Quante volte, nel corso degli ultimi anni, abbiamo sentito domandare: “La sinistra è in crisi”? I fatti sono testardi: attualmente, a livello europeo, solo 4 dei 27 Stati membri dell’Unione sono governati da un primo ministro socialdemocratico. E c’è di che sorprendersi: la crisi economica non rimette forse in causa discussione il modello liberale?
Del resto, se la sinistra è in crisi e deve riconoscere i propri errori passati, la destra non si trova certo in una situazione migliore perché, accecata dal potere, non sembra ancora rendersi conto dell’attuale crisi democratica, caratterizzata dal distacco e dalla disillusione dei cittadini. Inoltre, il modello di società che essa propone non è foriero di alcun avvenire, come dimostra chiaramente la sua mancanza di risposte alla crisi economica. Tuttavia, con fare pragmatico, cinico e opportunista, la destra ha comunque cercato di approfittare della crisi, giocando sul sentimento di paura e insicurezza che questa provoca. Fortunatamente, non tutti i cittadini si sono lasciati incantare da questa propaganda dal fetore talvolta fascista.
In Germania, Francia e Italia, ad esempio, la destra è ormai minoritaria nell’opinione pubblica. Un dato, quest’ultimo, confermato dalla cocente sconfitta di Silvio Berlusconi nella sua roccaforte di Milano in occasione delle elezioni amministrative dello scorso maggio. Stessa sanzione (sorte) per la CDU di Angela Merkel, che ha registrato una serie di pesanti sconfitte nelle consultazioni elettorali svoltesi finora in ben sette Länder, per non parlare dei risultati talvolta catastrofici ottenuti dal suo alleato liberale al livello federale. Due leader talmente in difficoltà da poter provocare, se la situazione non migliorerà, la fine anticipata della legislatura, facendo del 2012 un anno cruciale per i progressisti.
In attesa del 2012, e in particolare in attesa delle elezioni francesi, i cui sondaggi annunciano un successo per la sinistra, un primo segnale di questo cambiamento è giunto, lo scorso 15 settembre, dalla Danimarca, con la vittoria della coalizione rossa alle elezioni politiche. Un successo che farà di Helle Thorning-Schmidt la prima donna a guidare un governo in Danimarca. Questa vittoria preannuncia un’attenuazione delle misure contro gli immigrati e la messa in atto di un piano per la crescita, con investimenti in infrastrutture, istruzione, sanità ed energie rinnovabili. E le risorse per finanziare questo piano dovrebbero essere reperite da nuove imposte sulle banche, sulle rendite da capitale e sui grandi patrimoni.
Questo programma è il segnale di un enorme passo avanti, nel senso che si sta finalmente passando dall’analisi autocritica sugli errori della sinistra a proposte concrete che rispondano alla domanda: “cosa dobbiamo fare per rilanciare il nostro movimento progressista?”
In questa prospettiva, e contrariamente alla destra, la cui cultura – rafforzata dai partiti estremisti – auspica il ritorno alla dimensione nazionale, se non addirittura regionale, la rinascita del progressismo diviene inscindibile dal rilancio del progetto europeo, che deve essere inteso a un tempo come un ideale, una missione politica e un progetto civico.
E’ per questo che occorre lanciare una nuova alleanza delle forze di centrosinistra, che arrivi a comprendere le compagini ecologiste senza dimenticare i movimenti provenienti dalla società civile. Un’alleanza che faccia dell’unione politica dell’Europa il cuore del suo progetto.
Ed è in questa prospettiva che bisogna sottolineare la capacità di Helle Thorning-Schmidt di mettere insieme le forze riformiste, sottraendosi al discorso populista sulla sicurezza e l’immigrazione che il Partito liberale del primo ministro uscente, Lars Lokke Rasmussen, ha istituzionalizzato nel corso di questi 10 anni, anche grazie alla sua alleanza con il Partito del popolo danese –formazione di estrema destra citata nel manifesto anti-immigrazione del terrorista norvegese Anders Beiring Breivik–.
Come mostrano le manifestazioni di Madrid, Atene e Londra dei mesi scorsi, a prima vista mosse da motivazioni simili ma in realtà basate su problemi e rivendicazioni di diverso ordine, la situazione attuale non è sostenibile ancora a lungo.
Una nuova società è in marcia, una società che cerca di adattarsi al mondo nuovo che avanza anche grazie alla spinta delle nuove tecnologie.
Come rivela l’ultima opera scaturita dal progetto “Next Left”, che la Fondazione per gli studi sul progressismo europeo (FEPS) porta avanti fin dal terribile risultato delle elezioni europee del 2009 – terribile non solo per i progressisti, ma per la stessa democrazia europea, visti i numeri della partecipazione – il futuro dei nostri movimenti dipenderà in primo luogo dalla loro capacità di rafforzare il progetto europeo e di fare in modo che l’Europa torni a crescere e a contare nelle relazioni internazionali.