Discorso
19 dicembre 2011

Intervento di Massimo D'Alema al Seminario "L’identità ritrovata", organizzato dall'Accademia di studi storici Aldo Moro <br><br> <br>

Roma - Istituto della Enciclopedia Italiana, Sala Igea


Non essendo uno storico di professione, affronterò quegli aspetti maggiormente legati al tema della ritrovata identità nazionale, anche in relazione alla crisi politica che il Paese sta vivendo. Per questo vorrei partire da una esperienza lontana, geograficamente distante, che mi è venuta in mente ascoltando gli interventi precedenti nel nostro dibattito di questa mattina.
Circa una decina di anni fa, in occasione del primo Vertice Euro-Latinoamericano che si teneva a Rio de Janeiro, ascoltai il discorso introduttivo del presidente Ferdinando Henrique Cardoso. Era un discorso molto bello, dedicato al peso che l’influenza europea aveva avuto nella formazione dell’America latina. Egli, dopo aver parlato del ruolo primario delle grandi potenze europee (Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito), venendo a parlare del nostro Paese, in una parte molto commossa del suo discorso, menzionò “gli italiani”. Disse “gli italiani”, mentre non pronunciò mai la parola “Italia”. E si soffermò lungamente sul ruolo fondamentale che gli italiani avevano avuto nella formazione della società, della cultura, dell’economia dei diversi Paesi latinoamericani. Il fatto che, in fondo, gli italiani appartenessero a una comunità nazionale denominata “Italia” non figurò minimamente nel suo discorso.
Effettivamente, viaggiando in America latina si incontrano moltissimi italiani. Ad esempio, se ne trovano nelle montagne del Rio Grande in Brasile: sono veneti, parlano un curioso dialetto che hanno denominato “talian”, che credo nessun italiano di oggi potrebbe comprendere. E in questa lingua hanno dato vita anche a una loro letteratura. Essi hanno creato delle cooperative che fanno la grappa e il vino, alla cui presidenza ci sono veneti e trentini, quali i signori Marangon e i De Gasperi. Un mondo commovente, un’Italia di tanti anni fa. Ci sono, inoltre, le piccole industrie di mobili… Insomma, un pezzo di Veneto. Ciononostante, se arrivasse lì un napoletano, sono certo che lo considererebbero alla stregua di uno straniero, alla pari dei portoghesi che vivono nella pianura. Poi ci sono villaggi nelle Araucarie che si chiamano Nuova Vicenza.
Così, sono ugualmente italiani quelli che nel cuore di Buenos Aires fondarono, prima che nascesse l’Italia, il Circolo “Benevolenza e Unione”: esuli garibaldini della Repubblica romana di cui si trovano tutti i simboli. Si tratta di italiani del tutto particolari, che poco hanno a che fare con l’influenza che, ad esempio, il fascismo ha avuto sulle comunità di italiani all’estero, dando loro l’idea di una patria lontana che diventava impero.
E ancora: i tifosi del Boca Juniors sono chiamati Los Xeneixes, con una parola che deriva dal genovese, ma che probabilmente risulterebbe anch’essa incomprensibile alla maggioranza degli italiani.
Tutto ciò forse spiega perché questi italiani hanno avuto una straordinaria influenza sulla formazione delle società latinoamericane, in particolare nel campo culturale e dell’economia, ma hanno avuto uno scarso peso sul piano della politica. Vedete, in nessuno di questi Paesi si parla la nostra lingua. In Argentina, ad esempio, rappresentavamo quasi la maggioranza della popolazione, ma non fu mai approvata la legge che prevedeva l’italiano come una delle lingue ufficiali. Ciò, forse, non avvenne anche perché la maggioranza dei nostri connazionali che fondò quei Paesi, in realtà, essa stessa non sapeva parlare l’italiano. Gli spagnoli, al contrario, erano molto più consapevoli: coscienti di venire dalla Spagna e di essere lì come colonizzatori, non certo come emigranti.
Quando parliamo dell’Italia come una nazione difficile, parliamo innanzitutto della ricchezza delle sue diversità: sia di quelle di natura politica e ideologica che hanno segnato, con
divisioni molto profonde, la storia italiana, sia delle diversità storiche e culturali che si sono accumulate nel corso di secoli di disunione tra gli italiani.
E’ indiscutibile, infatti, che nella vicenda italiana è lo Stato che ha creato la nazione, attraverso un processo nel quale ognuno ha portato il suo contributo. Penso a Mazzini, a Garibaldi, a Cavour... Però, è stato anche un processo sanguinoso, caratterizzato da un forte elemento coercitivo nella formazione della nazione italiana. La “piemontizzazione” dell’Italia si è fatta anche con la guerra civile. E non scordiamoci la repressione del brigantaggio, che nel Mezzogiorno ha preso le forme di un conflitto contro una opposizione popolare le cui dimensioni andavano molto al di là di pur ristretti gruppi. Questa comunità di diversi si è cementata nelle trincee della Prima guerra mondiale, in una immane tragedia. E’ stato poi il fascismo a nazionalizzare le masse, attraverso l’esercizio della dittatura e dell’autoritarismo. E ancora, la rinascita della Patria è avvenuta dopo una nuova, cruenta guerra civile. D’altra parte, le ricerche sul “sangue dei vinti”, non soltanto su quello dei combattenti per la libertà, hanno appassionato la ricerca storica nel corso di questi anni.
Insomma, quando Moro pensava alla “nazione difficile”, credo avesse in mente proprio la complessità di questo processo, e cioè la difficoltà di tenere insieme la somma dei particolarismi con cui ancora abbiamo a che fare nel nostro tempo.
E’ la politica, nel Dopoguerra, a prendere il posto delle forme diverse dello Stato autoritario e a diventare grande strumento di mediazione, di negoziazione dei conflitti, di inclusione. Basti pensare a cosa è stata in quel tempo la politica verso il Mezzogiorno, per dare un’immagine diversa della nazione italiana ai cittadini meridionali. La politica come mezzo di ricostruzione di un senso di appartenenza alla comunità nazionale.
E se da un lato Moro aveva bene in mente il tema della estraneità e poi dell’inclusione dei cattolici, dall’altro, aveva senza dubbio una visione più larga. Quella, appunto, del confronto con la sinistra, con quel processo progressivo che significava prima l’allargamento della maggioranza, e dunque il governo con i socialisti, poi la strategia dell’attenzione verso i comunisti. Certo, non intendeva un governo con tutti dentro, ma la creazione delle condizioni affinché tutti si sentissero parte di una comunità, senza discriminazioni, senza alcuna esclusione preventiva. Insomma, un processo lungo, complesso.
Sull’altro versante, un ruolo analogo verso il mondo della sinistra lo ebbe il patriottismo comunista. Il radicamento nazionale era visto dal PCI come una garanzia della sua diversità verso l’ortodossia sovietica. Fu una battaglia culturale.
In proposito, ricordo una discussione significativa sul sentimento nazionale. Ero ragazzino, allorquando, in una sezione del PCI a Genova, un funzionario del partito spiegava ad alcuni operai che alla partita di calcio Italia–Unione Sovietica, bisognava tifare per l’Italia. Perché, badate, i militanti tifavano per l’Unione Sovietica… Era il partito, il suo gruppo dirigente a dire che, invece, bisognava sostenere “la Nazionale”. Qui parliamo di un punto davvero rivelatore del senso di appartenenza di una comunità.
Tutto questo dà un’idea di quanto sia stato faticoso quel processo di costruzione e di quanto, nel Dopoguerra, sia stata la politica la chiave per superare o, per lo meno, per governare i contrasti di natura geografica e ideologica che ostacolavano il senso di comune appartenenza alla comunità nazionale.
Come è stato scritto da Remo Bodei, il “Noi diviso” degli italiani ha avuto una voce attraverso i partiti e quella concordia-discorde tra essi. In definitiva, i partiti erano uniti da un patto nazionale, sia pure nella diversità delle posizioni politiche, ideologiche e persino al di là delle fratture della Guerra fredda, che furono governate dai partiti stessi. De Gasperi rifiutò l’idea di mettere fuori legge il Partito Comunista, e il Pci rifiutò la “strategia greca”, accettando la Repubblica democratica. Furono fatte delle scelte.
Quella classe dirigente svolse un ruolo di garante di un’unità, di una coesione che non veniva da una storia e da un sentimento condivisi. Per questo ho parlato dei grandi partiti. In questo senso, ebbero un ruolo importante le forze laiche risorgimentali, e persino una certa destra che,
erede della tragedia del fascismo, si ricollocò dentro il quadro della democrazia parlamentare del Dopoguerra, con le regole e le forme di convivenza proprie di quel sistema.
L’aspetto interessante di oggi, tuttavia, è un altro. Mi domando: al di là della grande crisi che ha travolto il sistema dei partiti e ne ha prodotto uno infinitamente più fragile, meno capace di innervarsi nella società e di orientarla, come possiamo far riemergere questo sentimento nazionale che è stato a lungo presidiato dal sistema dei partiti e che è stato costruito dalle istituzioni democratiche?
E’ chiaro che alla crisi dei partiti è corrisposta l’emersione di linee di frattura e di volontà secessionistiche, ma è anche vero che, contemporaneamente, negli anni ’90, è avvenuto quel compimento della democrazia, sia pure nelle forme rozze e nelle asperità del nostro bipolarismo, che, in qualche modo, rafforza la comune appartenenza.
Non c’è dubbio che, in quegli anni, è avvenuto un duplice movimento: se, per un verso, la crisi dei partiti ha indebolito questa capacità di innervare l’unità fra gli italiani, dall’altro, il compimento della democrazia ha fatto superare, in qualche modo, quelle ragioni di estraneità che erano presenti in una parte del Paese. Nel corso di pochi anni, infatti, gli eredi del Partito comunista e del Movimento sociale si sono alternati, sia pure malamente se si vuole, al governo del Paese.
In ogni modo, si è trattato di un processo enormemente positivo, perché ha spazzato via elementi di estraneità che erano profondamente radicati nella vicenda nazionale. E direi che, per certi aspetti, l’indebolirsi della mediazione dei partiti ha reso più forte il bisogno dei cittadini di identificarsi nelle istituzioni dello Stato.
Pensiamo, ad esempio, come, in parallelo alla crisi dei partiti, sia cresciuto il ruolo anche simbolico di una istituzione come quella della Presidenza della Repubblica. Il ruolo di una istituzione come questa, al di sopra delle parti, al di fuori del conflitto tra i partiti, è profondamente cambiato nell’immaginario collettivo, divenendo espressione anche simbolica dello Stato in quanto riferimento unitario di tutti i cittadini. Ciò esprime il bisogno, in una situazione in cui il rapporto con lo Stato è meno mediato dal ruolo dei partiti, di elementi di identificazione, di coesione.
Inoltre, ragionando su un altro piano, quello del mondo globalizzato, emerge un altro aspetto: l’importanza che ha assunto lo Stato nazionale, smentendo quell’infinita letteratura che, al contrario, ci ha propinato la sua liquidazione. La globalizzazione, infatti, ha determinato un effetto largamente e totalmente contrario, portando, cioè, a un ritorno all’identità nazionale, anche con quegli aspetti deteriori che ciò può comportare in termini di chiusura e conflittualità verso gli altri. Per un periodo, si pensò che la debole identità degli italiani, il loro cosmopolitismo, potesse rappresentare un elemento di forza, un’opportunità per integrarsi nel mondo globale. Forse è stato così per alcuni, non certo per l’Italia come nazione.
In realtà c’è un dato ineludibile: è lo Stato nazionale la forma attraverso cui si partecipa al mondo globale ed è la forza degli Stati nazionali a fare la differenza. Naturalmente, tutto questo assume un significato ancora maggiore se guardiamo all’Europa. Nel mondo globalizzato, infatti, essa deve essere unita.
Da parte mia, che sono un convinto federalista, sono consapevole che il federalismo al quale si può pensare oggi sia quello che Jacques Delors definì “federazione di Stati nazionali”, perché mi sembra difficile che si possa pensare a un’Europa nazione.
In questo senso, riveste un aspetto importante il tema del rapporto tra identità nazionale e Costituzione europea. In questi giorni, ho avuto la fortuna di ascoltare, al Congresso della Spd a Berlino, uno straordinario discorso di Helmut Schmidt, che ha esordito: sono un militante socialdemocratico e siccome sono un uomo molto anziano non ho più la vostra passione partigiana, l’unica questione di cui mi occupo è il ruolo e il destino della nazione tedesca nell’ineludibile dimensione dell’integrazione europea.
E’ un’espressione complessa e con il suo intervento, intitolato “La Germania con l’Europa e in Europa”, Schimdt non smarrisce l’entità nazionale, ma la porta inevitabilmente a misurarsi con il processo di integrazione europea, pena, secondo lui, una perdita drammatica di ruolo dell’Europa, che significherebbe anche la perdita di peso di quell’insieme di valori che essa rappresenta.
Certamente, il ritrovato, o reinventato, senso di appartenenza a una comunità ha radici storiche e culturali, ma non è un dato chiuso. Piuttosto, è un’identità in movimento, che vive un processo continuo di integrazione, di allargamento, le cui radici culturali ed etniche sono plurali.
In proposito, ho partecipato, poco tempo fa, a un’assemblea di giovani figli di immigrati che rivendicano la cittadinanza italiana in quanto nati nel nostro Paese. Ebbene, ho potuto presentarmi a quella platea, in gran parte composta da maghrebini, dicendo: “Vi parlo come immigrato di trentesima generazione”. Perché diciamo le cose come stanno: farei fatica a nascondere la radice araba del mio cognome, Halema. Così come è difficile per certi biondi siciliani nascondere le loro radici normanne. Insomma, la radice etnica italiana fortunatamente è plurale fin dalle origini.
Oggi, questo senso di appartenenza a una comunità nazionale si confronta con la necessità di allargare, di aggiungere, di includere. Tra pochi anni nel nostro Paese vivranno milioni di persone che non sono di “etnia italiana”, espressione priva di senso. E che vogliamo farne di queste persone, se non dei cittadini? E’ un processo inevitabile che richiede una visione dinamica della nostra società, senza negarne le radici culturali, ma con un’apertura che è condizione della vitalità della comunità nazionale.
Sono queste le sfide che dovremo affrontare, in un presente che è carico di contraddizioni. I festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia ne hanno mostrato gli aspetti positivi, cioè il senso e la necessità di ritrovarsi insieme come comunità, e il bisogno di simboli e di istituzioni che ci rappresentino tutti, al di là dei particolarismi e dei conflitti che pure attraversano il Paese ancora oggi.
Grazie.

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