PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell'indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale, sospesa nella seduta del 25 ottobre scorso.
Comunico che, ai sensi dell’articolo 33, comma 4, del Regolamento, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo e che la Presidenza del Senato ha già preventivamente fatto conoscere il proprio assenso. Se non vi sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori.
È in programma oggi l'audizione dell'onorevole Massimo D'Alema - che ringrazio per avere accettato il nostro invito. Quella odierna si inscrive in un ciclo di audizioni di personalità che hanno avuto esperienza, responsabilità o punti di osservazione di un certo rilievo in ordine al rapporto fra politica estera e diritti umani, più volte considerato come rapporto tra realismo politico e principi, nella ricerca di un equilibrio così importante e al tempo stesso certamente non facile da raggiungere .
Abbiamo affrontato questa problematica sapendo che essa, oltre a rappresentare una questione teorica di grande rilievo culturale, è anche una questione politica che interroga direttamente l'azione e gli orientamenti di politica estera nel momento in cui problemi di natura umanitaria entrano prepotentemente sulla scena in nome della responsibility to protect, principio in base al quale il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha deciso l'azione in Libia. Questo è in sostanza il quadro nel quale ci si muove.
Ricordo che il ciclo di audizioni sul tema Politica estera e diritti umani è stato aperto con l'intervento del presidente Dini il 5 ottobre scorso ed è proseguito con il contributo del sottosegretario Scotti. Oggi ha luogo l'audizione del presidente D'Alema e il nostro lavoro continuerà poi con le audizioni della senatrice Bonino, di Bernard Kouchner, ex ministro degli esteri francese, di Giuliano Amato e di Andrea Riccardi, presidente della Comunità di Sant'Egidio che pratica un'esperienza importante da un punto di vista meno istituzionale, ma certamente non meno significativa. Il ciclo di audizioni si concluderà quindi con l'intervento del ministro degli affari esteri Franco Frattini.
Do ora la parola al presidente Massimo D'Alema.
D'ALEMA. Signor Presidente, ringrazio la Commissione per l'invito a partecipare all'odierna audizione che riguarda un tema che effettivamente considero fondamentale, nello sforzo di raggiungere un governo dei processi internazionali che si ispiri ai principi di tutela dei diritti e dei valori fondamentali.
Vorrei iniziare la mia esposizione introduttiva - sulla quale presumo si svilupperà un dialogo - citando, se me lo consentirete, alcuni passaggi delle linee programmatiche di politica estera che presentai in qualità di Ministro degli affari esteri il 14 giugno 2006 di fronte alle Commissioni congiunte di Camera e Senato. In quella sede annunciai che l'Italia aveva presentato la propria candidatura al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, «assumendo l'impegno di adoperarci per l'abolizione della pena di morte, la promozione della democrazia e della legalità, la lotta contro ogni forma di discriminazione, di intolleranza, la protezione dei bambini nei conflitti armati e la lotta contro la tortura».
Questi impegni programmatici, inoltre, furono fondamentali nel motivare la candidatura dell'Italia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sulla base della convinzione -che avevo e che ho tutt’ora- che «la tutela dei diritti umani debba avere un ruolo essenziale in una politica estera che voglia darsi una forte connotazione etica. Ciò vale nei confronti di tutti i Paesi, quelli con i quali vogliamo sviluppare rapporti economici e politici più intensi, dalla Cina ad altri Paesi asiatici, ma anche con i nostri alleati». In quei giorni, infatti, era viva la polemica con l'Europa perché la Presidenza di turno austriaca, attraverso le parole della signora Plasnik, all'epoca Ministro degli affari esteri, aveva ribadito, di fronte al Parlamento europeo, la richiesta di una chiusura della base di Guantanamo. Era questo un tema delicato nel rapporto tra Europa e Stati Uniti e io sottolineai: «l'Europa si batte perché nella lotta contro il terrorismo vengano salvaguardati i diritti umani e siano rispettate le regole del diritto internazionale che vigono nei nostri Paesi a proposito della tutela dei diritti fondamentali delle persone».
In definitiva, alla base di questa visione c'è l'idea che la politica estera debba poggiare sulle fondamenta di un idealismo temperato dal realismo, dunque sulla capacità di un grande Paese come il nostro di indirizzare la propria azione di politica internazionale muovendo da una valutazione certamente degli interessi nazionali, ma anche dei valori fondamentali ai quali deve ispirarsi un ordine internazionale giusto, condizione questa di stabilità e anche di sicurezza.
Questa ispirazione, che, a mio giudizio, è valida in ogni tempo, deve misurarsi con uno scenario molto complesso e contraddittorio. Da una parte, infatti, se consideriamo la prospettiva storica, appare crescente la necessità di tutelare i diritti umani, in ragione del fatto che viviamo il tempo dell’espansione della democrazia come forma di governo, e non soltanto in Europa. Pensiamo all'89, con il crollo dei regimi comunisti, a quello che è successo in America Latina, dove ormai le dittature militari e le logiche di guerriglia sembrano via via essere dimenticate. Oggi, la democrazia si affaccia persino nel mondo arabo, in un processo delicato, drammatico, ma carico di grandi potenzialità positive.
Dall’altra parte, tuttavia, questa tendenza generale appare controbilanciata dal persistere di regimi autoritari, con forti limitazioni delle libertà e dei diritti delle persone. Prendiamo un Paese molto importante sulla scena internazionale come la Cina. Esso rappresenta emblematicamente questo contrasto: la crescita di un'economia moderna di tipo capitalistico e il persistere di forme di governo autoritarie, con la limitazione dei diritti umani. Accanto alla sopravvivenza di questi regimi, però, vi sono rischi di forme neoautoritarie. In quest’ottica, guardiamo all'evoluzione della Russia. E’ un Paese che si è affacciato alla democrazia e sembra oggi ripiegare verso un sistema governato dall'alto, con serie limitazioni delle libertà fondamentali, prima tra tutte la libertà dell'informazione.
Sotto questo profilo ho trovato interessante una riflessione che proprio in questi giorni ha sviluppato Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga, su quello che dovrebbe fare l'Europa.
Oltre a tutto questo, dobbiamo considerare che la globalizzazione ed il processo di cambiamento verso l’espansione della democrazia sono state affiancate da fenomeni molto estesi di conflitti di natura etnica o tra Stati, ma anche di guerre civili di carattere religioso. Ci ricordiamo tutti di quello che è successo nei Balcani e di quello che avviene, in modo perdurante, in diverse zone dell'Africa, con conseguente massiccia violazione dei diritti umani, spesso in un quadro di relativa impotenza della comunità internazionale.
In questo quadro è emersa l’importanza del principio, affermatosi a partire dagli anni Novanta, della “responsabilità di proteggere”, concetto che sancisce la prevalenza della tutela dei diritti fondamentali persino sulla sovranità nazionale. Si tratta, in effetti, di un principio di complessa applicazione in ragione della delicatezza delle due questioni riguardanti la legittimazione dell'intervento della comunità internazionale e la discrezionalità nella decisione: perché si interviene nei confronti di un determinato Paese e non si fa nulla nei confronti di un altro? Ovviamente, ciò dipende più spesso da ragioni di realpolitik che non da un'applicazione coerente dei principi.
Tuttavia, a mio giudizio, quello della “responsabilità di proteggere” è un principio importante e non rinunciabile, in quanto costituisce una prima affermazione di un diritto cosmopolitico verso il quale si dovrebbe tendere, soprattutto quando sono in gioco diritti fondamentali della persona.
Oltre a questi fenomeni, un'altra seria minaccia alla sicurezza dei diritti delle persone proviene dai cosiddetti “Stati falliti”, ossia dalla possibilità che in essi si insedino forme di criminalità organizzata e di terrorismo. Pensiamo alla condizione di un Paese come la Somalia e a tutti i rischi per i diritti e per la sicurezza che possono derivare da processi di decomposizione di realtà statuali di questo tipo.
Infine, ci siamo trovati a fronteggiare una minaccia nuova, anche per le modalità con cui si è manifestata, in particolare dopo l'11 settembre 2001. Mi riferisco alla sfida del terrorismo, fenomeno che ha notevolmente cambiato lo scenario internazionale, peggiorandolo in modo sostanziale, poiché il sistema dei diritti ha sofferto di un approccio essenzialmente bellico alle sfide della sicurezza, sia interna che internazionale. E’ evidente che le misure adottate in molti Paesi, spesso eccessive, non sempre efficaci e talora persino controproducenti, hanno prodotto effetti negativi a cascata sulle politiche di promozione dei diritti umani a livello mondiale. È così emersa una sorta di contrapposizione tra le esigenze di sicurezza e la tutela dei diritti fondamentali.
Alcuni caratteri definitori della condizione politica attuale a livello mondiale, si sono forgiati proprio per impulso di quella politica di contrapposizione al terrorismo globale che è stata denominata "global war on terror", propugnata dagli Stati Uniti e teorizzata nella Strategia per la sicurezza nazionale del 2002. Tali iniziative, ripeto, hanno prodotto effetti concatenati a tutti i livelli di ampiezza e di funzionamento dei sistemi politici.
La nuova Amministrazione americana ha presentato, nel 2010, una revisione della sua dottrina strategica, con un cambiamento sostanziale e non solo nominalistico. Ad esempio, è stata cancellata dal lessico politico l'espressione inquietante e vaga di "guerra al terrore", a vantaggio di una più precisa identificazione di Al Qaeda come minaccia da fronteggiare. Ciò ha comportato anche un mutamento strategico, che ha successivamente prodotto l'effetto dell'individuazione e dell’eliminazione di Osama Bin Laden. Tuttavia, l'onda innescata dai cambiamenti avviatisi all'inizio del decennio scorso sta ancora producendo i suoi effetti e continuerà a produrli nel lungo periodo.
A mio parere, questo senso di insicurezza, che causa un riflesso securitario e spinge in secondo piano il tema della tutela dei diritti, ha trovato nuovo alimento anche nelle paure legate all'esplosione di una crisi finanziaria globale. Questo fattore, che sembra non essere attinente all'argomento in discussione, invece lo è, perché concorre a determinare una psicologia di massa.
Tra gli effetti dirompenti e distorcenti, vi è stata una crescente contraddizione del ruolo delle potenze mondiali: attori politici portatori di interessi, ma anche promotori di diritto e quindi sostenitori di valori. In questo senso, è fuori dubbio che l'impianto del diritto internazionale concernente i diritti umani non può produrre tutti i suoi effetti se i suoi protagonisti fondamentali decidono di non sottoporsi a tale giurisdizione. Ciò vale certamente per gli Stati Uniti d'America, che - come sapete - si sottraggono a una giurisdizione internazionale in materia di tutela dei diritti e, a cascata, per diversi altri importanti attori sulla scena internazionale. Ricordo che questo fu uno dei temi al centro delle iniziative della politica estera italiana, i cui momenti più significativi sono rappresentati, a mio avviso, dalla firma del Trattato di Roma per l'istituzione del Tribunale penale internazionale e, in un tempo più recente, dal dibattito e dall'approvazione nell'Assemblea generale delle Nazioni Unite della risoluzione per la moratoria delle esecuzioni contro la pena di morte.
Lo sforzo di costruire un impianto di diritto internazionale, come ho sottolineato prima, urta inevitabilmente con il fatto che alcuni dei maggiori protagonisti si sottraggono a tale giurisdizione. Tale orientamento è stato poi notevolmente rafforzato dalla logica della guerra al terrorismo, dal modo in cui si è dispiegata nel corso degli ultimi anni, sia pure per ragioni di sicurezza nazionale e per periodi limitati.
Il sistema della collaborazione intergovernativa nella lotta al terrorismo ha fatto sì che venisse posta la sordina alle violazioni dei diritti umani perpetrate in Paesi alleati, accreditando a livello internazionale l'idea che le ragioni della sicurezza e dell'ordine debbano avere una prevalenza rispetto alle ragioni del diritto e della libertà.
In questo contesto, persino l'applicazione del diritto ha finito per essere percepita talora come un fattore di debolezza rispetto al ricorso a strumenti bellici e parabellici, determinando in molti casi una sorta di accantonamento del diritto, un ritorno allo stato di natura. Eppure la civiltà occidentale proclama che il suo fondamento sta nella forza del diritto e il suo cuore assiologico è proprio la cultura dei diritti.
Credo, oltretutto, che l'idea di generare sicurezza, mettendo da parte la tutela dei diritti o ponendola in contrapposizione, si è rivelata per molti aspetti illusoria. Questo clima di democrazia assediata, infatti, non ha generato sicurezza. Basti pensare, ad esempio, alla convinzione che i dittatori arabi potessero fungere da efficace argine contro l'islamismo. Ciò ha portato l'Occidente a collaborare con quei regimi, senza comprendere che in realtà dietro l'immagine di stabilità covavano conflitti e potenziali destabilizzazioni di enorme portata.
Insomma, come si legge nel rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite del 2005, Larger freedom, la protezione e la promozione dei valori universali dello Stato di diritto, dei diritti umani e della democrazia sono fini a se stessi. Essi sono anche essenziali per un mondo giusto e stabile: nessun programma di sicurezza e nessun impegno per lo sviluppo potranno essere coronati da successo, se non sono basati sul fondamento certo del rispetto della dignità umana. In particolare, in quel documento si legge che sarebbe un errore trattare di diritti umani come se vi fosse un rapporto inverso tra tali diritti e altri obiettivi, quali la sicurezza e lo sviluppo. E’ evidente che siamo più deboli quando nel combattere gli orrori dell'estrema povertà o del terrorismo compromettiamo quegli stessi diritti umani che tali flagelli negano ai cittadini. Le strategie basate sulla protezione dei diritti umani sono vitali, sia per i nostri criteri etici che per l'efficacia pratica delle nostre azioni.
Dunque, diritti e sicurezza non sono valori antitetici o alternativi e credo sia molto importante richiamare questa visione, soprattutto richiamarla a noi stessi, cioè al mondo occidentale. Non c'è dubbio, infatti, che il l’Occidente, in particolare l'Europa, ha, sotto questo profilo, una peculiare responsabilità. È l'Europa la patria dei diritti. Questo costituisce il cuore della nostra civiltà. Ed è difficile pensare a un ordine mondiale in cui i diritti umani siano centrali senza che l'Europa ne faccia la sua missione fondamentale, da perseguire con coerenza.
In questo momento, le incognite più rilevanti vengono proprio dal Mediterraneo. Appare necessario ripensare o immaginare ex novo una prospettiva di relazioni davvero strategiche e di lungo periodo.
Finora la politica europea occidentale è stata improntata su tre priorità: la sicurezza economica, che in particolare si traduce in sicurezza energetica; il controllo dei flussi migratori; il contenimento del fondamentalismo islamico, molto spesso in una visione rozza, appiattita.
Rispetto all’ultimo punto, sono convinto che dovremmo imparare a studiare la complessità di questo mondo, perché islamismo, fondamentalismo e terrorismo sono spesso apparsi nel dibattito pubblico come sinonimi. Sono, invece, parole che fanno riferimento a realtà e relazioni piuttosto complesse tra di loro.
Anche a causa di questo approccio di carattere prevalentemente securitario, l'Occidente, di fronte alla cosiddetta primavera araba, è sembrato oscillare tra l'apprezzamento e l'euforia per una democratizzazione che è apparsa ispirarsi a valori, non dico nostri, ma certamente comuni da una parte, e il timore di quello che potrà venire dopo rispetto all'elemento falso di rassicurazione che i regimi precedenti sembravano offrire dall’altra.
E’ evidente che, a mio giudizio, ciò che accade rappresenta per noi una grande opportunità ed anche una sfida. Un'opportunità per creare una condizione di sicurezza e cooperazione, e una comunità di valori intorno al Mediterraneo, cioè un luogo che è stato l'epicentro dei pericoli e delle minacce maggiori per la sicurezza internazionale negli ultimi anni. Non c'è dubbio, infatti, che se il grande pericolo è stato quello di una contrapposizione tra l'Islam radicale e il mondo occidentale, questa contraddizione passava innanzitutto in quell’area.
Oggi esiste la possibilità di costruire una comunità basata su valori condivisi. Naturalmente, questo richiede una notevole capacità d'iniziativa politica e culturale da parte, in particolare, dell'Europa. È chiaro che la democratizzazione del mondo arabo porta con sé un peso crescente di movimenti di ispirazione religiosa, i quali, d'altro canto, lo esercitavano già prima, sebbene fosse mascherato dalle dittature. Personalmente, penso che sia molto meglio che tale influenza si manifesti attraverso processi democratici che non mediante forme di opposizione che potevano anche assumere un carattere violento e non democratico.
Naturalmente la vera sfida non è quella di negare il ruolo di questi movimenti, ma quella di operare ai fini di una loro piena integrazione nello scenario politico. Si tratta di lavorare affinché all’interno dell’Islam politico prevalgano forme di organizzazione e culture compatibili con il pluralismo e con il riconoscimento di valori di eguaglianza e di non discriminazione. Intendo, in particolare, la discriminazione di genere, cioè il mondo femminile.
È essenziale una maggiore reciproca conoscenza nei confronti di un mondo che è molto più complesso di quanto non possa risultare ad una limitata o superficiale cognizione della realtà arabo-islamica. Tanto per fare un esempio, i Fratelli musulmani vengono collocati nel dibattito pubblico in uno spazio indefinito che va da Al Qaeda all'Iran, passando per Hamas, Hezbollah e talebani, laddove in realtà sono una cosa diversa.
Ricordo le polemiche italiane a proposito dell’iniziativa del nostro Paese in Libano e degli inevitabili rapporti con Hezbollah. Naturalmente, fra chi polemizzava non tutti sapevano che Hezbollah è il maggior partito politico del Libano e che all'epoca faceva parte del Governo, per cui era piuttosto problematico negoziare la pace senza incontrare i rappresentanti di una fondamentale forza di governo.
Il mondo è complicato e se ci vogliamo stare occorre innanzitutto conoscerlo per poi sviluppare un dialogo in cui siano imprescindibili determinati principi: la rinuncia alla violenza, l'accettazione dei valori democratici, del pluralismo, il rifiuto di ogni discriminazione, il principio di uguaglianza.
In quest’ottica, l'esperienza di un grande Paese come la Turchia ci ha dimostrato che l'Islam politico può essere compatibile con le democrazie pluralistiche e con il riconoscimento di diritti fondamentali. Forse c'è da domandarsi se nei confronti di quel Paese alla fine non abbia pesato negativamente una chiusura europea, in particolare per responsabilità della Francia e della Germania. Un atteggiamento che rischia, per certi aspetti, di sospingere questo Paese lontano dall'Occidente, frustrando l’aspirazione di portare la Turchia nell'Unione europea, che era, invece, largamente condivisa dall'opinione pubblica.
Nel rapporto tra sicurezza e diritti umani dobbiamo essere innanzitutto coerenti con noi stessi. Prendiamo il caso della Libia. Sia pure comprendendo l'asprezza di una guerra civile e anche l'inevitabile violenza di una rivoluzione che pone fine a un lungo periodo di dittatura, c'è da domandarsi, di fronte alle denunce della massiccia violazione di diritti umani avanzate in queste ore anche da Amnesty International, se non debbano attivarsi non solo le Nazioni Unite, ma anche la NATO. Dico questo, anche perché in Libia è in corso una missione militare dell’Alleanza e dunque non possiamo soprassedere come se quelle violazioni non ci riguardassero.
Noi in quella scena non siamo spettatori, ma attori e abbiamo il diritto di chiedere che i prigionieri siano trattati secondo le convenzioni internazionali e che le Nazioni Unite possano vigilare per evitare il ricorso alla tortura o alle esecuzioni sommarie.
Più in generale, dobbiamo accompagnare la primavera araba sostenendo senza riserve la democrazia e i suoi protagonisti, anche se a volte possono non piacerci, per impostazioni o visioni ideologiche diverse dalle nostre, vigilando allo stesso tempo contro ogni forma di violazione dei diritti umani: sia quando perpetrate dai vecchi dittatori -come sta accadendo in Siria, dove è importante che ci sia una forte pressione della comunità internazionale- sia quando i responsabili sono coloro che si battono per la libertà e per tale motivo godono del nostro sostegno.
Si tratta, insomma, di un processo aperto ad esiti diversi, che, a mio giudizio, chiama in causa in particolare l'Europa, non solo sul piano del sostegno militare o della tutela attiva dei diritti umani, ma anche dal punto di vista della capacità di mettere in campo una nuova proposta. In fondo, la primavera araba mette radicalmente in discussione le tradizionali politiche europee del Mediterraneo, il cosiddetto processo di Barcellona, di cui ormai c'è solo un lontano ricordo, non positivo.
La stessa esperienza dell'Unione per il Mediterraneo, fortemente voluta dal presidente Nicolas Sarkozy, si è risolta in un sostanziale fallimento, poiché non si è riusciti neppure a convocare il secondo vertice dei Capi di Stato e di governo. A cose viste, si potrebbe dire che è stata una fortuna che ciò non sia avvenuto, perché se si fosse tenuta quella riunione avremmo avuto la foto di famiglia di tutti i leader europei insieme ai dittatori arabi alla vigilia della loro cacciata.
Piuttosto trovo interessante la proposta che è stata lanciata dal Movimento federativo europeo, che suggerisce di lavorare intorno all'ipotesi di una comunità euromediterranea che abbia proprie istituzioni e sia concepita non come un'alleanza geopolitica, ma come una comunità tra l'Unione europea e i Paesi dell'altra sponda che scelgono la democrazia. In fondo, l'allargamento dell'Unione europea all'Est, di fronte alla grande rivoluzione post 1989, ha rappresentato una politica di grande forza, perché l'integrazione nell'Unione europea era vista dai cittadini dei Paesi dell'Europa centrale ed orientale come la sanzione di una compiuta svolta democratica e, in tal caso, quella a favore dell'Europa si presentava come una scelta non soltanto di carattere economico, ma anche sul piano dei valori.
È chiaro che non possiamo prospettare agli arabi e ai magrebini di diventare europei. Tuttavia, l'idea che essi possano entrare a far parte di una comunità con l'Europa, con tutti i vantaggi anche di carattere economico e di sostegno allo sviluppo che ciò può comportare, proprio in quanto cittadini di Paesi che hanno scelto la democrazia e non semplicemente perché nostri vicini, può introdurre un elemento premiale, un consolidamento dei processi democratici che potrebbe attivamente intervenire nelle situazioni in atto.
L'altra grande sfida riguarda il governo comune delle migrazioni. La questione è oggetto di una riflessione profonda e rappresenterà una prova anche per questi Paesi. Si tratta di processi che vanno governati e non possono essere affidati semplicemente alla spontaneità.
Certamente governo delle migrazioni e salvaguardia dei diritti umani rappresentano un nodo molto importante. Le forme in cui il governo delle migrazioni si è realizzato negli anni che sono alle nostre spalle non sempre sono state rispettose dei diritti delle persone. C'è il nodo dello status dei migranti, questione molto complessa e non risolta. La stessa distinzione tra profughi, rifugiati e migranti è spesso assai problematica. Abbiamo applicato questi principi a spanna. Ad esempio, un somalo che partiva dalla Libia era considerato un profugo, mentre lo stesso somalo, partendo dalla Tunisia, sarebbe stato considerato un immigrato clandestino. Si tratta di criteri che sono stati adottati spesso in una logica securitaria, per paura dell'immigrazione e, di frequente, con uno scarsissimo rispetto dei diritti di queste persone.
Ritengo davvero che questa sia una sfida per la civiltà europea. In fondo, la Carta europea dei diritti fondamentali introduce una grande novità, in quanto si ispira allo ius soli, spesso in conflitto con lo ius sanguinis, che continua ad essere dominante nella legislazione di molti Stati nazionali. È un tema che riguarda il riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone.
A questo proposito, se guardiamo all’Italia, è difficile capire che tipo di democrazia sia la nostra, se cittadini immigrati che rappresentano più del 10% della ricchezza nazionale e circa il 12 per cento della forza lavoro del nostro Paese non hanno diritto di voto!
Se non si inverte la rotta, e quel processo arriverà a regime, siccome l’immigrazione continuerà in maniera consistente anche perché il nostro continente ne ha bisogno, si correrà il rischio di vivere in democrazie che somigliano più alle città-Stato della Grecia antica che non alle democrazie moderne e contemporanee. Rischiamo di diventare democrazie censitarie, dove una parte importante della forza di lavoro più umile non gode dei diritti politici fondamentali.
Ciò altera drammaticamente il principio della rappresentanza e persino quello posto a fondamento del parlamentarismo anglosassone: no taxation without representation. Ma gli immigrati da noi pagano le tasse. Anzi, essi sono oggi il sostegno fondamentale dei nostri sistemi previdenziali di welfare, tanto che, se andassero via, non avremmo più soldi per pagare le pensioni. Questo aspetto tocca non soltanto il problema del rispetto dei diritti delle persone, dei diritti politici fondamentali, ma anche la qualità della nostra democrazia, da oggi e, in prospettiva, nel medio periodo.
Ho accennato al tema della lotta per l'abolizione della pena di morte, al valore del voto dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Si trattò, invero, di un'operazione politica importante, in quanto si erano succeduti vari tentativi e nello schieramento contrapposto figuravano Paesi come gli Stati Uniti e la Cina. Lo dico per sottolineare che l’altra parte non era certo scarsamente organizzata o influente. Anche per questo, oltre che per il risultato in sé, quell’iniziativa ha rappresentato un momento di legittimo orgoglio per il nostro Paese. Purtroppo, quel voto non ha prodotto un effetto immediato, però la tendenza di lungo periodo verso l'abolizione della pena di morte è continuata e per certi aspetti è stata rafforzata dal pronunciamento dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Vorrei che, da questo punto di vista, la nostra iniziativa fosse rilanciata con maggiore chiarezza. Ma non è questo l’oggetto dell’audizione e, dunque, non voglio parlare della politica estera italiana, in merito alla quale sarebbero moltissime le osservazioni da fare. Né voglio aprire un dibattito sugli elementi oggettivi di indebolimento, che, secondo me, questa politica ha avuto. Voglio evidenziare, però, un solo aspetto che investe il tema dei diritti: nel corso di questi ultimi anni, è stata sostanzialmente cancellata la cooperazione internazionale, il che certamente ha indebolito non poco il rapporto tra l'Italia e soprattutto i Paesi più poveri, quelli emergenti.
In conclusione, credo che ci troviamo in un'epoca in cui la vita politica tende a ricongiungersi con i temi fondanti dell'etica individuale e sociale, con il campo della vita e della morte, quello che oggi viene definito biopolitica. Questo significa anche che la politica deve misurarsi con una nuova frontiera dei diritti umani fondamentali, della dignità della persona. Una sfida che si gioca non soltanto all'interno degli ordinamenti nazionali, ma sullo scacchiere internazionale.
Non c'è dubbio che la grande crisi politica, legata prima all'avvento del terrorismo e poi alla crisi economica, ha introdotto una domanda imprescindibile di "governo mondiale", cioè di rafforzamento delle istituzioni internazionali, della loro capacità di prevenire le crisi, di intervenire. E’ una questione che chiama direttamente in causa l'Europa e il suo funzionamento.
A me sembra che in questo contesto, se si deve parlare di governance mondiale, non si possa prescindere dalla necessità di affermare un diritto umano cosmopolitico, più forte della sovranità nazionale, che deve orientare le grandi scelte della comunità internazionale. Vi è anche un concetto di sicurezza umana, su cui si intrattiene anche una parte della pubblicistica e della saggistica più recente, che è parte fondamentale del tema più generale della sicurezza. Ciò è evidente nel caso dell'Afghanistan, da cui - come sostengono gli americani - non usciremo se non vinceremo la battaglia nei cuori, cioè se non saremo in grado di offrire una ragionevole prospettiva di dignità personale, di sviluppo di normali legami sociali ed economici. Insomma, non c'è sicurezza senza una garanzia piena della persona, dei suoi diritti, delle sue opportunità.
In questo senso, idealismo e realismo possono ragionevolmente congiungersi, perché è realistico pensare che la sicurezza possa essere meglio tutelata in un quadro di rispetto dei diritti delle persone.
Concludendo, credo che la missione dell'Europa dovrebbe essere sostanzialmente la seguente: governance democratica e narrazione universalistica e incondizionata dei diritti umani. D’Altra parte, viviamo un tempo in cui l'Europa vede inevitabilmente ridimensionarsi il suo peso economico sulla scena mondiale (oggi rappresentiamo grosso modo il 23 per cento del PIL, ma siamo proiettati a rappresentarne, da qui a 20 anni, meno del 10 per cento), in un radicale riequilibrio economico e demografico delle dinamiche mondiali. E la fine del G8 è lì a testimoniare che persino le istituzioni che hanno rappresentato il dominio dell'Occidente sulla scena mondiale sono tramontate.
Se l'Europa vuole davvero continuare a contare in questo contesto, allora deve coerentemente muoversi sulla scena mondiale come grande potenza civile della democrazia, delle libertà e dei diritti umani. In caso contrario, non ci resterà altra prospettiva che il declino e la nostalgia della grandezza perduta. Credo, però, che questo sarebbe un danno non solo per l'Europa, ma per un mondo globale che, dei valori europei, sembra avere ancora bisogno.
DI GIOVAN PAOLO (PD). Gli argomenti che sono stati toccati sono molti e immagino sarebbero potuti essere ancora di più. Vorrei però sottoporre al presidente D'Alema due questioni per sollecitare in merito un suo approfondimento.
Dato per scontato che non esiste un monopolio della coscienza e che il dibattito tra chi è più idealista e chi lo è meno è stucchevole, specie su questi temi, in un rapporto in cui i valori e l'interesse nazionale spesso potrebbero anche coincidere e non è detto che siano in contrapposizione, l'onorevole D'Alema ha fatto riferimento esplicito all'ingerenza umanitaria, tema che non è stato sollevato solo in ambito politico. Ricordo in proposito le riflessioni di Giovanni Paolo II e, per quanto riguarda l'Unione europea, la grande vicenda delle guerre nella ex Jugoslavia, Sarajevo e la lunga attesa che si è sviluppata anche tra gli intellettuali.
A distanza di anni e sulla base dell'esperienza passata, lei ritiene che possa essere sviluppata una sorta di analisi degli strumenti di ingerenza umanitaria e dell'escalation che viene seguita in determinate crisi geopolitiche? L'esperienza, infatti, probabilmente ci ha insegnato che è meglio che alcune azioni precedano altre e viceversa, o che i vari tipi di interventi siano attuati in contemporanea.
Vorrei poi riprendere il tema della governance degli affari esteri. Può darsi che sbagli, ma mi sembra di comprendere che a fare diplomazia non ci siano solo le cancellerie: in Europa c'è ad esempio tutta un'esperienza affine, come quella, ad esempio, dei gemellaggi che per 20 anni hanno esercitato nel piccolo una sorta di politica diplomatica di carattere popolare. Ritengo che la governance del Ministero degli affari esteri sia rappresentata dalla cooperazione allo sviluppo, dall'azione del corpo diplomatico (magari anche rafforzata) della cui preparazione si avvale il Ministero, dalla presenza delle scuole italiane nel mondo, cioè da tutte quelle istituzioni che, pur non essendo diretta emanazione del Ministero degli affari esteri, costituiscono comunque un contesto. Non ci si può lamentare se i brevetti di Monaco di Baviera sono in lingua tedesca e privi di una traduzione in italiano se poi le nostre istituzioni non vengono rafforzate!
Lei ritiene che in questo campo ci siamo margini per poter rafforzare tutte queste istituzioni non direttamente rappresentative del Ministero degli affari esteri ma afferenti ad esso? Ciò a suo avviso sarebbe utile?
PERDUCA (PD). Ringrazio il presidente D'Alema perché ha voluto onorare questo nostro lavoro con un intervento ampio e denso.
Con il poco tempo a nostra disposizione cercherò anch'io di limitare alcune considerazioni esprimendole in forma di domanda, tentando anche di avanzare qualche dubbio.
Innanzitutto, non è stato approfondito ciò che il presidente D'Alema aveva accennato all'inizio, cioè il concetto di idealismo temperato dal realismo. Sappiamo che all'interno di questa presunta dicotomia esiste l'interesse nazionale. Giustamente, forse anche per carità di patria, il presidente D'Alema non ha voluto parlare di politica estera italiana, però, essendo stato Ministro degli affari esteri, sicuramente si sarà trovato di fronte a situazioni in cui l'interesse nazionale doveva essere messo in collegamento più che con un idealismo temperato, con degli obblighi internazionali cui il nostro Paese è comunque chiamato a tenere fede, avendo ratificato fior di trattati, convenzioni e patti internazionali che ha riconosciuto avere lo stesso livello di legalità della nostra Costituzione.
Se è vero che Amnesty International, ieri, l'altro ieri e anche un mese fa, ha posto in evidenza alcune violazioni dei diritti umani in Libia, è altrettanto reale che le stesse violazioni dei diritti umani in Libia erano state ampiamente additate un anno, cinque anni o dieci anni fa. Dal momento che lei si è più volte espresso a favore della necessità - probabilmente per l'assenza di alternative - di mantenere un rapporto strategico con la Libia di Gheddafi, mi domando come in effetti si possa non dico trovare la quadra, ma comunque far convivere il mantenimento dell'interesse nazionale con gli obblighi internazionali di rispetto dei diritti umani, non perché questo ci venga moralmente richiesto da qualcuno, oltre Tevere o di qua dal Tevere, ma perché esiste un quadro normativo internazionale fondamentale, costituito da tutti gli strumenti a tutela dei diritti umani.
Meno cogente è la responsabilità di proteggere, che non ha un vero e proprio testo di riferimento, ma è espressa in una serie di dichiarazioni delle Nazioni Unite, articolate cinque o sei anni fa. Più cogente sarebbe la Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, nella quale è già previsto l'obbligo di fornire protezione a qualcuno, in virtù appunto non dello ius sanguinis - se posso generalizzare un po' per paradigmi - ma di una sorta di ius soli in ragione del quale siamo chiamati a proteggere chi viene da noi, a casa nostra, dove esistono determinate leggi, perché a casa sua è in pericolo.
Passo a questo punto alla seconda domanda. Non conosco nei dettagli la proposta del Movimento federativo europeo, ma mi sembra di aver capito, anche in considerazione del fatto che lei ha espresso su di essa un giudizio favorevole, che l'Unione euromediterranea sarebbe un organo aggiuntivo, rispetto all'esistente Unione europea e quindi non si sostituirebbe ad essa.
D'ALEMA. Sì, certo.
PERDUCA (PD). Tuttavia, il problema dell'Unione europea è che essa ormai, proprio perché siamo in fase di espansione, non ha più a che fare con la geografia, né ha mai avuto a che fare con il sangue, ma attiene al diritto internazionale, tant'è vero che - come lei ha detto - non si può chiedere ai magrebini di essere europei, eppure il re del Marocco, 25 o 27 anni fa, aveva già chiesto di essere membro a pieno titolo della comunità europea.
Lei ha ricordato alcuni esempi di proposte fallimentari che in origine non erano praticabili; allora, perché oggi si torna a chiamare in causa la necessità di un governo mondiale, considerato che le norme che abbiamo, se applicate dalla prima all'ultima, ci consentirebbero già di garantire i diritti individuali, non ultimo quello di diventare membri di una comunità regolamentata dal diritto internazionale? Oggi si chiama Unione europea, domani si potrebbe denominare Unione euromediterranea. Credo infatti che dovremmo evitare di chiamare sempre in causa qualcuno che non c'è, con la speranza che ci risolva i problemi, laddove noi per primi non ci assumiamo la responsabilità di far rispettare le leggi.
LIVI BACCI (PD). Proprio perché l'idealismo non può che essere molto ben temperato e poiché, come l'onorevole D'Alema ha detto, il mondo è complicato, riduco la portata del mio intervento soffermandomi su un argomento da lui affrontato, quello del "governo" - lo metto tra virgolette - delle migrazioni internazionali.
Il grande paradosso degli ultimi cinquant'anni è che, mentre tutti i Paesi si sono dati da fare per sostenere la globalizzazione dell'economia, creando anche potenti organizzazioni internazionali (la World Trade Organization è infatti un'organizzazione potente), nulla si è fatto per i movimenti migratori. È ingenuo segnalare questa contrapposizione, che però è significativa, considerato che nessun Paese ha ceduto la benché minima frazione di sovranità per contribuire a una qualche forma di regolamentazione internazionale dei flussi migratori, tant'è che vero che tutte le convenzioni internazionali, ivi comprese quelle delle Nazioni Unite, (mi riferisco anche all'International labour organization) che riguardano i diritti dei migranti e delle loro famiglie sono state firmate solo da piccoli contingenti di Paesi.
Kofi Annan, otto o dieci anni fa, creò una Global commission on international migration (quando si vuole fare qualcosa, si crea una global commission), la quale dopo due anni partorì un topolino, visto che stabilì che bisognava creare una facility consistente nel coordinare le azioni già poste in essere dalle organizzazioni internazionali (come l'ILO, appunto), che del resto erano pari a zero. Nemmeno questa facility è stata però utilizzata.
Non so allora come si possa compiere un salto in avanti, anche se di modeste proporzioni. In tal senso cito alcuni esempi di iniziative facilmente attivabili; mi riferisco ad un'organizzazione internazionale che garantisca l'identità delle persone (l'identità stessa è in dubbio, non è certificata, assicurata), la circolazione delle rimesse dei migranti, per porle al riparo da rapaci taglieggiamenti, ed il grado di istruzione o di conoscenze dei migranti. Sono misure che non toccano in alcun modo la sovranità internazionale ma che metterebbero ordine nei grandi processi migratori.
Nulla invece è stato fatto e nulla probabilmente si intende fare, in tal senso, infatti, non vedo grandi movimenti, se non quelli volti ad ampliare il circuito protettivo dei vari Paesi di fronte all'immigrazione: prima a farli era l'Italia, ora è l'Unione europea, domani non so, ma il fine sarà sempre quello di esercitare un controllo difensivo e non una politica attiva. Questo a me sembra uno dei grandi argomenti da affrontare, sebbene sia di secondo o terzo livello, nel senso che non è certo come domandarsi per quale motivo nessuno di noi si muove per intervenire in Siria, quando si bombarda e si uccidono i siriani, e invece si garantisce questa protezione per un Paese più vicino, più debole, più piccolo. Lascio da parte questi grandi dilemmi, ma la questione dei migranti va affrontata. Il paradosso è che i migranti non minacciano la sicurezza di nessuno. La mia non è nemmeno una domanda, onorevole D'Alema, ma solo una considerazione.
GALLO (PdL). Ho ascoltato molto attentamente il presidente D'Alema, che ovviamente ringrazio per la sua presenza nella nostra Commissione.
Come tutte le discussioni importanti, anche questa si concluderà senza che sia stata individuata una via d'uscita chiara. Credo che ciò non possa essere addebitato ad alcuno, tuttavia ritengo che la nostra Commissione debba fare uno sforzo per correlare l'azione relativa ai diritti umani ad altre iniziative, per arrivare ad una mediazione e ad una sintesi finale. L'idealismo temperato con il realismo mi sembra una formula che ben definisce il comportamento corretto per qualsiasi Ministero degli affari esteri: è una direzione di marcia, perché al primo posto c'è il rispetto della dignità della persona, con i suoi diritti e valori. È chiaro che poi nel mondo ci sono altri interessi, per cui emergono quelle criticità che il presidente D'Alema ha indicato in modo esaustivo, cioè i problemi del terrorismo, della sicurezza energetica, dei flussi migratori, su cui è forse possibile agire con l'espansione della democrazia e quindi l'enfatizzazione dei diritti in ogni territorio.
Dovremmo pensare a qualcosa di diverso, ad un piccolo contributo che può ovviamente essere soggetto ad evoluzione: in un mercato mondiale in cui i diritti umani non vengono rispettati, ma che sono aperti a tutti, bisognerebbe stabilire delle regole per disciplinare i rapporti. La scorsa settimana, il premio Nobel Ebadi ci ha chiesto di non consentire ai dittatori di depositare nelle banche europee i capitali accumulati; è infatti assai contraddittorio tendere una mano per garantire il rispetto dei diritti umani e con l'altra raccogliere i frutti del mancato rispetto di tali diritti, in determinati territori.
Sul piano dei rapporti internazionali, occorre porre degli argini per tutelare chi rispetta i diritti umani, anche nel settore del lavoro, nelle economie del mercato globale; serve quindi un meccanismo di regolazione del mercato mondiale del lavoro e del sistema bancario, perché non è ammissibile che per opera di ignoti siano messe in ginocchio le economie dei vari Paesi e al contempo a livello di discussione si parli solo di idealità. Credo quindi che il realismo a cui faceva riferimento il presidente D'Alema vada inquadrato proprio in questa logica.
Occorre quindi operare, forti dei nostri trascorsi e della nostra storia, cercando di condizionare al rispetto dei diritti umani l'ingresso di determinati Paesi nel mercato europeo.
D'ALEMA. Rispetto alla valutazione degli strumenti di ingerenza umanitaria, abbiamo avuto diverse esperienze. Il quadro è molto complesso, innanzitutto sotto il profilo giuridico. Nel caso della Libia, ricordo che eravamo in presenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L'azione della NATO si è mossa in quell’ambito, anche sulla base di una sua interpretazione. Nella vicenda drammatica del Kosovo, che ho vissuto anche personalmente nella mia responsabilità di presidente del Consiglio, non eravamo sostenuti da nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a causa del veto russo e cinese. In tal caso, quindi, si trattò di una decisione della NATO che ritenne di intervenire di fronte ad una vera e propria emergenza umanitaria: l'entrata delle forze armate e dei gruppi paramilitari serbi nel Kosovo e la fuga di decine e decine di migliaia di profughi in quella che apparve un’operazione di pulizia etnica.
È evidente che l'ingerenza umanitaria non può tradursi nell'immediato ricorso a strumenti di carattere militare. Così come è evidente che deve potervi essere una graduale escalation nell'uso di strumenti di pressione politica, civile e di mobilitazione. Questo si collega, in parte, anche alla domanda posta dal senatore Di Giovan Paolo in merito alla politica estera della società civile, che io ritengo fondamentale e che bisognerebbe dotare di maggiori strumenti.
Se noi, però, ci soffermiamo sull'aspetto più problematico, e cioè l'uso in ultima istanza della forza ex articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, è evidente che esso deve essere proporzionato alla minaccia, ragionevole e volto a circoscrivere il danno, in particolare per le popolazioni civili.
La vicenda del Kosovo, da questo punto di vista, rappresentò un passaggio drammatico e comportò anche una difficile discussione politica. Un giorno bisognerà scrivere la storia di quella vicenda per gli insegnamenti che contiene per l’esperienza futura. Ad esempio, si presentò l'ipotesi di un intervento militare a terra. Si trattava di una vera e propria invasione militare da parte delle forze della NATO, che avrebbe comportato rischi e costi altissimi dal punto di vista delle vite umane. Fu scartata proprio perché non proporzionata e non ragionevole. Ma nel corso di quella vicenda la pressione militare si accompagnò costantemente all'azione politica e alla ricerca di un dialogo con le autorità serbe. Un canale che non fu mai spezzato e che alla fine, come tutti ricorderanno, portò ad una soluzione politica: il Parlamento e il governo serbo accettarono di ritirare le forze armate dal Kosovo nel quadro di determinate garanzie internazionali che furono loro offerte. Così, l'entrata delle forze armate della NATO e russe in Kosovo avvenne sulla base di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In definitiva, il quadro della legalità internazionale sotto l'egida dell'ONU si ricostituì. Il generale Del Vecchio, qui presente, lo ricorderà bene, essendo stato al tempo generale dei bersaglieri sul campo.
Fu una vicenda molto complessa perché -ripeto- in questa materia non esistono codici. Ci troviamo, invero, su un terreno de iure condendo, in cui la comunità internazionale dispone di strumenti abbastanza limitati e inappropriati per poter agire, e per farlo con mezzi idonei.
Ad ogni modo, se questo era il senso della domanda del senatore Di Giovan Paolo, non c'è dubbio che per ingerenza umanitaria non si deve intendere tout court il ricorso all'uso della forza, che resta il mezzo estremo per far fronte a situazioni in cui c'è una minaccia incombente per le popolazioni civili inermi. Così, a mio parere, va intesa la «responsabilità di proteggere»: l'uso della forza è ammesso soltanto in situazioni in cui esiste una minaccia catastrofica: la pulizia etnica in Kosovo con decine e decine di migliaia di profughi, il bombardamento delle città da parte di Gheddafi come reazione alla rivolta popolare… È un parallelo, questo che faccio, per indicare due casi in cui il ricorso all'uso della forza sembra, a mio avviso, essere motivato da ragioni molto fondate.
Sono d'accordo con lei, senatore Di Giovan Paolo: la politica estera certamente non è fatta soltanto dai governi. Abbiamo dedicato sempre grande attenzione a quella che nel nostro Paese è stata ed è una straordinaria risorsa, ovvero l'iniziativa della società civile e delle organizzazioni non governative, la tradizione di tanti enti locali di costruire relazioni di amicizia e di collaborazione a livello internazionale, così come le comunità di italiani che vivono all'estero, le quali tradizionalmente sono state un tramite della politica estera italiana. Tutti questi strumenti dovrebbero essere rafforzati.
Lamento l'abbandono sostanziale di un progetto di riforma della cooperazione internazionale, il cui esame era stato avviato nel corso della precedente legislatura e che, a mio giudizio, introduceva dei principi nuovi di notevole valore. Mi riferisco all'idea di un'agenzia per la cooperazione che fosse uno strumento al servizio non solo della cooperazione a livello di governo, ma della cooperazione italiana in senso lato, compresi, quindi, enti locali e società civile. Vi è stato un abbandono sostanziale di quel progetto, che creava qualche fastidio in una parte dell'amministrazione della Farnesina. Lo dico da soggetto che si sente membro della “casa”, come dicono i diplomatici, perché chi è stato ministro degli Affari Esteri rimane in famiglia per sempre. In quel caso, ci fu qualche chiusura corporativa che poi evidentemente ha prevalso.
Inoltre, lamento l'esaurirsi di fonti significative di finanziamento. Il complesso della cooperazione si alimenta di risorse che, se vengono a mancare, lasciano spazio solo alla buona volontà, che può non essere sufficiente.
Non c'era nessun obbligo internazionale che impedisse la firma di un trattato con la Libia, il quale, comunque, è stato firmato dal Governo successivo. Certo, noi lo abbiamo negoziato, ma tra le difficoltà che ci impedirono di portare a compimento quell'accordo ve n'erano due in particolare. Innanzitutto, la Libia non aveva mai ratificato la Convenzione sui rifugiati. Un aspetto che per noi costituiva una difficoltà: per arrivare alla firma di un trattato di amicizia con la Libia, chiedevamo che il Paese nordafricano accettasse la Convenzione e quindi riconoscesse pienamente l'autorità delle Nazioni Unite in questo campo. La seconda difficoltà era costituita dal fatto che non condividevo la richiesta del Governo libico di ricevere dal bilancio italiano un finanziamento risarcitorio annuale. Avevo controproposto che l'Italia si impegnasse a realizzare di propria iniziativa determinate opere in Libia, evitando il trasferimento diretto di fondi.
A causa di questi punti di dissenso, non arrivammo a firmare quell'accordo con la Libia. Dunque, non ci può essere rimproverato di averlo sottoscritto, sebbene a mio giudizio -ribadisco- non vi fosse alcun obbligo internazionale che impedisse di farlo.
Non mi soffermo a spiegare le ragioni che, invece, militavano a favore della firma, che sono legate alla storia del nostro Paese, al complesso rapporto che abbiamo avuto con la Libia e alla necessità di riparare in qualche modo pregresse vicende, tenendo presente, naturalmente, che erano in gioco interessi vitali dell'Italia. In particolare, la questione essenziale che la Libia è uno dei principali fornitori di energia del nostro Paese. Di ciò, credo, nessun Governo, in quel bilanciamento realistico tra interessi e valori a cui ho accennato, poteva non tenere conto.
Infine, sono d'accordo con il senatore Livi Bacci, non ho nulla da rispondere alle sue osservazioni. Penso anch'io che bisognerebbe passare da una politica di controllo difensivo a una politica attiva delle migrazioni. Ritengo che ciò andrebbe fatto a livello internazionale. Sono convinto, peraltro, che i Paesi che saranno in grado di agire in questa direzione ne riceveranno enormi vantaggi. I Paesi capaci di attuare una politica attiva e offrire agli immigrati il pieno rispetto dei loro diritti, accoglieranno le immigrazioni migliori. A mio parere, sarà questo uno dei fattori competitivi del futuro. C'è poco da fare, noi abbiamo bisogno degli immigrati e attirare qui gli elementi migliori aumenterebbe la competitività del nostro Paese. Certo, è difficile che gli immigrati si dirigano verso quei Paesi che non riconoscono i loro diritti.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente D'Alema per l'importante contributo offerto ai nostri lavori.
Dichiaro conclusa l'audizione e rinvio il seguito dell'indagine conoscitiva in titolo ad altra seduta.