Vorrei introdurre una discussione su un tema che mi appassiona molto e che rappresenta l’impegno della mia vita: la politica. Parlerò della partecipazione, dei meccanismi decisionali e del funzionamento della democrazia, ma non in senso tecnico, bensì per cercare di capire dove sono le ragioni di una crisi e individuare le linee possibili per una risposta. Se sapessi cantare, ma sarebbe una sfida esagerata, soprattutto per la pazienza degli ascoltatori, dovrei iniziare questa conferenza intonando le strofe di una bellissima canzone di Giorgio Gaber di molti anni fa. Mi limiterò a recitarla: “la libertà non è stare sopra a un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione”.
Eravamo negli anni ‘70 del secolo scorso e questa canzone-manifesto esprimeva un’idea della politica, direi una critica verso una concezione esclusivamente individualistica, liberaldemocratica della democrazia politica. Appunto: “la libertà non è uno spazio libero”, in cui l’individuo si protegge dall’invadenza dello Stato, l’unica forma di esercizio della libertà è la partecipazione. Certo, quando si diceva partecipazione, in quel tempo, si intendeva qualcosa di chiaro, perché, per quella generazione, c’erano la partecipazione al movimento, all’assemblea, al gruppo organizzato che nasceva nel movimento degli studenti.
Naturalmente, questo attivismo giovanile avveniva nel quadro di una partecipazione imponente, quella ai partiti, ai sindacati, alle associazioni… Insomma, la democrazia organizzata nella società. E la vita dei cittadini italiani più attivi era densa di questi momenti. In alcune regioni del Paese, poteva capitare che il cittadino non si presentasse di fronte alle istituzioni dello Stato come un individuo isolato, ma come il socio della Casa del popolo, l’iscritto al circolo delle Acli, a un partito politico o a un sindacato. C’erano, quindi, molti cittadini che godevano contemporaneamente di una serie di canali di partecipazione. Ognuna di queste forme alludeva a un rapporto con l’istituzione e con lo Stato, in cui il singolo si presentava come parte di un collettivo, di un insieme di interessi, di un gruppo di persone unite da un progetto. Perché i sindacati rappresentano la dimensione degli interessi, così come i partiti rappresentano la dimensione del progetto, una visione della società.
Oggi, invece, parliamo della partecipazione nel contesto di una società in cui la crisi della politica ha fortemente destrutturato queste forme di organizzazione e di mediazione tra società e istituzioni. I canali della partecipazione, inoltre, si presentano molto spesso ostruiti, invecchiati, oppure non in grado di attirare la volontà, la disponibilità dei cittadini, in particolare della nuova generazione. Insomma, stiamo facendo i conti con una crisi.
Dico questo perché la premessa a ogni discorso sul tema, una premessa che non alimenti false illusioni connesse alla partecipazione, comporta una ricostruzione anche teorica. D’altro canto, la partecipazione ha un senso se è chiaro a che cosa e perché si partecipa: a che cosa, dal punto di vista delle forme che la partecipazione assume nella società, e per quali finalità, cioè quale obiettivo si intende raggiungere.
Allora non si può discutere della partecipazione se non si lancia uno sguardo a quello che si presenta come il paradosso della democrazia nell’era postmoderna. In cosa consisterebbe il paradosso? Nel fatto che, da una parte, senza dubbio, il tempo in cui viviamo è caratterizzato da un’espansione della forma di governo democratica. Pensiamo, ad esempio, alla crisi del comunismo, che ha determinato un’estensione della democrazia politica verso Est. Pensiamo a un interno continente come l’America Latina, che si è progressivamente liberato della dittatura militare e vede consolidarsi forme di democrazia rappresentativa, intendendo per democrazia quell’insieme di regole e procedure che comportano elezioni, pluralismo politico, rispetto delle libertà fondamentali.
La forma di governo democratico sta via via conquistando terreno. Ho accennato all’Europa centrale-orientale e all’America Latina, ma oggi possiamo guardare al mondo arabo, dove si affaccia un sogno e si avviano processi democratici in Paesi che erano dominati da forme di governo autoritarie.
Dall’altra parte, tuttavia, mentre assistiamo a questo straordinario processo di espansione della democrazia, essa sembra essere insidiata, in parte svuotata, proprio in quel mondo occidentale in cui ha messo radici e si è sviluppata, affermandosi poi come un valore universale.
Perché? Dove nasce questa crisi della democrazia? Secondo la vulgata corrente, consiste soprattutto nel fatto che la politica si sia separata dai cittadini, dalla società civile e abbia preso la forma di una casta, di un potere che si contrappone alla società e alle sue ispirazioni.
Ecco, io credo che non sia così e che questo discorso corrisponda a un’analisi molto superficiale della realtà. Naturalmente esistono i rischi di sclerotizzazione, però, in definitiva, se osserviamo i processi reali, mai come in questo momento la dimensione politico-istituzionale è stata invasa dai citoyens. Infatti, nel Parlamento di 30 anni fa i funzionari politici rappresentavano una percentuale molto alta. Il Parlamento di oggi, invece, è composto prevalentemente da avvocati, imprenditori, fisioterapisti, accompagnatrici… Insomma, è la società civile nella sua forma più pura e nella sua fenomenologia più varia. La casta dei politici, quelli che Max Weber chiama i “politici di professione”, rappresentano ormai una minoranza infima. Eppure, questo fenomeno non ha avvicinato la politica alla società.
Un altro paradosso che vorrei rilevare è che la politica, per avvicinarsi alla società, debba separarsene. Cercherò di spiegare come e perché questo doppio movimento sia necessario per ricostruire i fondamentali della democrazia.
Mario Tronti, pensatore controcorrente piuttosto coraggioso, ha detto che la vera crisi della politica “deriva dal fatto che la politica somiglia troppo alla società civile”. Alla società civile non come viene descritta dai giornali, ma come è intesa da Hegel, ossia il mondo dei bisogni, degli interessi. La politica ha perso la sua capacità di porsi al di sopra, di essere guida, è diventata un puro riflesso del mondo dei bisogni e degli interessi. Certo, in questo senso si è fatta canale di promozione sociale. Perché, mentre la politica tradizionale poteva essere intesa da un grande professionista, ad esempio, un importante avvocato o un importante medico, come un sacrificio della sua carriera per mettersi al servizio del Paese, oggi viene intesa piuttosto come un modo per allargare il proprio giro di influenza e di affari, dunque come funzione della dimensione privata, non certo come assolvimento di un servizio pubblico.
Un processo di questo genere, a mio parare, avviene anche perché il tempo in cui viviamo, le sue grandi trasformazioni economiche e sociali, i mutamenti strutturali legati alla globalizzazione e alla finanziarizzazione dell’economia, hanno determinato uno spostamento progressivo di potere. Il potere reale è venuto slittando dalla politica verso l’economia e la finanza. E i centri del potere reale, intendendosi per “potere” il luogo dove si prendono le decisioni che influiscono sulla vita della persone, sempre meno sono le istituzioni politiche, sempre più sono i centri di comando del grande potere economico, in particolare finanziario.
Qualche mese fa, nel vivo della crisi internazionale, è avvenuto un evento simbolico: in una importante riunione i “grandi della Terra” hanno discusso per cercare di stabilire un tetto agli stipendi dei manager finanziari, e non ci sono riusciti. E’ rara un’immagine così viva dell’impotenza della politica. Già colpisce il fatto che gli uomini più potenti del mondo debbano discutere degli stipendi dei manager finanziari, ma che poi non riescano nemmeno a imporvi un limite, dimostra quanto il potere reale si sia spostato altrove.
Ho citato un caso emblematico di come la politica abbia perduto la sua capacità di indirizzo e di regolazione. In realtà, vi è stato un momento nel quale la crisi di un capitalismo globale senza regole e senza guida è esplosa in modo drammatico. Allora si capì che il neoliberismo antipolitico dominante non produceva il migliore dei mondi possibili, ma diseguaglianze. Si è avvertito un enorme bisogno di ritornare alla politica, ma questa stagione, in verità, è durata assai poco, soprattutto in Europa. E ci si è ricordati della necessità della politica giusto il tempo necessario per attingere alle finanze pubbliche e ricapitalizzare le banche. Una volta che la politica ha svolto questo ruolo è stata di nuovo relegata a una funzione ancillare.
La politica è ancella e sembra dominare l’anomia dei mercati. Un esempio ci viene, in questi giorni, da un Paese che vive una crisi drammatica, la Grecia. Il Capo del governo sceglie di consultare i cittadini, di indire un referendum per decidere se affrontare pesanti sacrifici e rimanere nell’euro, oppure se uscire dall’euro. In un momento così grave, quindi, si è pensato di dare la parola a un popolo che vede messo in discussione il suo futuro e che deve scegliere tra due opzioni che comportano entrambe vantaggi e svantaggi. Ma l’idea di coinvolgere i cittadini in un processo democratico ha infastidito i mercati e così la si è dovuta abbandonare.
Insomma, l’anomia del mercato domina sulla politica e la politica appare spesso impotente a riprendere nelle sue mani le leve del comando. È questa separazione della politica dalla forza l’origine della crisi democratica, non il fatto che la politica sia troppo forte e sovrasti la società civile. Questa è solo l’apparenza, perché la sostanza della crisi è che la politica è troppo debole e non ha forza. E dove non c’è forza della politica, non c’è democrazia.
La politica è l’esercizio del comando: se perde la capacità di esercitare il comando, la società diventa più confusa e più ingiusta.
Inoltre, è necessario ragionare sul fatto che la forza del dominio dell’economia sulla politica ha solo l’apparenza ideologica di avere una dimensione oggettiva. In realtà, questa “oggettività” del mercato che si autoregola, nasconde il dominio di una parte. Infatti, chi sono i mercati? Qual è la logica che li domina? La regola è quella del massimo rendimento del capitale, alla quale possono contrapporsi anche esigenze di sviluppo umano: normalmente la democrazia è nata per tenere a freno le forze dell’economia e regolarle.
Ad esempio, l’art. 41 della nostra Costituzione afferma che l’iniziativa economica privata è libera a meno che non si contrapponga all’interesse collettivo, per questo il governo Berlusconi intende modificarlo. E’ molto significativa l’idea del berlusconismo, fortunatamente morente: pensano, in limine, di fare questa riforma che ha un grande contenuto ideologico e togliere dalla Costituzione il limite dell’utilità sociale all’iniziativa economica privata. Ma la politica sta proprio lì, nel porre un limite all’interesse privato a salvaguardia dell’interesse generale. Oggi, invece, il dominio dei mercati è predominio senza limiti.
Ciò pone problemi molto complessi. È chiaro che non è possibile riguadagnare la sovranità soltanto attraverso un’azione a livello degli Stati nazionali e che la questione investe la crescita di una dimensione politico-istituzionale che sia in grado di fronteggiare la globalizzazione. Se l’economia è globale e la politica rimane prigioniera della dimensione nazionale, inevitabilmente essa soccombe, e non riesce a ristabilire un suo primato. Antonio Gramsci lo scrisse in carcere nel 1930… Per dire come il genio possa precorrere i tempi.
Questa è ora la questione centrale, perché il mondo dominato dall’anomia del mercato ha prodotto un’enorme crescita delle diseguaglianze di ricchezza e di potere.
Ci sono molti studiosi, anche conservatori, che scrivono, a proposito della democrazia occidentale del tempo postmoderno, di un ritorno a un regime plutocratico, cioè a un potere dei ricchi. Penso, ad esempio, al bel libro di Domenico Fisichella, “Denaro e democrazia. Dall'antica Grecia all'economia globale” (Il Mulino, 2005).
I mutamenti degli ultimi vent’anni hanno determinato indubbiamente un’enorme crescita del potere dei ricchi, anche perché lo sgretolarsi delle strutture collettive tradizionali dell’agire politico ha determinato una personalizzazione della politica e una lievitazione dei suoi costi. Perché, venendo meno le strutture della mediazione, sempre di più i leader, o aspiranti tali, si rapportano all’opinione pubblica attraverso i mezzi di informazione di massa. Di conseguenza, in un regime in cui la politica dipende sempre di più dalla disponibilità dei mezzi finanziari e dal controllo dei mass media, chi detiene la ricchezza ha un potere crescente.
Pensiamo alle elezioni americane. Esse sono, innanzitutto, una grande competizione a raccogliere soldi e normalmente chi ne raccoglie di più è poi il candidato favorito per tentare la corsa elettorale. La prima fase, dunque, si sostanzia in una competizione a trovare finanziamenti. Devo dire che negli Stati Uniti ciò avviene in forme abbastanza trasparenti, perché il lobbysmo fa parte della politica americana. Si assiste perciò alla formazione di due grandi coalizioni di gruppi di interesse: tradizionalmente la grande industria delle energie alternative finanzia i democratici, mentre i petrolieri sostengono i repubblicani. Si contano montagne di soldi che si fronteggiano in campagna elettorale. E sopra queste montagne ci sono i due candidati, ed è chiaro che essi rispondono anche a tutti questi soldi su cui hanno costruito la loro campagna elettorale.
Chiusa la parentesi americana, voglio dire che i fenomeni di cui parlavo prima sono connessi: crisi delle strutture tradizionali, forte personalizzazione della politica, lievitazione dei costi. Da questo punto di vista, lo strumento delle primarie è interno a tale meccanismo, perché naturalmente anch’esse hanno un costo e tendono sempre di più a fare della politica un dominio della parte più ricca.
Guardiamo, ad esempio, alla composizione delle Assemblee: quando c’erano i partiti, essi portavano in Parlamento un certo numero di operai. Adesso questo numero è enormemente ridotto, perché i meccanismi favoriscono sostanzialmente il ceto medio-alto, che si autopromuove. E si fa strada l’idea che gli eroi, i demiurghi di cui si parla, appartengano pressoché tutti al mondo imprenditoriale. In fondo, Berlusconi è un’espressione pura di questa tendenza: un capitalismo che non ha più bisogno della mediazione politica e si autogoverna, in quanto dispone delle risorse finanziarie per poter costruire un rapporto diretto con i cittadini.
Ora, questa diseguaglianza sociale e il peso crescente della ricchezza nella competizione democratica rappresentano uno dei fattori più profondi di crisi della democrazia in Occidente: svuotamento del potere politico e dominio dell’economia, che si esprime anche attraverso una diretta occupazione del terreno della politica da parte dei gruppi economici dominanti, grazie al peso crescente del denaro e dei mezzi di informazione nel determinare l’orientamento dell’opinione pubblica.
L’altro fattore di crisi risiede nella crescita di quella che può essere definita “politica della paura”, un fortissimo elemento di distorsione. Viviamo, invero, in società in cui la globalizzazione aumenta la percezione di insicurezza. A questo proposito, cito dati molto interessanti contenuti nel libro di Luigi Ferrajoli, “Poteri selvaggi” (Laterza, 2011), sull’uso della percezione di insicurezza come elemento tipico del populismo.
Pensate che in Italia, negli anni ’50, si verificavano circa 1900 omicidi l’anno; all’inizio degli anni ’90 ve ne erano 1700 e in questi ultimi anni 600. Eppure, la percezione di insicurezza è cresciuta enormemente nell’opinione pubblica. I delitti più gravi sono compiuti dagli immigrati nella misura del 15%-18%, mentre la gran parte sono commessi dai mariti nell’ambito familiare. Eppure, la percezione che gli immigrati siano portatori di una terribile minaccia è oggi dominante tra i cittadini. Nessuno, infatti, direbbe che siamo minacciati da padri e mariti, ma se si considerano le statistiche non rimane alcun dubbio. Nessuno considererebbe la famiglia come una minaccia per la sicurezza, ma queste percezioni non hanno nulla a che vedere con la realtà.
La politica della paura disconnette percezioni e realtà.
Inoltre, secondo uno studio interessante del Centro di ascolto televisivo del Partito radicale, durante l’ultimo governo di centrosinistra, lo spazio dedicato dall’informazione televisiva alla minaccia della criminalità è cresciuto in un anno del 233%, a fronte di un calo del 3,4% dei reati. Insomma, l’esecutivo Prodi ha governato in un contesto nel quale i tg e altri programmi hanno concentrato la loro attenzione sul dilagare della criminalità, con un aumento enorme della percentuale del tempo dedicato ai delitti, nonostante la diminuzione del numero dei reati. Un dato inquietante, che ci fa capire vari aspetti di come viviamo il tempo delle percezioni: la manipolazione delle informazioni è uno strumento fondamentale di formazione dell’opinione pubblica e quello che ci viene raccontato ha un rapporto estremamente labile con ciò che avviene, mentre ha un rapporto strettissimo con gli interessi di chi ce lo racconta, cioè gli interessi dei proprietari dei mezzi di informazione.
La percezione della paura della criminalità, della competizione, degli immigrati, ha un peso enorme nella formazione dell’opinione pubblica ed è uno dei fattori alla base della deriva populista delle democrazie europee. La percezione di un’Europa assediata dai nemici alimenta un populismo reazionario che propone come ricetta il ritorno alla terra, al sangue, all’elemento identitario, e l’uso politico della religione. Si tratta di grandi fenomeni regressivi rispetto alle conquiste del pensiero liberaldemocratico dei secoli scorsi.
E il tema dell’immigrazione si propone, per un altro verso, come l’espressione di una drammatica crisi della democrazia rappresentativa. Oggi, gli immigrati rappresentano nel nostro Paese l’11% della forza lavoro e producono più del 10% del Pil, ma non godono di diritti politici. Un fenomeno, questo, destinato a crescere. Ora, a mio parere, società nelle quali una quota così rilevante del lavoro più umile non gode di diritti politici, sono società in cui la funzione di rappresentanza degli interessi nelle istituzioni è gravemente lesionata. Le istituzioni sono il luogo dove si misurano gli interessi, dove si trova una loro composizione, ma se una parte tanto importante della società non ha rappresentanza e non gode di diritti, le nostre democrazie tenderanno a somigliare sempre di più a democrazie di tipo censitario, in cui soltanto determinati strati sociali hanno diritto di accedere alla rappresentanza attiva e passiva.
Queste tendenze regressive e populiste hanno riguardato in modo diverso le democrazie europee nel corso di questi anni, ma non c’è dubbio che l’Italia abbia rappresentato quasi un caso da laboratorio. Spesso accade che i fenomeni che riguardano il nostro Paese abbiano una portata anticipatrice più che rappresentare un’anomalia. Quando da noi sorse la Lega nord, sembrava una stranezza italiana o un elemento della crisi della tenuta unitaria dello Stato, dopodiché il fiorire delle leghe in giro per l’Europa è stato impressionante. Entrando in questa logica, naturalmente, ci sarà sempre una Lega più a nord della nostra.
Quindi la crisi italiana della democrazia non ha rappresentato, a mio giudizio, una peculiarità. Certo, si è manifestata in forme particolari, ma vi sono elementi anticipatori di fenomeni che non hanno riguardato soltanto il nostro Paese.
In Italia, la crisi dei partiti tradizionali e l’emergere dell’antipolitica hanno avuto ragioni specifiche. Il consumarsi della capacità propulsiva del regime dei partiti e la democrazia bloccata, con la mancanza di ricambio della classe dirigente, hanno reso questa crisi particolarmente grave, portando a un imputridimento delle strutture portanti del sistema democratico, ai fenomeni di corruzione che sono venuti alla luce all’inizio degli anni ’90 e, quindi, a quel collasso a cui abbiamo assistito.
Da quel collasso è poi uscita vincitrice una certa idea della democrazia. In questo senso, credo che Berlusconi e il berlusconismo siano fenomeni emersi da un processo più generale, cioè le idee che vi trovano compimento sono idee che hanno largamente prevalso anche a sinistra. Mi riferisco, in particolare, a quell’idea della democrazia diretta che salta la mediazione dei partiti, che punta alla personalizzazione della politica, che pensa che i partiti siano un male e che essi debbano lasciare spazio alla società civile che, invece, è il bene. Insomma, sono tendenze culturali hanno trovato ampi consensi anche a sinistra.
Ricordo che nella campagna elettorale del 1994, a sinistra ci si illuse che, sull’onda della crisi del sistema politico, saremmo andati al governo. Invece, è poi emerso chi rappresentava in modo più autentico la società civile. Naturalmente, una volta spostato il conflitto nella giungla della società civile vince il più forte, chi ha più soldi e mezzi di informazione. Difficilmente prevale il buono, a condizione che si sappia chi è.
Di quella campagna elettorale, Stefano Di Michele ha scritto recentemente un articolo su Il Foglio nel quale cita un aneddoto molto divertente: il celebre apologo di Ferdinando Adornato. L’esponente di Alleanza democratica, essendo stato messo in un collegio sicuro della provincia di Perugia, dove tutti votavano tradizionalmente per il Partito comunista, andava in giro per la campagna elettorale dicendo: “finalmente la politica è cambiata, non siete più costretti a votare il candidato che vi impongono dalla segreteria del partito. Basta con la scelta dettata dagli apparati, siete liberi, potete scegliere il candidato della società civile!” Racconta Di Michele: “Si alza la mano di un operaio, che con malizia dà al compagno candidato del lei: «Senta, il Pds ci ha detto di votarla e noi la votiamo. Solo, per favore, non ci venga a parlare di società civile. Perché se i candidati fossero scelti dalla società civile, cioè da noi, il nostro candidato non sarebbe lei, ma quel signore lì». Quel signore era il sindaco di Deruta, vissuto come loro “vero” candidato. Fu questo l’apologo, che spiega chiaramente le aporie di una determinata concezione.
Effettivamente, quel tipo di ideologia che si basava sull’idea che “non ci sono più i partiti, deve scegliere la società civile” è stata dominante. Ricordo anche campagne elettorali in cui chi si candidava a sindaco faceva scrivere sul suo manifesto: “votate per me, non ho mai fatto politica”. A tale proposito, mi viene in mente un’indimenticabile pagina di Benedetto Croce, nella quale si descrive la situazione di un paziente che, entrando nella sala operatoria, si trova davanti un signore con un coltello in mano che lo rassicura dicendogli: tranquillo non ho mai fatto il chirurgo!
Questo per sottolineare come l’idea che il rimedio fosse nell’antipolitica, in una personalizzazione che saltava l’elemento della mediazione, sia stata largamente dominante: Berlusconi ne è stato soltanto “l’utilizzatore finale”, per usare un’espressione che gli appartiene per diverse ragioni. Era maggiormente attrezzato a dominare questo clima culturale perché deteneva ingenti risorse extra-politiche, cioè denaro e mezzi di informazione. “Basta con i politici di professione!- si diceva- Il grande imprenditore, che è stato così bravo a diventare ricco lui, farà diventare ricchi tutti gli italiani!” E’ stato questo il mito populista e il risultato è sotto gli occhi di tutti: una catastrofe impensabile.
Al contrario, è del tutto evidente che di fronte alla crisi hanno retto meglio quei Paesi che hanno avuto forti sistemi politici e dei partiti. La Germania, per esempio, non è governata da un’imprenditrice di successo, ma da una funzionaria del Partito democristiano, la quale, però, come statista vale 5000 imprenditori di successo. E’ un Paese che ha saputo affrontare meglio questa situazione anche dal punto di vista economico, perché, a mio parere, è più solido il sistema dei partiti e la loro capacità di rappresentare una mediazione.
Recentemente sono stato a Berlino, dove ho incontrato diversi esponenti politici tedeschi preoccupati per il destino dell’Italia, che mi hanno detto: “Sa qual è la forza della Germania? Se oggi noi facciamo un sondaggio tra i cittadini tedeschi, il 90% di loro dice che non dobbiamo tirare fuori neanche un euro per il fondo salva-Stati. Tuttavia -hanno proseguito- i partiti tedeschi, tutti quanti, compresa l’opposizione, votano quel Piano, perché non vanno dietro ai sondaggi”. Insomma, quello che interessa loro è il destino della Germania e dell’Europa, e quindi sono pronti a prendere decisioni impopolari, ma necessarie. Ecco, questa è una classe dirigente.
Se, invece, la politica si affida agli umori mutevoli e perde il progetto, si appiattisce sulla società, perde la sua funzione di guida, non è più in grado di governare e, a quel punto, le cose peggiorano inevitabilmente. La forza di un sistema democratico sta proprio nell’essere ispirata da visioni di lungo periodo. E, dove ci sono i partiti, quella cosa vecchia di cui il nostro Paese si è largamente liberato, essi rappresentano un punto essenziale di tenuta della democrazia e dello Stato.
In Italia, invece, siamo scivolati verso una forma di presidenzialismo di fatto, nel nome di un’esigenza anche legittima di democrazia alternante, perché guidati dall’idea che deve decidere il cittadino, ma senza dare a questo sistema una forma istituzionale nuova. Infatti, siamo l’unico Paese al mondo dove non c’è l’elezione del Presidente della Repubblica, ma i cittadini eleggono un “capo”, il cui nome si scrive sulla scheda elettorale. E, a mio giudizio, la sinistra è stata partecipe di questa decisione irresponsabile, in una democrazia fatta di regole, di procedure.
Certo, si può anche scegliere di eleggere il Presidente della Repubblica, ma allora è il suo nome che si scrive sulla scheda, e a quel punto il sistema deve dotarsi di contrappesi e controlli. In America, ad esempio, i cittadini eleggono il Presidente degli Stati Uniti, ma il Parlamento è un contropotere con il quale “l’uomo più potente del mondo” deve misurarsi. Oppure c’è il sistema parlamentare, dove è il Parlamento che dà la fiducia al Primo ministro, e se non va bene lo cambia. Persino nel modello di Westminster, il Parlamento britannico ha sostituito Margaret Tatcher con Tony Blair.
Il sistema che è stato creato nel nostro Paese, invece, ha tutti i difetti del presidenzialismo e del parlamentarismo: non c’è la flessibilità di un sistema parlamentare, perché non si può cambiare il capo scelto dai cittadini, altrimenti si fa un “ribaltone”. E badate, queste sembrano cose normali, ma sono delle aberrazioni dal punto di vista giuridico. Tuttavia, il capo del governo per Costituzione dipende dal Parlamento, perché non c’è il presidenzialismo. Ciò comporta tutti quei fenomeni di trasformismo che sono le degenerazioni dei sistemi parlamentari con partiti deboli o senza partiti, ma non avendo il vantaggi della flessibilità propria di quei regimi. Basti pensare, ad esempio, che il 67% degli eletti in Calabria milita in un partito diverso da quello in cui è stato eletto!
Ma, ripeto, tutto ciò non è soltanto il frutto di Berlusconi, è frutto di una temperie culturale, di un modo di pensare, dell’idea che se si scrive il nome del capo sulla scheda i cittadini contano di più. Una concezione della democrazia di tipo plebiscitario, perché non è affatto vero che i cittadini contano di più se il Parlamento conta di meno, normalmente è vero il contrario, salvo nel momento della delega. Alla base c’è l’idea del rapporto diretto tra il capo e il popolo: se il capo è l’incarnazione della volontà popolare, sostituirlo significa tradire quella volontà.
E’ questa la terminologia corrente, ma tradisce un profondo logoramento dei principi della democrazia. Secondo Hans Kelsen, la volontà popolare non esiste, il popolo non è un collettivo unitario, omogeneo, che abbia una sua volontà, ma è un insieme di interessi, di opinioni, dove ci sono dei conflitti, che trova espressione nel pluralismo politico e nelle regole che vi presiedono. Questa degenerazione plebiscitaria e populistica della democrazia italiana è un fenomeno che è avvenuto, a mio giudizio, anche per la debolezza mostrata dalle componenti democratiche nel saperlo arginare. Mi riferisco al fatto che questa è stata la cultura dominante anche in una parte della sinistra. Da qui, l’illusione di nuovi demiurghi, la spasmodica ricerca del leader carismatico o di capi illuminati che siano in grado di vincere le elezioni.
Nessun Paese democratico vive ossessioni di questo tipo.
Ho incontrato recentemente Bill Clinton, in occasione di un evento della sua fondazione, che mi ha detto: viviamo un’epoca in cui i leader sono capaci di raccontare belle storie, ma incapaci di decidere. “Able to tell stories, but unable to deliver”. Insomma, il dramma è che l’antipolitica genera tra i cittadini il bisogno di cercare demiurghi illuminati.
Questo è l’avvitamento dell’antipolitica: la ricerca di leader carismatici, di nuove narrazioni, alimenta in definitiva questo senso di impotenza della politica. E porta con sé un paradosso, perché si pensa che in fondo la personalizzazione, la logica delle elezioni dirette, il fatto che non si possano fare ribaltoni, potrebbe sembrare un restringimento della dialettica democratica, ma in cambio crea stabilità e decisione. Non è così, perché il populismo non produce affatto decisioni.
Al contrario, vorrei ricordare le importanti decisioni che sono state prese dalla tanto vituperata democrazia dei partiti. Solo nel 1978, l’anno dell’uccisione di Moro, del governo di solidarietà nazionale, un anno drammatico per la democrazia italiana, in cui si concentra tutto il male della Prima Repubblica, sono state realizzate: la riforma sanitaria che ha cambiato la vita degli italiani, creando in Italia un sistema sanitario pubblico che l’Organizzazione Mondiale della Sanità valuta come il quarto migliore nella classifica mondiale; la legge 194, che ha cambiato la vita delle donne e la legge 180, che ha abolito i manicomi. Quella paralizzata, consociativa, parlamentaristica, democrazia dei partiti era in grado di produrre grandi riforme, mentre la democrazia governante di capi scelti dal popolo non ha prodotto nulla di simile in 15 anni.
Questa apparente contraddizione nasce dal fatto che il populismo, la sondaggiocrazia non possono produrre grandi mutamenti. E qui risiede un altro tema delicato e fondamentale, che riguarda non soltanto il consenso, ma la qualità dello stesso. Perché il consenso fenomenologicamente rilevato, disinformato, inconsapevole, non fondato su una cultura critica, è tale da non consentire di fare le riforme. Esse, infatti, necessitano dell’adesione consapevole a un progetto, hanno bisogno di un’idea di futuro, una visione della società. E il populismo, per sua natura, in quanto succube del sondaggio quotidiano, dell’umore fuggevole, non può produrre cambianti. Occorre un consenso che sia strutturato, organizzato intorno a progetti, che comporti un sacrificio oggi, in vista di un vantaggio domani.
E’ solo la partecipazione consapevole che produce trasformazioni e, quindi, governo. Il populismo, al di là dell’investitura plebiscitaria del capo, produce solo galleggiamento. Questo mi sembra il nodo centrale: la partecipazione riacquista un senso solo se si ricostruisce la dimensione politica e progettuale, cioè la politica.
Se non c’è la politica né un progetto, che senso ha la partecipazione? La politica deve essere in qualche modo autonoma, separata, deve recuperare “l’animo grande e l’intenzione alta”, come scriveva Nicolò Machiavelli. Devo dire che, a mio giudizio, mai un autore è stato denigrato come lui, nel tempo in cui viviamo, in cui l’antipolitica ha generato anche l’antimachiavellismo. Invece, andrebbe riletto con molta attenzione, perché è il padre della politica moderna.
La politica, quindi, deve elevarsi sopra il mondo dei bisogni e recuperare una visione progettuale, il senso dell’interesse generale, che a volte può anche essere in urto con gli interessi particolari. Deve recuperare forza, capacità di incidere sulla realtà. E’ un discorso, questo, che investe diversi piani. Ad esempio, sono convinto che questa capacità di incidere comporti una riforma verso l’alto, il che per noi chiama in causa l’Europa.
E’ evidente, infatti, che senza un salto di qualità dell’integrazione politica Europea, in grado di colmare il vuoto di politica e di mettere in campo poteri di regolazione e politiche attive dello sviluppo, del lavoro, non si esce da questa crisi. Occorre fare crescere una dimensione della decisione politica a livello sovranazionale, rafforzando anche gli strumenti di controllo democratico, in particolare il Parlamento europeo.
Si tratta di una condizione imprescindibile, altrimenti l’Europa sarà soltanto la Banca centrale. E vivremo l’umiliazione di un dibattito politico che ruota intorno alle direttive di una banca, la quale, com’è noto, non si presenta alle elezioni. Questo è chiaramente il segno di una distorsione nel processo di costruzione europea: l’Europa è cresciuta sotto l’egemonia di una cultura neoliberista che ha teso a trasferire potere dalla dimensione politica e democratica alla dimensione tecnica ed economica.
Per quanto riguarda il caso italiano, un processo di ricostruzione comporta, innanzitutto, un intervento sul funzionamento delle istituzioni. Non credo che dobbiamo perdere il vantaggio di questi anni, cioè i meccanismi di ricambio della classe dirigente, ma dobbiamo bilanciare la personalizzazione estrema restituendo forza alle assemblee elettive, riducendo l’ipertrofia della politica, che è un segno della sua debolezza.
Ed è necessario sciogliere, come dicevo prima, il nodo tra presidenzialismo e parlamentarismo. Personalmente non sono presidenzialista, ma preferisco questa forma istituzionale all’elezione diretta del capo nella finzione italiana, perché almeno comporta un Parlamento che sia un effettivo contropotere. Oppure si deve realizzare un sistema parlamentare in cui non si elegge il capo, ma Primo ministro diventa il leader del partito che ha vinto le elezioni, esattamente come avviene in tutte le democrazie parlamentari europee. E non è un caso che sia così, perché è logico. Al contrario, è il fatto che da noi avvenga diversamente che rappresenta “il caso”.
In definitiva, ritengo sia necessario bilanciare il rapporto tra personalizzazione inevitabile e forza collettiva delle assemblee elettive, riducendo il numero degli eletti e rafforzando il prestigio delle istituzioni. Accanto a ciò, c’è la sfida più difficile: ridefinire il ruolo dei partiti.
Naturalmente, nessuno si illude che si possa tornare al passato, così come nessuno nasconde il fatto che i partiti abbiano bisogno di nuovi strumenti di rapporto con la società, se volete di rilegittimazione. Vedo in questa chiave le forme di consultazione come le primarie. Uno strumento che, secondo me, deve stare sotto il titolo “ridefinire e rilanciare il ruolo dei partiti”, altrimenti andrebbe sotto un altro titolo: “rafforzare una democrazia plebiscitaria”, il che non mi interessa. Personalmente, infatti, non sono per le primarie dentro la “mistica dei gazebo”, ma le ritengo, questo sì, un utile strumento per ricostruire un rapporto efficace tra partiti e partecipazione, dentro un quadro di regole. A proposito di questo argomento, consiglio la lettura comparata dell’editoriale di Nichi Vendola e del “contro-editoriale” di Michele Prospero, nel nuovo numero della rivista di Italianieuropei (settembre 2011), dove è ospitato anche un bel saggio di Mattia Diletti che spiega come nascono le primarie in America, quelle originali.
Certo, non possiamo pensare che i partiti si ripropongano tout court nelle forme organizzative del passato, con milioni di iscritti, ma occorre tornare a separarli dalle istituzioni. Uno dei fenomeni negativi di questi anni, infatti, è stato proprio il totale appiattimento sulla dimensione istituzionale, il diventare “partiti di eletti”. Una trasformazione che inevitabilmente tende a ridurre la loro dimensione sociale a quella dei comitati elettorali degli eletti.
In definitiva, i partiti devono ritornare ad essere altro, devono vivere nella società, utilizzando pienamente tutti i nuovi strumenti di interazione, di partecipazione. In questo senso, la rete offre infinite possibilità di ascolto, di democrazia deliberativa. Trovo molto interessanti gli esperimenti che si stanno facendo in giro per il mondo, che vanno oltre un’idea riduttiva delle primarie, utilizzate esclusivamente come concorso alla scelta di leader. Esse, infatti, possono costituire forme di consultazione deliberativa anche per decidere su issues, su questioni, su interrogativi. Questo aspetto è stato poco esplorato, mentre, a mio giudizio, è un terreno stimolante per la riorganizzazione dei partiti nella società e per la ripresa di una loro essenziale funzione. Mi riferisco al loro essere portatori di visioni generali, progetti di società e al compito di formare e selezionare la classe dirigente, che non nasce spontaneamente come le cicorie. E’ una condizione essenziale per un efficace funzionamento delle istituzioni.
Vorrei citare una bellissima pagina di Max Weber, tratta dalla conferenza "La politica come professione" (1919), in cui egli spiega la differenza di “weltanschauung”, di visione, di missione nella vita, tra l’imprenditore e l’uomo di Stato. Secondo Weber, l’imprenditore persegue il suo interesse particolare e in ciò realizza la sua missione sociale. E’ utile alla società in quanto ricerca il suo vantaggio personale. L’uomo di Stato, invece, cerca l’interesse generale e queste due missioni sono incompatibili. E’ impressionante, sembra scrivesse del nostro Paese. Naturalmente, l’ambizione personale resta, ma deve essere messa al servizio di un interesse generale che va definito in base a una visione politica, un progetto di società. E non esiste, ovviamente, un’unica nozione astratta di interesse generale, ma la democrazia è l’agone tra visioni diverse che tra loro si misurano nell’interesse generale.
Insomma, o tornano in campo forme organizzate che danno forza a queste visioni diverse dell’interesse generale, oppure si disgrega la politica e la partecipazione non ha più senso. In questa riflessione rientra anche il ruolo, assolutamente cruciale, che assume l’informazione nella democrazia moderna.
Noi ci siamo soffermati su un aspetto: il controllo politico dell’informazione, che è un grande tema. E in Italia, indubbiamente, l’informazione soffre in parte di questa malattia. Una forma più tradizionale riguarda il controllo dei partiti sulla Rai. Più recente è, invece, la presenza in politica di un grande gruppo editoriale come quello di Berlusconi, che esercita un diretto controllo su una parte rilevante del sistema massmediatico. E questo riguarda la difesa della libertà di stampa, ma non solo.
L’altro aspetto, sul quale si riflette raramente, è più generale, ma non meno rilevante: siamo un Paese dove è pressoché totale la presenza dei cosiddetti “editori impuri”. Questo vuol dire che il controllo dei mezzi di informazione è nelle mani di grandi gruppi finanziari e industriali, in palese conflitto di interesse. Gli interessi prevalenti di questi gruppi, infatti, non sono nei mass media in sé, ma questi vengono utilizzati come strumento per influenzare la politica. Il risultato è che il sistema complessivo dell’informazione, nel nostro Paese, non è al servizio dei lettori e degli ascoltatori.
Questo fenomeno determina un orientamento dell’informazione, la quale spesso ci racconta molto di più sugli interessi di chi ne è proprietario, che non, invece, su ciò accade realmente. Voglio dire che quello che accade viene raccontato con un bel titolo in prima pagina se rientra in certi schemi, altrimenti viene comunicato con un trafiletto a pagina 20, quando non direttamente omesso.
L’Italia soffre dell’assenza di “editori puri”, cioè di aziende editoriali che vivano del consenso dei lettori, presenti in altri Paesi. Da noi non è così, non lo è mai stato. E’ un serio problema della nostra democrazia.
In generale, una grande democrazia non vive senza un diffuso spirito critico. Qui vengono chiamati in causa il mondo della cultura, della scuola, dell’università, anche nelle condizioni drammatiche in cui versano a causa delle politiche del governo di centrodestra degli ultimi anni.
Occorre formare spirito critico, ossia capacità di guardare oltre la vulgata del senso comune, perché soltanto un’opinione pubblica armata di spirito critico presidia il funzionamento della democrazia. Naturalmente, lo spirito critico può condurre in direzioni diverse, ma è una condizione essenziale affinché la partecipazione sia effettivamente in grado di incidere, di aprire dei varchi, di costringere il sistema politico a recepire determinate tematiche. Un compito proprio della nuova generazione, quella che sta pagando il prezzo più alto alla crisi del Paese, rischiando di essere esclusa dai benefici che la crescita economica e l’uso delle risorse pubbliche consentirono alle generazioni precedenti.
In particolare, la nuova generazione corre il pericolo di dover pagare un prezzo drammatico in termini di esclusione dal lavoro, di riduzione drammatica del welfare, previdenziale e assistenziale, e di diminuzione delle proprie chance di vita. Pensiamo al contrasto sempre più insostenibile tra il livello di formazione e le possibilità effettive di realizzare la propria personalità nel lavoro.
Ecco perché ci auguriamo una rivolta delle nuove generazioni contro un sistema chiuso, che preclude ai giovani la possibilità di realizzare le aspirazioni della loro vita. Qualcosa, dunque, di molto più profondo e serio dei conflitti di potere intergenerazionale che avvengono dentro il ceto politico, che hanno un valore relativo. Per questi ultimi, mi affiderei a un’altra citazione di Max Weber: “Anche io non ho mai sopportato di essere sopraffatto in una discussione in virtù della data del mio certificato di nascita; ma il semplice fatto che uno abbia venti anni ed io più di cinquanta, in ultima analisi non può spingermi a pensare che questa sia una circostanza di fronte alla quale dovrei piegarmi in profonda reverenza”.
Dall’altra parte, però, c’è da augurarsi che la politica dia forma a questa rivolta giovanile, che sappia accompagnarla con un progetto di cambiamento della società. Altrimenti anche questa rivolta giovanile sfogherà nell’inutile rito dell’antipolitica.
Vedete, va di moda la demonizzazione della “casta”. Non c’è alcun dubbio: il ceto politico gode di privilegi non giustificabili, che vanno cambiati e bisogna fare riforme per eliminarli. Tuttavia, in questa campagna c’è qualcosa di profondamente distorcente. Essa, infatti, finisce per oscurare la realtà della diseguaglianza sociale che in questo Paese è ben più grave del vitalizio dei parlamentari.
In questa campagna c’è qualcosa di truccato. Basti pensare che è diretta e alimentata da giornali di cui sono proprietari signori che, quando vanno in pensione prendono 40 milioni di euro di buona uscita, magari dopo aver mal gestito il risparmio degli italiani.
L’antipolitica, così, diventa la valvola di sfogo di un Paese oppresso da ben altri problemi, un modo per nascondere la realtà, camuffarla e distogliere la passione e l’impegno di una nuova generazione. Contro la politica si scaglia il malumore dei cittadini, mentre al riparo rimangono ben altri privilegi e ingiustizie. Negli ultimi vent’anni, i redditi da lavoro sono praticamente rimasti fermi, quando i redditi da capitale sono cresciuti del 44%. Il lavoro dipendente percepisce poco più del 40% del reddito nazionale, pagando l’82% del gettito fiscale. Questa è la fotografia delle ingiustizie del Paese.
La politica deve tornare a dare l’esempio. Sta proprio qui la grave responsabilità di questi anni: la perdita della dimensione di esempio e guida. Non è l’eccessivo potere della politica al fondo di tutti i mali. Il vero male è la sua debolezza. E’ qui la chiave fondamentale per capire in che direzione spingere il nostro Paese.