Tendo a pensare che, se una parte di quello che fu il Partito socialista italiano ha deciso di concorrere alla formazione della nuova destra in Italia, assieme agli eredi del Movimento sociale e del neofascismo, sia tutto merito loro e non mio, nel senso che chi ha deciso di farlo se ne è preso totalmente la responsabilità. E considero questa un’anomalia non meno difficile da spiegare di quella di cui si occupa il libro di Fabrizio Cicchitto. Dico questo per togliermi qualche merito e per restituirlo a chi giustamente ha fatto le sue scelte in assoluta libertà e, forse, con quelle scelte rivelando anche qualcosa delle fragilità precedenti.
Vorrei venire ai temi posti dal libro, discutendone innanzitutto la tesi di fondo, e cioè che vi sia una sostanziale continuità tra la prima e la seconda Repubblica e che quindi, in definitiva, si possa parlare del Partito democratico come se fosse l’erede diretto delle anomalie rappresentate dal PCI. Questa tesi a me sembra onestamente molto forzata, sul piano politico e sul piano dell’analisi storica, a partire sia dalla constatazione del mutamento radicale del contesto in cui si colloca il conflitto politico nel nostro Paese sia dal mancato riconoscimento del fatto che, pur in un modo originale – tornerò su questo punto –, non c’è dubbio che oggi la maggiore forza del centrosinistra italiano è strettamente collegata al riformismo europeo.
Sono vicepresidente dell’Internazionale socialista e, più che come emulo di Togliatti, vorrei parlare in tale veste, dato che lo sono da 11 anni, mentre qui si ha la sensazione che persistano delle formae mentis. Cioè, più che alla persistenza del comunismo, questo libro mi fa riflettere sulla persistenza dell’anticomunismo, che persiste oltre il venire meno dell’oggetto verso il quale si è incanalato.
I deputati del PD nel Parlamento europeo hanno costituito un gruppo insieme ai socialisti, che evidentemente li avvertono come affini. Il segretario del nostro partito, Pier Luigi Bersani, non viene invitato ai vertici dell’Internazionale comunista, che non c’è più, ma alle riunioni di leader socialisti, con François Hollande e gli altri.
Dunque, il mutamento del contesto è così profondo ed è avvenuto da talmente tanto tempo che, sinceramente, non può che rappresentare un dato di fatto che trasforma radicalmente l’ottica con cui si guardano i fatti di oggi. Fatti che difficilmente possono essere letti attraverso le categorie gramsciane e togliattiane. Quindi non condivido questo assunto.
Secondo me, in realtà, si tratta di due libri: uno sulla storia del PCI, l’altro sul centrosinistra nella nuova Repubblica. Non condivido nessuno dei due, ma sono due libri e non credo che si possa sostenere la tesi di una sostanziale continuità della storia della sinistra italiana da Gramsci a Bersani.
Ripeto, il mutamento del contesto, della percezione, il mutamento di quel rapporto tra nazionale e internazionale che, giustamente, Fabrizio Cicchitto ha usato come categoria interpretativa della storia del PCI, è talmente radicale da imporre una presa d’atto, sia pure da chi scrive animato da una notevole passione politica.
Certo, è un libro di battaglia politica e come tale lo rispetto, dato che è la stessa disciplina di cui mi occupo io.
Sul PCI dirò poco, perché ne ha già parlato Silvio Pons ed esiste un’amplissima letteratura al riguardo. Mi dedicherò piuttosto al secondo volume, a una riflessione su una storia del dopo ’89. Trovo che, forse, meriti una spiegazione più approfondita il fatto che il PCI abbia saputo imporsi come forza prevalente della sinistra italiana, come grande forza nazionale.
Sinceramente importa molto poco che la “svolta di Salerno” sia stata condivisa, suggerita da Stalin. Anche le grandi scelte della Democrazia cristiana furono suggerite dagli americani… Ciò non toglie che la “svolta di Salerno” corrispondeva alle necessità del nostro Paese, indipendentemente da chi l’avesse suggerita, e consentì al PCI di svolgere un ruolo fondamentale nel passaggio tra il fascismo e la Repubblica, e di radicarsi come grande forza costitutiva della democrazia italiana.
Forse una riflessione sulle ragioni dell’affermarsi di quella forza merita di indagare altri aspetti e non soltanto l’analisi di Gramsci o la genialità tattica di Togliatti. Forse bisogna capire in che cosa essa sia consistita, anche nella contraddizione del rapporto con l’URSS.
Il riformismo reale del PCI, il suo radicamento nella storia locale, le amministrazioni locali, il rapporto col mondo sindacale e cooperativo, hanno fatto del Partito comunista italiano un animale strano. Perché, se è vero che il PCI era portatore di quel limite storico del vincolo con l’Unione sovietica, che certamente è andato ben oltre il ’51, tuttavia esso si è sostanzialmente fermato nella seconda metà degli anni ’70 e da quel momento in poi, semmai, si è affermata un’ostilità del gruppo dirigente sovietico verso il gruppo dirigente del PCI e Berlinguer. C’è una ricca documentazione di questi atti di ostilità e non di sostegno. Ma il PCI si è mosso dentro i limiti di questa collocazione storica, il che ha rappresentato una delle ragioni della democrazia bloccata.
Del resto, in Francia la democrazia si è sbloccata malgrado l’esistenza di un grande partito comunista, perché lì i socialisti seppero imporsi come forza dirigente della sinistra e non contro i comunisti. Perché lì i socialisti portarono il PCF al governo in un Paese dell’Occidente, e non per legge, ma grazie alla loro forza politica, in particolare quella di Mitterrand, che prese in mano la prospettiva di un governo unitario della sinistra, ne accettò il rischio e sul quel terreno affermò la sua egemonia sui comunisti.
Pure dentro quei limiti di collocazione storica a cui mi riferivo prima, il PCI seppe affermarsi come grande forza nazionale, c’è poco da fare… Vi è una storia reale di quel partito, dei suoi rapporti con la società, col mondo della cultura, col mondo del lavoro. Se si prescinde da questo, non si riesce a capire perché questa sorta di distaccamento cosacco è arrivato a rappresentare più di un terzo del popolo italiano. Soltanto perché Togliatti era intelligente è una spiegazione insufficiente, ecco.
Quindi, da questo punto di vista, forse bisogna cercare di capire tutta la duplicità – lo diceva Pons – di questo partito, la contraddittorietà del rapporto con il comunismo sovietico, ma anche la realtà del suo radicamento nella storia nazionale, che ne hanno fatto una forza diversa.
Non condivido il giudizio di Quagliariello sull’uso berlingueriano dell’espressione “diversità”. In Berlinguer, infatti, si trattava di una categoria politica, non antropologica. Berlinguer sosteneva – quanto giustamente è certamente opinabile – che il Partito comunista era diverso in quanto aveva un rapporto diverso con lo Stato rispetto alle forze che governavano il Paese in quel momento.
Valuto in modo critico il cosiddetto ultimo Berlinguer, perché credo che rappresenti più un ripiegamento dopo la sconfitta della politica del compromesso storico, che non una straordinaria stagione di intuizioni, come taluni hanno pensato, facendovi derivare, magari, certe posizioni più radicali o estremistiche.
Tuttavia, ripeto, Berlinguer non è mai stato un moralista che predicava la diversità antropologica dei comunisti. Si tratta di un’interpretazione sbagliata, secondo me, proprio sulla base dei testi, della conoscenza dei fatti.
Credo che Berlinguer avesse in mente di tornare a una politica di collaborazione con le forze democratiche e in particolare con il mondo cattolico e la Democrazia cristiana. Egli non aveva certamente in mente l’isolamento e la diversità antropologica dei comunisti. E potrei portare delle testimonianze in questo senso, anche grazie al rapporto personale che avevo con lui.
Certamente pensò che il Partito socialista di Craxi fosse un avversario pericoloso e lo individuò in una certa fase come l’avversario principale – in questo, a mio parere, sbagliando.
Credo che in quel tormentato rapporto a sinistra ci siano stati errori da una parte e dall’altra. E, forse, se quel rapporto fosse stato meno problematico, l’esito della crisi del comunismo italiano dopo l’’89 avrebbe potuto essere diverso. In quel momento ci fu una discussione più complessa e articolata. Io, per esempio, non ero affatto contrario alla parola d’ordine dell’unità socialista e lo dissi, ma ritenevo che il PSI fosse un soggetto con il quale era molto difficile realizzare quel tipo di processo politico.
E penso che una delle ragioni della sconfitta del PSI, al di là dell’attacco giudiziario, fosse la sua fragilità etico-politica. Ne ho avuta una conferma clamorosa allora, perché il giudizio più sprezzante che abbia sentito sul PSI lo dette Craxi: quando lo incontrai nel camper, mi disse del suo partito cose che non oserei ripetere.
Non è vero neanche che il Partito comunista abbia ordito un complotto militare insieme ai magistrati. Non esistono prove fattuali di questa tesi, su cui Cicchitto ritorna dopo averne fatto oggetto già di un altro saggio.
E’ la verità: questa tesi, che ottenebra il dibattito politico italiano da vent’anni e che ha lasciato un residuo di veleni e di rancori, non ha un fondamento nei fatti.
I magistrati di Milano non erano legati al Partito comunista, salvo forse uno che si rivelò il più equilibrato e il più garantista di tutto il pool: D’Ambrosio. Gli altri non erano uomini di sinistra, non avevano un grosso rapporto con il PCI. E molti di loro non erano neppure membri di Magistratura democratica. Certamente non lo era il dottor Di Pietro, che sicuramente dal punto di vista politico veniva da tutt’altre sponde.
Ora, nella bufera di Tangentopoli i partiti ebbero un diverso grado di resistenza. In realtà, la Democrazia cristiana, se andiamo a vedere bene, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non scompare affatto: si riarticola nella logica del bipolarismo. E il ceto politico democristiano ha rappresentato uno dei fattori di maggiore continuità nella vita politica della seconda Repubblica. L’unico partito che entra in una crisi drammatica è il Partito socialista e credo che qui ci siano delle ragioni specifiche, che, forse, chi ha vissuto quell’esperienza dovrebbe cercare di indagare, anziché rifugiarsi nella tesi autoconsolatoria di essere stati vittime dei comunisti cattivi, di Violante, di Pecchioli, di non so chi… Quando si risolvono passaggi storici evocando il complotto, secondo me normalmente ci si mette su una strada sbagliata.
Ora, quello che è vero – e Cicchitto torna spesso su un punto che io trovo invece più convincente – è che, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, prende forza un fattore che ha sempre agito profondamente nella realtà italiana. Mi riferisco a un tratto che definirei tipico di una parte del ceto economico e del ceto intellettuale dominante del Paese, e cioè una visione elitaria, antipolitica, che tende a porre il sistema politico-democratico in una posizione subalterna.
Di volta in volta, questo tipo di egemonia, che è un’egemonia di ceti economici ben determinati, si è esercitata su diversi soggetti della politica italiana. E’ vero, per esempio, che, nel cambiamento, noi siamo stati, in diverse fasi, subalterni rispetto a questa visione. Subalterni, cioè, a un certo nuovismo, a un’esaltazione acritica della società civile versus la politica. Lo considero uno dei fattori che hanno concorso a rendere fragile il sistema politico-democratico della seconda Repubblica.
Bisogna dire che anche a destra questa visione ha avuto un peso prepotente: per far tornare i conti non si possono rimuovere i fatti. L’ondata di Tangentopoli, è vero, fu sostenuta da diversi gruppi editoriali. Fra questi, in modo molto agguerrito, il gruppo editoriale di cui è proprietario l’onorevole Silvio Berlusconi, il quale all’epoca sostenne l’azione dei magistrati, cavalcò il sentimento antipolitico presentandosi come il grande imprenditore che spazzava via i politicanti che vivevano di politica. Non a caso, coerentemente, propose al dottor Di Pietro di fare il ministro dell’Interno del suo governo nel ’94.
In generale, questo sentimento antipolitico è stato potentemente all’origine della nuova destra italiana, ma ha anche fortemente influenzato la storia del centrosinistra, contribuendo a rendere fragile la struttura politica della cosiddetta seconda Repubblica. Un tema su cui certamente bisogna riflettere, in un gioco di specchi in cui la vicenda politica italiana è segnata, come ho cercato di dire – e lo diceva anche Pons –, da reciproche anomalie. E sarebbe sbagliato, in sede di analisi storica, ridurre la peculiarità italiana all’anomalia comunista.
Non c’è dubbio che la presenza di un grande partito comunista è stato un fattore che ha impedito il ricambio delle classi dirigenti e ha dato un certo connotato al conflitto politico di questo Paese.
Non è possibile non considerare, però, che nella storia italiana pesa l’assenza di una destra liberale, è presente una destra illiberale e statalista, e ha pesato e pesa tuttora una resistenza reazionaria e antidemocratica che ispira una parte del ceto economico e intellettuale.
Peraltro, alcune di queste anomalie sono nate prima del PCI. Così come, a mio giudizio, la sconfitta del riformismo socialista è avvenuto prima della nascita del Partito comunista. D’altro canto, le pulsioni massimaliste, anarcoidi e il fatto che un pezzo del mondo socialista sia poi confluito nel fascismo, tutto questo non è derivato dall’anomalia comunista. E’ un pezzo della storia, in questo senso anomala, del socialismo italiano. Forse anche per questo in Italia il Partito comunista ha assunto tanta forza.
Ora, io dico questo: noi – e riprendo un punto importante che ha sollevato Pons – possiamo avere modi diversi di riferirci alla storia del Paese.
Uno è quello di continuare a usarla per delegittimarci a vicenda. C’è un’enorme quantità di materiale che consente di farlo, in un senso o nell’altro. Naturalmente, più il sistema continuerà a interpretare la lotta politica in questi termini, più esso sarà fragile, complessivamente debole ed esposto al peso di lobby e potentati che dall’esterno, di volta in volta, lo delegittimano e ne condizionano le scelte, quando non si pongono il problema di sostituirlo tout court.
L’altro è, forse, quello non dico di arrivare ad avere una memoria comune, perché questo probabilmente è ancora complicato, ma almeno di sforzarci di vedere e di favorire un processo che, molti anni fa, definii “fare dell’Italia un Paese normale”, rendendo europea la politica italiana.
Nella peculiare vicenda italiana, e cioè in un Paese in cui non può esserci una grande forza riformista senza una presenza originale e rilevante del mondo cattolico democratico, credo che il PD sempre più rappresenti ciò che in altri Paesi europei rappresentano le grandi forze riformiste di ispirazione socialdemocratica. E, non a caso, con esse collabora. C’è poco da fare, questa è la realtà.
Mi sforzo di pensare che sempre di più dall’altra parte ci sia una forza che organicamente, non soltanto formalmente, rappresenti in Italia un’ispirazione conservatrice che si leghi al mondo del popolarismo europeo.
Ho l’impressione che convenga favorire un processo di questo tipo e anche interpretare i nostri sforzi in questa direzione, anziché cercare di ricacciarci indietro, in una interpretazione forzosa che fa pensare che in questo Paese siamo sempre nella guerra fredda.
La guerra fredda non c’è più, è finita da moltissimi anni. E’ stato un fenomeno internazionale che difficilmente può continuare in un Paese solo.
In un Paese solo può continuare soltanto un’inutile e autolesionistica baruffa, alla quale si potrebbe, secondo me, porre fine, cercando di lavorare costruttivamente sugli elementi che tendono a rendere l’Italia sempre più leggibile come una democrazia europea.
In fondo ci siamo alternati al governo, pur con tutti problemi e gli insulti reciproci. Almeno questo fatto positivo è accaduto nel corso degli ultimi anni, e non è stata soppressa nessuna libertà, al massimo sarà stato cambiato il nome di qualche strada, ma non è accaduto nulla di catastrofico nel nostro alternarci al governo del Paese.
Vogliamo cercare di ricondurre nella normalità il confronto politico italiano o vogliamo che continui a essere abitato da fantasmi del passato, che, a mio giudizio, oramai non hanno più una reale influenza, se non sulla psicologia di alcuni dei protagonisti?
Non sottovaluto la psicologia, però i protagonisti devono liberarsi della psicologia, se no è bene che il Paese si liberi di alcuni protagonisti e guardi avanti. Non possiamo continuare ad avere una discussione politica che fa discutere il nostro Paese, con tutti i problemi che ha, come se fossimo tra gli anni ’50 e gli anni ’60.
Siamo in un’altra epoca, non c’è più la minaccia sovietica, non c’è più né il comunismo né l’anticomunismo.
C’è il confronto tra le forze conservatrici, moderate, da una parte, e le forze riformiste dall’altra, come in tutti i Paesi europei. Dovremmo cercare di dare a questo confronto un carattere utile al futuro dell’Italia.
Grazie.