nel corso delle operazioni.
Questo sentimento diffuso è, in primo luogo, la conferma di una verità storica: la scelta di esportare la democrazia con le armi è sempre un’azione rischiosa e dall’esito incerto.
La democratizzazione di un’area, di una regione, di una nazione, è per definizione un processo complesso che ha bisogno di poggiare su una base di consenso ampia. Su una volontà popolare condivisa. Senza questo tessuto connettivo, l’occupazione di un paese – soprattutto se priva di una chiara legittimazione sotto il profilo del diritto internazionale – è pericolosa per chi la compie e per coloro che la subiscono.
Il punto è che la sola supremazia militare può non bastare ad imporre una pace stabile, reale, duratura. Come, del resto, era stato ampiamente previsto da moltissimi osservatori prima e durante l’attacco degli eserciti alleati.
Anche per queste ragioni, sul piano personale sono stato e resto contrario all’intervento militare in Irak.
Ma naturalmente, oggi il problema è un altro. E’ come uscire da una situazione di grave incertezza e difficoltà, accelerando un processo democratico che passi attraverso il coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite nella gestione del dopo Saddam.
E aggiungo: come ricostruire un primato dell’intelligenza politica, prendendo atto che la sola tecnica militare, per quanto sofisticata, non è in grado di affrontare i complessi problemi di gestione che i nuovi equilibri di un’area solcata da lacerazioni profonde ci consegnano.
Da questo punto di vista, non penso affatto che chi ha voluto e condotto questa guerra debba ora, in solitudine, sobbarcarsene le conseguenze.
Credo, invece, sia dovere della comunità internazionale garantire all’Irak una transizione “dolce”, evitando in una fase tanto delicata una regressione pericolosa verso nuovi possibili fondamentalismi.
Questo vuol dire, in primo luogo, accelerare l’insediamento di un governo provvisorio che coinvolga i rappresentanti del popolo irakeno; elaborare una Costituzione rispettosa delle differenze culturali, etniche, religiose esistenti; riavviare un’opera faticosa di convivenza e coesione dopo due decenni contrassegnati da una sistematica azione repressiva.
Anche alla luce di queste mie convinzioni, confesso d’avere provato qualche imbarazzo di fronte ad alcuni interlocutori irakeni che, nel corso del nostro viaggio, si sono rivolti a me dicendo: “avete ragione; la guerra è sempre brutta. Ma voi europei che cosa avete fatto, negli anni passati, per liberarci da Saddam Hussein? Come avete operato per impedire che un regime sanguinario perseguitasse la minoranza curda e uccidesse decine di migliaia di civili inermi?”.
A queste domande, nessun esponente di una sinistra degna di questo nome può sottrarsi. Né basta fingere che la questione riguardi esclusivamente altri.
La verità è che questo problema esiste.
E anche per chi, come noi, ritiene la guerra uno strumento estremo da usare con la massima cautela, il tema dell’espansione della democrazia, dei diritti umani e delle libertà individuali rappresenta, oggi più che nel passato, uno spartiacque di civiltà.
Insomma è un problema concreto che non si può accantonare, cedendo con arrendevolezza al ricatto della realtà.
La mia opinione – non da oggi – è che per affrontare questa sfida, l’uso della forza non si possa escludere né in linea di principio né sul terreno pratico.
Più volte, nel corso degli anni, ho rammentato la scelta del governo italiano, da me presieduto, di sostenere senza esitazioni l’intervento armato nel Kosovo.
Di più; ritenni allora un merito degli Stati Uniti l’avere scosso il torpore europeo nei confronti di quella tragedia terribile che si svolgeva alle porte di casa nostra e che ha riportato la brutalità della guerra fin dentro il cuore dell’Europa.
Ma il quadro complessivo di quella vicenda – mi permetto di ricordarlo – era profondamente diverso dal contesto che ha preceduto l’attacco militare all’Irak.
Nel Kosovo era in corso un’aggressione nei confronti di una popolazione civile. Un esercito – quello serbo – aveva invaso un territorio autonomo e avviato l’ennesimo episodio della pulizia etnica che ha insanguinato i Balcani per quasi un decennio.
In quel momento l’Europa e la comunità internazionale erano alle prese con una drammatica emergenza umanitaria. Migliaia e migliaia di persone disperate fuggivano verso le montagne in un esodo di massa che metteva a repentaglio la loro vita e la nostra sicurezza.
Ma non basta. Ad essere diverso era il quadro giuridico di quella crisi.
A partire dal fatto che, di fronte a una tragedia di tali dimensioni, l’Unione Europea si era dichiarata pronta ad agire. Così come spingevano per un intervento risolutivo i vertici della Nato, vale a dire dell’organismo deputato a mantenere e garantire la sicurezza sul territorio europeo.
Dietro l’intervento in Kosovo, dunque, c’erano delle istituzioni mobilitate a tal fine. Non un singolo paese, o un’alleanza di paesi, ma delle istituzioni e degli organismi sovranazionali. Il che – come appare del tutto evidente – è una condizione assolutamente diversa rispetto al quadro giuridico che ha accompagnato l’azione militare verso l’Irak.
E’ vero. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nella prima fase della crisi, manifestò delle divisioni sulle forme e sulle modalità delle iniziative da assumere.
Ma di quelle divisioni noi tenemmo conto. Non le liquidammo come un aspetto irrilevante ai fini dell’azione che intendevamo intraprendere.
Ed anzi, lavorammo intensamente – usando le armi della diplomazia – affinché fossero rapidamente superate.
Ci impegnammo a recuperare l’unità delle Nazioni Unite e non uno – sottolineo, non uno – dei soldati impegnati nelle operazioni posò il suo piede sul territorio del Kosovo prima che dal Consiglio di Sicurezza non giunse una risoluzione comune in tal senso.
Infine, è giusto ricordare come lo scopo di quell’azione non fosse la destituzione di Milosevic, ma la difesa di una popolazione civile minacciata e colpita.
Insomma, come si vede, quelle di allora e quelle di oggi sono condizioni radicalmente diverse sul piano dei fatti. In quello stretto passaggio era in atto un pericolo reale, un dramma umanitario e, nonostante ciò, agimmo nel pieno rispetto della legalità internazionale.
Questo è il nodo. Non altri.
Nel senso che ciò che appare inaccettabile è la logica dell’arbitrio. La possibilità di un’azione militare condotta al di fuori della cornice di regole e procedure che disciplina oggi il diritto internazionale.
A nessuno può sfuggire la centralità di questo aspetto.
Ripeto: in discussione non è, in talune circostanze, la legittimità dell’uso della forza. Il punto è un altro. E’ la costruzione – paziente e faticosa, ma irrinunciabile – di una governance fondata su istituzioni riconosciute e rispettate. E non sulla discrezionalità di poche grandi potenze.
Questo è un principio che deve valere sempre e comunque. E che va ben al di là delle polemiche sul mancato rinvenimento di prove certe circa l’esistenza di quelle armi di distruzione di massa che hanno giustificato, nell’ottica anglo-americana, il precipitare degli eventi irakeni.
Ora, è del tutto evidente che la scelta di investire su regole e istituzioni sovranazionali vincolanti è anche un modo per neutralizzare la teoria inaccettabile della guerra preventiva. Dal momento che un’impostazione del genere sottrae ad un singolo paese – per quanto potente – il diritto solitario a decidere, sulla base di proprie valutazioni unilaterali, dove si deve intervenire e dove questo non è necessario.
In questo senso, una visione multilaterale delle relazioni internazionali è la sola garanzia contro l’idea dell’intervento umanitario come giustificazione delle mire espansionistiche di un modello di civiltà. Il pericolo – per capirci – di una strategia a tappe dove, archiviato l’Irak, possa, nel prossimo futuro, venire il turno di altri paesi.
Una simile visione del mondo e della globalizzazione non è solo velleitaria nelle sue ambizioni, ma profondamente inadeguata a dare una risposta credibile ai problemi di sicurezza che l’11 settembre ha consegnato all’Occidente e alla nostra cultura.
Lo dico perché se un ammonimento ci viene da quella tragedia è il legame stretto tra l’ambizione a una nuova sicurezza internazionale e la prospettiva di una governance condivisa.
In fin dei conti – come abbiamo ricordato infinite volte – la Guerra fredda aveva finito coll’esprimere un ordine del mondo. Certamente imperfetto, ma comunque un ordine, uno schema che ha funzionato a lungo. Il venir meno di quell’equilibrio ha aperto la via a nuove gravi incertezze e soprattutto a nuovi potenziali conflitti, di cui le Torri gemelle sono state sin qui l’espressione più eclatante e drammatica.
La mia opinione è che il vero problema, in questo senso, non sia l’incertezza in sé – per molte ragioni irriducibile – ma l’atteggiamento mentale che la politica e le istituzioni globali scelgono di assumere verso questa nuova condizione permanente della nostra esistenza.
Dunque, noi dobbiamo, innanzitutto, costruire un’idea unitaria e condivisa di “sicurezza”. Ma per farlo è necessario allargare il significato del concetto oltre i confini delle sole nostre società.
Il punto è come elaborare una nozione di sicurezza che risponda sempre di più alle esigenze di tutti, e non solo di una parte.
Ora, nessuno nega che i paesi occidentali esprimono oggi il nucleo di una “comunità internazionale”, nel senso che condividono valori fondamentali, radici culturali comuni, strategie politiche ed economiche.
La realtà con la quale misurarsi, però, è che questa “comunità internazionale” ancora non è una “comunità globale”, dal momento che vi sono intere aree del pianeta proiettate verso altre scale di valori, altre priorità, altre strategie.
Il problema è che senza una “società internazionale”, vale a dire un quadro di regole e principi essenziali di convivenza e di rappresentanza, è molto difficile immaginare una regolazione e un controllo della sicurezza su scala planetaria.
Insisto: pensare di aggirare questo ostacolo esportando il nostro modello politico e sociale con tutti gli strumenti, anche quelli più spregiudicati, che ci fornisce la globalizzazione è un’operazione destinata a fallire.
Cosa ben diversa è la via di una espansione della democrazia fondata sul primato del multilateralismo. E dunque sull’idea di istituzioni sovranazionali forti, autorevoli, universalmente riconosciute e legittimate, in grado di favorire la convivenza e il riconoscimento reciproco tra modelli culturali e di società anche molto distanti gli uni dagli altri.
Questa – credo – è anche la sola via per l’affermazione, progressiva e condivisa, di una rete effettiva di diritti individuali universali, non esposta al variare delle contingenze politiche o delle convenienze tattiche.
Sappiamo che non si tratta di un cammino scontato.
Richiederà fatica, dure battaglie. Ma è la vera alternativa al caos o al riproporsi di una politica di potenza.
Sempre di più, dunque, la sicurezza internazionale passa attraverso una modifica, in senso restrittivo, del principio di sovranità dei singoli Stati. La vera sfida è far coincidere questa modifica con istituzioni in grado di assumere su di sé il peso e la responsabilità di una governance condivisa.
Diciamo pure che il destino della convivenza e della pace passano da qui: dal prevalere di una visione multilaterale delle relazioni internazionali.
Sono profondamente convinto che a questa prospettiva il movimento socialista e la sinistra progressista internazionale debbono dare un contributo essenziale di idee, valori e strategie.
Credo sia la nostra vera mission per il futuro. Ciò che, più di ogni altra cosa, distinguerà negli anni a venire la nostra funzione e il nostro ruolo nel mondo.