Alla fine, poiché la sensazione che gli resta a intervista conclusa è sempre la stessa - e cioè che l'interlocutore abbia capito poco o male – Massimo D’Alema diventa quasi didascalico, sceglie con cura le parole e dice: «Quel che dovrebbe trasmettere quest'intervista, è che io penso che quella in atto non sia affatto la crisi dei partiti politici, come accadde con la Tangentopoli del 1992, bensì quasi l'opposto: cioè la crisi dei non-partiti, del leaderismo demagogico e populista, nel quale, agli organismi dirigenti e al controllo degli iscritti, si sostituiscono i cerchi magici attorno al capo. Certo, si tratta di un momento comunque difficile, e non lo nego. Ma la soluzione non sta, come qualcuno vorrebbe, nel liquidare i partiti quanto - piuttosto - nel riformarli: ridando loro efficienza, trasparenza e capacità di decisione. Perché in gioco non ci sono "i politici" ma la democrazia ... ».
Che Massimo D’Alema torni in campo per difendere la funzione e il ruolo dei partiti, onestamente non può esser considerata né una sorpresa né una novità. Va però forse annotato il tono: che sale – quasi per legittima difesa - col crescere d'intensità degli attacchi che giungono, ormai, da ogni dove. Spiega: «Si prenda la contrapposizione ormai di moda tra tecnici (onesti e competenti) e politici (corrotti e ignoranti): si tratta di una falsificazione della realtà, di una campagna distruttiva che apre la strada al populismo e alla tecnocrazia, che è cosa ben diversa da un esecutivo tecnico. Io sono stato al governo con personalità come Ciampi e Padoa-Schioppa, per dire quanto sia falso contrapporre politica e competenze… Ma qui, del resto, siamo al punto che desta scandalo e sospetto perfino dire che domani il Paese dovrà esser governato da chi vince le elezioni».
Se la situazione però è questa -ed è certamente questa - i partiti forse farebbero bene almeno a riconoscere gli errori commessi, e ad assumere le responsabilità del caso. E invece l'aria, anche a sentir lei, non pare affatto questa.«Tutti farebbero bene ad assumere le loro responsabilità. Credo che sia stato un errore non fare le riforme del sistema politico e costituzionale. E che ugualmente sbagliato sia stato illudersi che la legge elettorale maggioritaria e il nome del capo scritto sulla scheda sarebbero stati sufficienti a fare dell'Italia una democrazia moderna. In questo modo si è aperta la strada a una logica plebiscitaria di cui ora misuriamo le conseguenze. Ma a certi commentatori che si eccitano per Grillo, bisognerebbe far notare che sembra l’imitazione di Bossi di vent’anni fa: e abbiamo già visto com’è andata a finire… Poi, certo, è legittimo discutere del finanziamento pubblico dei partiti: ma bisognerebbe anche dire che è stato già deciso di ridurre notevolmente i rimborsi elettorali, e non nascondere la verità per alimentare la rabbia dei cittadini».
Questo per dire cosa, scusi? «Credo che ci si debba preoccupare tutti di quale possa essere l’esito di una crisi di questo genere, perché il rischio è quello di accentuare gli aspetti peggiori della Seconda Repubblica – il personalismo e il populismo – trasformando i partiti in comitati elettorali: e magari, senza il finanziamento pubblico, metterli nelle mani delle lobby economiche e finanziarie più spregiudicate. Non mi pare che un esito di questo tipo sarebbe positivo per il Paese. Per altro, ci spingerebbe fuori dall’Europa: dove i Paesi più forti sono quelli che dispongono ancora di partiti radicati ed espressione di grandi culture politiche. Qui, invece, si batte la grancassa della demagogia e dell’antipolitica. Prenda la vicenda della Lega, per esempio».
Prendiamola. Cosa insegna?«A me spiace quanto sta emergendo, perché genererà altro qualunquismo, e non se ne sentiva il bisogno. Ma per uscire da questa crisi, la Lega ha una sola via: ritrovare la forza della sua radice popolare».
E più in generale, quali rimedi andrebbero messi in campo perché i cittadini recuperino un rapporto positivo con la politica?«Io credo che occorra fare quello che promettiamo agli italiani – purtroppo già da troppo tempo - e che ora è diventato assolutamente urgente realizzare: e cioè le riforme necessarie per ridare efficienza al sistema. Penso che un punto di
svolta potrebbe essere rappresentato, oltre che da una legge che riformi e renda trasparenti e controllabili i meccanismi di finanziamento dei partiti, da una nuova legge elettorale. E’ necessario restituire, attraverso il collegio uninominale, il potere ai cittadini e – contemporaneamente - responsabilizzare i partiti nell'indicazione dei candidati proposti e nella presentazione di programmi e idee. Ciascuno con il proprio profilo, e non nella confusione delle ammucchiate elettorali: che sono state la regola di questi anni, non hanno prodotto stabilità di governo ma solo litigiosità e trasformismo».
Una legge che punti sui partiti certo non può entusiasmare, considerati i tempi….«Al mondo ci sono solo due modelli democratici: il sistema parlamentare oppure il presidenzialismo. Se non si vuole il primo, si abbia il coraggio di indicare il modello presidenziale. Purché non si insista in soluzioni pasticciate e confuse che hanno già dimostrato di non funzionare».
Considera questa riforma una priorità? «Sì, queste sono le priorità. Poi, come diciamo da tempo, sarebbero necessarie alcune riforme costituzionali, dalla
riduzione del numero dei parlamentari alla fine del bicameralismo perfetto, dai poteri del governo alla sfiducia costruttiva.
Ma è venuto il momento di dire che, se non ci fossero i tempi per varare queste ultime, la circostanza non può essere utilizzata come alibi per non far nulla: si faccia quel che si può, a cominciare dalla riforma elettorale. E' troppo tempo che se ne parla e basta: e questo, certo, è un rimprovero che i partiti meritano davvero».
Finalmente una parola di autocritica, verrebbe da dire.«E' onesto riconoscere quando e perché si è sbagliato. Ma sarebbe altrettanto onesto dare ai partiti quel che è dei partiti».
E cos'è dei partiti, scusi?«Il merito di aver compiuto una scelta di responsabilità, investendo Mario Monti del compito che ha oggi di fronte. Il Pd, in particolare, rivendica a viso aperto questa scelta: che è certo servita a cacciare Berlusconi da palazzo Chigi, ma anche a mettere le premesse per salvare il Paese dalle drammatiche difficoltà in cui era stato precipitato. In fondo, il Pd poteva chiedere le elezioni, che avrebbe probabilmente vinto. Oggi noi sosteniamo Monti con lealtà, lo incoraggiamo ad andare avanti e gli diciamo che è però il momento di agire per rilanciare la crescita del Paese e per una maggiore equità sociale. Operiamo con senso di responsabilità. E nello stesso tempo prepariamo una prospettiva per il Paese».
Il governo tecnico come una parentesi da chiudere, insomma.«Si andrà alle elezioni, e chi vincerà governerà il Paese, come in ogni democrazia. E non perché io voglia che dopo i tecnici tornino i politici, ma ritengo che in Italia, come nel resto d’Europa, è necessaria una svolta che rimetta al centro il lavoro, la giustizia sociale, la crescita economica. Per dirla in parola povere, voglio che la sinistra torni a governare, a cominciare dalle elezioni francesi. In fondo, in Italia il centrosinistra ha dimostrato di saperlo fare. Il governo di Romano Prodi lasciò la guida del Paese nel 2008: il debito pubblico era al 103,5 del Pil e lo spread a 34 punti…».