Adesso, se possibile, la via della pace è ancora più stretta. Non solo per le vittime civili 'inermi che ancora negli ultimi giorni hanno allungato una lista già interminabile. Quattordici morti israeliani, l'altro ieri, nelle due azioni suicide di Gerusalemme e Tel Aviv. Altre vittime palestinesi a Hebron, tra i quali un bambino di dieci anni. Ieri mattina, due morti a Gaza. Una scia continua di sangue della quale non è dato scorgere la fine. Ma, al di là di un tributo così penoso, la pace si allontana anche per altri motivi. Come confermano le cause reali di un atto - le dimissioni dell'ex primo ministro palestinese - che rende assai più complessa, se non velleitaria, la ripresa di un negoziato credibile. Ho espresso più volte il mio scetticismo verso quella formula - processo di pace - da tempo in uso per indicare la prospettiva storica di due popoli e due stati. Non è naturalmente una riserva lessicale. Più semplicemente è la reazione, credo giustificata, allo stato effettivo dei rapporti tra israeliani e palestinesi. Trovo per questo assai discutibile imputare il fallimento di Abu Mazen ad un suo conflitto irrisolto con Yasser Arafat, a conferma dell'impotenza di una leadership moderata stretta tra la personalità irriducibile dell'anziano capo e le pulsioni estremiste di Hamas. Problemi assolutamente reali, s'intende, ma che da soli non giustificano la piega drammatica degli eventi. Troppi segnali palesano, anche a occhi partigiani, quale enorme responsabilità gravi sul governo di Ariel Sharon e la sua reiterata volontà di precludere ogni spiraglio ad un primato della politica sulle armi.
Ovviamente non ci si può che associare all'appello rivolto da Abu Ala, il nuovo premier palestinese che proprio ieri ha sciolto la riserva sull'accettazione dell'incarico, affinché non solo Stati Uniti e Unione Europea, ma il governo israeliano in primo luogo appoggi da subito un complicatissimo rilancio del dialogo. E però, se davvero si vuole intervenire su una situazione che sfugge oramai a qualsiasi controllo, neppure si può tacere degli atti che hanno spinto all'isolamento e alla sconfitta il generoso tentativo del suo predecessore. Perché, infine, questo a me pare l'interrogativo crudo che abbiamo davanti. Cosa vuole ottenere concretamente l'attuale leadership israeliana? Quale obiettivo persegue? Basta invocare il sacrosanto diritto-dovere di quel paese e della sua classe dirigente a difendere con ogni mezzo la sicurezza minacciata della popolazione civile per giustificare la successione di azioni politico-militari che da anni strozza nella culla ogni serio tentativo di pacificazione?
Al governo israeliano la comunità internazionale, a partire dall'amministrazione americana, chiede essenzialmente tre cose. Che cessino immediatamente le azioni militari e gli attacchi mirati nei confronti dei palestinesi residenti nei territori; che venga sospeso ogni ulteriore insediamento di coloni come prova di una concreta volontà di dialogo; e infine che si receda dalla costruzione di una barriera fisica a isolamento dei territori palestinesi con i drammi che ciò determina sulla vita quotidiana di migliaia di famiglie, come denunciato recentemente da un rapporto di Amnesty International.
La mia opinione dunque, non da oggi, è che sia giunto il tempo di esercitare tutta la pressione internazionale necessaria per convincere il governo israeliano della cecità di una politica senza sbocco, destinata soltanto a produrre nuove tragedie. E a questo appello, per l'amor del cielo, non si risponda esibendo con macabra ritualità le prove inconfutabili del terrorismo di Hamas o di altre sigle. Perché proprio la sconfitta, politica oltre che militare, di quelle frange sciagurate esige prima d'ogni altra cosa una svolta al vertice. La disponibilità dei leader degli uni e degli altri a voltare pagina, riconoscendo all'interlocutore dignità e la coerenza di una comune volontà di tregua.
Per parte mia non fatico a confessare uno scetticismo di fondo e un'angosciante sensazione di impotenza. Troppo in avanti si è spinta la frattura perché le parole da sole bastino a invertire una rotta che le armi e le bombe hanno consolidato. Dunque insisto, sia la comunità internazionale - a partire da Stati Uniti, Russia e Unione Europea - a intervenire se vogliamo che la road map, a tutt'oggi unica vera prospettiva di pace, possa ancora avere un futuro. Quanto al resto, non è il momento del tifo o della faziosità. Casomai c'è bisogno ora, dentro e fuori i confini medio-orientali, della massima sincerità e di uno spirito radicalmente diverso dall'umore che ha dominato fin qui. Forse è questo il migliore augurio che si possa indirizzare alla navigata moderazione di Abu Ala. Ma esso è, al contempo, un ammonimento severo a quanti, in un campo e nell'altro, continuano a rappresentare nei fatti i principali nemici della pace.