Versione ingleseGentili ospiti, cari compagni e amici,
prima di tutto desidero dare il benvenuto ai rappresentanti dei partiti e dei movimenti politici irakeni che hanno accolto il nostro invito e che sono presenti all’apertura di questa nostra Conferenza sul futuro dell’Irak.
Quando – nel gennaio scorso – abbiamo immaginato questo appuntamento la possibilità per molti di voi di essere qui oggi a discutere del futuro del vostro paese, non era affatto scontata.
Il fatto che voi siate qui, in rappresentanza di un nuovo governo insediatosi a Bagdad da pochi giorni, dopo oltre due decenni di un regime feroce, segna l’avvio di una fase storica nuova. Anzitutto voglio sottolineare che noi – esponenti e leaders della sinistra europea e internazionale – avremmo dovuto fare di più a sostegno dell’opposizione a Saddam Hussein durante gli anni terribili della dittatura.
Lasciate che io parta da qui. Dalle nostre responsabilità.
Potevamo fare di più per accelerare la sconfitta e il superamento di quel regime?
Sicuramente sì. Ed è questa consapevolezza, unitamente al giudizio politico sulla fase più recente, che ha ispirato pochi mesi fa il Consiglio generale dell’Internazionale Socialista nella sua scelta di convocare questa Conferenza.
La decisione di ritrovarci insieme a discutere del futuro dell’Irak e del suo nuovo ruolo nei delicati equilibri del Medio-Oriente, risale, non a caso, alla fase immediatamente precedente all’avvio dell’attacco anglo-americano.
Come ho ricordato, eravamo nel mese di gennaio, in una fase segnata dagli intensi preparativi di un conflitto che ci vedeva allora, in larga maggioranza, contrari a quella prospettiva.
Eravamo contrari alla guerra per una ragione di principio ma anche per una serie di valutazioni politiche sulle conseguenze di quella scelta e sugli scenari che essa avrebbe inevitabilmente generato.
Non è certo lo scopo dei nostri lavori rivendicare ora, a posteriori, i torti e le ragioni della discussione anche molto aspra che ha preceduto l’azione militare.
Personalmente ho visto e toccato con mano – nel corso di un mio recente viaggio in Irak – le difficoltà e le contraddizioni del dopoguerra.
E d’altra parte, basterebbe la cronaca di queste settimane – il numero elevato di vittime tra i militari americani ed inglesi – a confermare la complessità e la drammaticità di questa nuova fase.
Ma – insisto – non siamo qui, e non vi abbiamo invitato qui, per rivendicare le ragioni di prima.
Chi, come noi, non ha condiviso l’accelerazione dell’azione militare trova nel dopoguerra la conferma dell’idea che un’esportazione della democrazia attraverso le armi è sempre un’azione rischiosa.
Qualche giorno fa a Londra – nel corso dell’incontro dedicato alla Progressive Governance – ho ripetuto che la democratizzazione di un’area o di una regione è sempre un processo complesso che ha bisogno di una volontà popolare condivisa. Senza di ciò, l’occupazione di un paese – soprattutto se priva di una chiara legittimazione sotto il profilo del diritto internazionale – è pericolosa per chi la compie e per coloro che la subiscono.
Il punto – come si vede ora – è che la sola supremazia militare può non bastare a imporre una pace stabile, reale, duratura. Come, del resto, era stato ampiamente previsto da moltissimi osservatori prima e durante l’attacco degli eserciti alleati.
Erano queste le ragioni di fondo del nostro dissenso nei confronti dell’attacco militare.
Ma ciò non toglie che oggi il problema davanti a noi sia diverso. Di altro tipo.
Non più un giudizio circa la scelta di fare quella guerra, ma la difficile gestione del “dopo”. A partire da una discussione su come rafforzare il fragile tessuto democratico del paese, consolidando sotto il profilo politico, istituzionale e sociale le ragioni della convivenza interna e di un nuovo ruolo internazionale dell’Irak.
La guerra, dunque, è alle nostre spalle.
Ora la discussione riguarda l’avvenire. Il futuro di una nazione e di un popolo vessati da una dittatura particolarmente violenza e responsabile del massacro di centinaia di migliaia di cittadini e di oppositori. Noi vogliamo discutere di che cosa può fare la comunità internazionale: i governi, le organizzazioni politiche, le organizzazioni non governative. Si tratta di affrontare l’emergenza umanitaria, sanitaria ed alimentare, di aiutare la normalizzazione del paese, di sostenere il processo di costruzione della democrazia e di una nuova nazione irachena.
Un nuovo inizio: forse è questa la formula che meglio riflette il clima, le attese, le aspettative che attraversano in questi mesi la società irakena.
Segnali di novità, in questo senso, non sono mancati ancora nelle ultime settimane.
In particolare, l’atto costitutivo di un governo provvisorio irakeno finalmente rappresentativo delle diverse componenti politiche e religiose del paese.
Tornerò tra poco su questo punto, per le sue notevoli implicazioni. Non prima però d’aver sottolineato la necessità per la comunità internazionale nel suo complesso – dunque non solo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna – di fare fronte oggi agli impegni e alle promesse che hanno preceduto l’attacco militare alleato all’Irak.
Ho già ricordato il viaggio che, insieme a una delegazione dell’Internazionale Socialista, ho compiuto a Bagdad qualche settimana fa.
Il nostro impatto con il paese è stato duro, forte. Come del resto era inevitabile che fosse.
Abbiamo visto con i nostri occhi le tracce evidenti della guerra. Le ferite del paese e – aspetto forse più significativo – le ferite nella popolazione.
Un elemento in particolare ci ha colpito: la sensazione di un dopoguerra difficile dove l’ansia per la liberazione dalla dittatura si mescola con l’insofferenza crescente nei confronti di truppe e soldati vissuti da molti – anche da una parte di coloro che hanno atteso con fiducia i liberatori – come nuove forze d’occupazione.
Sarebbe un tragico errore sottovalutare questo stato d’animo. O non trarne una serie di conseguenze sotto il profilo politico e strategico.
In questo senso è dovere della comunità internazionale garantire all’Irak una transizione “dolce”, evitando in una fase tanto delicata una regressione pericolosa verso nuovi possibili fondamentalismi. Di tutta la comunità internazionale non solo della coalizione che ha voluto la guerra e che sarebbe sbagliato lasciare sola in questo momento.
Qui è l’importanza decisiva del nuovo governo provvisorio insediato da qualche giorno.
Ma qui è anche il pericolo di una falsa partenza.
Il nuovo governo, dove sono rappresentate le diverse componenti etniche, religiose e politiche del paese, è una speranza che non va tradita.
Ma questo richiede che esso sia dotato di poteri effettivi e reali.
Punto di fondo è che l’Irak non è – né può diventare – un protettorato. Un’area controllata politicamente dall’esterno. Ciò non sarebbe nell’interesse del popolo irakeno, ma neppure dell’equilibrio complessivo dell’area medio-orientale.
Perché si eviti uno scenario del genere sono necessarie due condizioni.
La prima è nel pieno coinvolgimento e responsabilità delle Nazioni Unite, con compiti precisi di controllo e assistenza nella transizione politica, sociale e istituzionale che si è aperta dopo la fine della guerra.
So bene quanto l’argomento sia delicato, anche alla luce dell’offuscamento che l’Onu ha subito in ragione delle scelte unilaterali dell’amministrazione americana negli ultimi mesi.
Non c’è però alcuna alternativa a un recupero di ruolo e prestigio da parte della più importante e autorevole istituzione sovranazionale esistente.
Questo, in particolare, se siamo d’accordo nell’indicare come priorità la costruzione – faticosa ma irrinunciabile – di una governance fondata su istituzioni riconosciute e rispettate. E non sulla discrezionalità di poche grandi potenze.
Questo è un principio che deve valere sempre e comunque. E che va ben al di là delle polemiche sul mancato rinvenimento di prove certe circa l’esistenza di quelle armi di distruzione di massa che hanno giustificato, nell’ottica anglo-americana, il precipitare degli eventi o della eventuale manipolazione di prove e documenti che tanto turbamento sta suscitando nella opinione pubblica internazionale.
Ora, è del tutto evidente che la scelta di investire su regole e istituzioni sovranazionali vincolanti è anche un modo per neutralizzare la teoria inaccettabile della guerra preventiva. Dal momento che un’impostazione del genere sottrae a un singolo paese – per quanto potente – il diritto solitario a decidere, sulla base di proprie valutazioni unilaterali, dove si deve intervenire e dove questo non è necessario.
In questo senso, soltanto una visione multilaterale delle relazioni internazionali può evitare che dietro una successione di interventi umanitari condotti con l’uso delle armi si nasconda il progetto espansionistico di una singola potenza.
La seconda condizione da soddisfare oggi in Irak è il varo rapido di una nuova Costituzione.
Una Costituzione pienamente rispettosa delle differenze etniche, politiche e religiose esistenti.
Questa, in particolare, è la premessa essenziale per fare dell’Irak un paese unito, in grado di valorizzare, come fin qui non è avvenuto, il proprio pluralismo interno.
Soprattutto una nazione democratica, capace di coltivare rapporti positivi e di stretta collaborazione con i paesi vicini, dando in questo modo un contributo prezioso alla pacificazione di un’area attraversata da molte drammatiche lacerazioni.
La vicenda irakena di questi ultimi due decenni, per molte ragioni, è un po’ lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”.
Ho aperto questa mia introduzione sottolineando i limiti e i ritardi ingiustificabili che la sinistra europea e internazionale ha maturato a lungo nei confronti delle forze che coraggiosamente si battevano contro la cieca dittatura di Saddam Hussein.
Quei limiti e quei ritardi sono parte di una vecchia stagione. Di una fase delle relazioni internazionali – ma potremmo dire anche, di una visione del mondo – che ha sacrificato colpevolmente il primato della libertà e della democrazia alle convenienze di parte.
In questo, la Guerra fredda è stata, allo stesso tempo, garanzia di equilibrio ma anche mortificazione di valori che solo oggi possiamo definire come universalmente condivisi.
Oggi siamo di fronte al problema della nostra sicurezza contro il pericolo del terrorismo reso evidente dal tragico attentato l’11 settembre alle Torri gemelle. Nello stesso tempo vogliamo espandere la democrazia e difendere i diritti umani perché questa è una esigenza fondamentale di civiltà. Sarebbe sbagliato escludere in linea di principio la necessità del ricorso all’uso della forza per conseguire questi obiettivi. Ma nello stesso tempo è inaccettabile l’idea che l’unica via percorribile sia la guerra, il ricorso preventivo e unilaterale alla forza contro ogni pericolo vero o presunto.
Questo significa che noi dobbiamo costruire, innanzitutto, un’idea unitaria e condivisa di “sicurezza”. Una nozione di sicurezza che risponda sempre più alle esigenze di tutti, e non solo della parte più ricca e potente del pianeta.
Il problema nasce dal fatto che la nuova “comunità internazionale” della quale tutti noi siamo parte, ancora non è una “comunità globale”, contrassegnata da una stessa gerarchia di valori, regole, principi.
Senza questa dimensione condivisa è molto difficile immaginare una regolazione e un controllo della sicurezza su scala planetaria.
E come ho già detto, pensare di aggirare l’ostacolo esportando un solo modello politico e sociale – il nostro – con tutti gli strumenti più spregiudicati della globalizzazione, non ultimo le armi, è un’operazione destinata a fallire.
Ben diversa è la via di un’espansione della democrazia fondata sul primato del multilateralismo e sull’autodeterminazione delle singole nazioni.
Dunque sull’idea di istituzioni sovranazionali forti, autorevoli, universalmente riconosciute e legittimate, in grado di favorire la convivenza e il riconoscimento reciproco tra modelli culturali e di società anche assai distanti gli uni dagli altri.
Questa – credo – è anche la sola via perché si affermi una rete effettiva di diritti individuali universali, non esposta al variare delle contingenze politiche o delle convenienze tattiche.
Sappiamo bene che non si tratta di un cammino scontato.
E’ un obiettivo ambizioso che richiederà tempo, fatica, battaglie anche dure. Ma è la vera alternativa al caos o al riproporsi di una politica di potenza.
Qui – a questo livello – la vicenda dell’Irak si carica di un duplice significato, politico e simbolico.
Sul piano politico, dall’esito della transizione aperta, deriveranno conseguenze rilevanti per l’assetto strategico del Medio-Oriente e per le stesse speranze di pacificazione dell’area.
Sul piano simbolico, sarà con molte probabilità l’Irak e la sua evoluzione o involuzione democratica a consentire il recupero di una visione multilaterale delle relazioni internazionali dopo la fase più acuta di crisi di quell’impianto.
Anche per questo potrà essere di grandissima importanza la discussione che si apre oggi in questa sede. Ed è questa, del resto, una delle ragioni di fondo che ci ha spinto, in tempi non sospetti, alla convocazione di questa Conferenza.
L’Irak è di fronte a nuove grandi speranze. Speranze di pace, di libertà e democrazia, di convivenza solidale e pacifica.
La comunità internazionale guarda a quelle speranze con l’animo partecipe di chi vuole contribuire al raggiungimento di quegli obiettivi.
In questo senso ci sentiamo davvero parte di una scommessa comune.
Che, con tutti gli sforzi necessari e possibili, cercheremo di vincere. Insieme.
Vi ringrazio e Vi auguro buon lavoro.