Cari colleghi, cari amici,
Sono molto lieto di essere qui oggi e di avere l’opportunità di discutere con voi la visione che ispirerà il futuro delle relazioni tra Europa e mondo arabo in una cornice politica tanto diversa da quella in essere solo fino a due anni fa. Prima, cioè, della straordinaria ondata rivoluzionaria che si è diffusa nei Paesi arabi a partire dalla fine del 2010.
Penserete che si tratti di un paragone inappropriato, ma lasciatemi ricordare quanto è accaduto nel nostro continente dopo la caduta del Muro di Berlino. Alla fine della guerra fredda, per oltre dieci anni, l’Europa ha volto il proprio sguardo a Est. Per oltre un decennio ha deciso di concentrarsi soprattutto sull’allargamento verso i Paesi centrali e orientali e sul consolidamento della pace e della democrazia nel continente.
Ebbene, credo che la Primavera araba, dal punto di vista politico e culturale, sia un evento di tale portata da essere comparabile agli avvenimenti della fine del XX secolo in Europa Centrorientale. Un evento che sta cambiando la vita di milioni di persone in una regione molto vasta.
Tuttavia, la mia impressione è che l’Europa non abbia ancora compreso appieno la portata dei cambiamenti in corso. Invero, la nostra politica verso il Mediterraneo non è stata ancora riformulata con la necessaria forza e determinazione.
Certo, l’Europa sta attraversando una profonda crisi ed è attualmente concentrata su se stessa. Tuttavia, lasciatemi sottolineare che alcuni europei sembrano guardare con preoccupazione alla transizione politica in corso nei Paesi arabi. Possiamo comprendere la ragione di una simile preoccupazione, ma il vero problema è cosa l’Europa può fare per favorire un approdo positivo del processo che sta avvenendo.
Non ho la presunzione di delineare qui una nuova strategia politica per l’Unione europea, ma vorrei almeno suggerire brevemente le priorità che dovrebbero caratterizzare la nostra politica verso i vicini nel Mediterraneo.
Innanzitutto, la Ue e i suoi Stati membri non devono mai più dare l’impressione di rimpiangere i vecchi regimi, magari pensando che i dittatori rappresentassero i partner politici ideali, in quanto ponevano meno problemi su questioni come la sicurezza internazionale, gli approvvigionamenti energetici o l’immigrazione.
Siamo onesti: aver sostenuto le dittature è stato un grave errore, per il quale dovremmo fare una seria autocritica. Oggi è la stessa credibilità dell’Unione a essere in gioco.
In secondo luogo, prendere sul serio la democrazia implica che dobbiamo confrontarci con le nuove leadership emergenti e aprire un dialogo con esse, anche se non ci piacciono.
La democrazia non è soltanto un aspetto centrale della nostra cultura politica: la democrazia per noi è un valore universale, un principio indiscutibile. Di conseguenza, non possiamo negare ai partner arabi il diritto a esprimere democraticamente le loro scelte e non possiamo che dialogare con i nuovi protagonisti di questo cambiamento epocale, discutendo con loro di questioni come il rispetto dei diritti umani e il consolidamento democratico, perché sono questioni che attengono ai nostri valori.
D’altra parte, sarebbe un errore, a mio parere, demonizzare i movimenti islamici. Dobbiamo anzitutto imparare a distinguere tra fondamentalismo intollerante e Islam politico. Senza contare che la demonizzazione favorisce soltanto il diffondersi di atteggiamenti antioccidentali, in un clima da scontro di civiltà e di religioni che danneggia le forze laiche e progressiste presenti nel mondo arabo.
Certo, il fatto di mostrare rispetto per i governi democraticamente eletti non significa che dobbiamo astenerci dall’incalzarle sul rispetto dei diritti umani e civili, sulla libertà di opinione e di associazione, sulla parità di trattamento nei confronti delle donne e delle minoranze.
Tuttavia, per poter essere credibile ed efficace, l’Europa deve impostare le proprie nuove relazioni con i partner arabi su una base paritaria, senza anacronistici paternalismi di stampo postcoloniale o intollerabili rivendicazioni egemoniche. Ciò è particolarmente vero in due campi: quello delle fonti energetiche e quello delle politiche migratorie.
Per quanto riguarda l’energia, ritengo che l’Unione debba iniziare a elaborare una politica energetica comune con i propri vicini. Una politica che superi la rigida e obsoleta distinzione tra produttori e consumatori e che sia fondata sulle ormai imprescindibili priorità ambientali. Una politica che affianchi, inoltre, lo sfruttamento delle fonti tradizionali allo sviluppo di fonti rinnovabili.
Come ho appena detto, l’immigrazione rappresenta l’altra questione cruciale con cui ci dobbiamo seriamente confrontare. Come nel caso dell’energia, penso che anche in questo campo sarà necessario avviare una seria politica comune. Non vi suonerà nuovo il fatto che migliaia di migranti muoiono ogni anno in mare, nel disperato tentativo di sfuggire a conflitti, persecuzioni, fame e povertà, nella ricerca di un porto sicuro. A mio parere, noi europei abbiamo troppo spesso mostrato una deplorevole indifferenza verso questo problema. Invece di formulare politiche basate sui flussi migratori, sulla gestione comune di un’immigrazione ragionevole, le misure adottate a Bruxelles – e anche quelle prese dai singoli Stati membri: penso all’Italia e all’accordo tra Berlusconi e Gheddafi – si sono concentrate esclusivamente sulla prevenzione degli arrivi e sulla protezione delle nostre frontiere, senza alcun rispetto per i diritti e per la vita umana.
Il rispetto per i diritti umani dei migranti e il sostegno ai diritti civili di coloro che vivono, lavorano e formano le loro famiglie in Europa, contribuendo alle nostre economie, sono priorità che non possiamo più trascurare né rimandare. Sarà proprio l’approccio che la Ue adotterà su tali materie, infatti, a delineare i futuri rapporti con i Paesi arabi e africani a noi vicini.
Ma il tema cruciale, a mio parere, su cui si misureranno i rapporti tra il mondo arabo-islamico e il mondo occidentale è la questione palestinese. Mi spingo, anzi, a dire che l’incapacità dell’Europa e, in generale, dell’Occidente di impegnarsi concretamente nella ricerca di una soluzione al conflitto ha largamente contribuito alla radicalizzazione dei movimenti islamici.
Permettetemi di ribadire un punto chiave: il doppio standard che è stato accettato per molti anni, da un lato perché Israele era l’unica democrazia nella regione, dall’altro perché i dittatori non erano credibili al riguardo, violando i diritti umani nei loro stessi Paesi, non è più accettabile per i Paesi democratici, per un’opinione pubblica libera nel mondo arabo. Quindi, il primo passo verso un approccio realistico dell’Europa al processo di pace – un processo nel quale non possiamo fallire – sta nell’abbandono di ogni doppio standard nei confronti delle parti coinvolte.
E’ fuor di dubbio che il bisogno di sicurezza di Israele e il suo diritto a esistere non sono per noi in discussione: per l’Europa è la precondizione imprescindibile per l’avvio di un negoziato. Tuttavia, ciò non vuol dire che l’esito della questione possa essere lasciato nella sola responsabilità e buona volontà della leadership israeliana.
Anzi, è palese che la destra israeliana attualmente al governo sta lavorando contro qualsiasi prospettiva di un accordo di pace che tenga in giusta considerazione i diritti del popolo palestinese. Proprio per questo ritengo che continuare ad affermare che israeliani e palestinesi debbano negoziare tra loro, che solo a loro spetti la ricerca di una soluzione all’interminabile conflitto, sia soltanto un modo, per la comunità internazionale, di lavarsi le mani dai propri doveri e responsabilità, fingendo ipocritamente che il rapporto tra la fragile e divisa componente palestinese e i potenti israeliani sia un rapporto tra pari. Sappiamo tutti che non è così.
Innanzitutto, dobbiamo favorire, finalmente, la riconciliazione palestinese come precondizione per un negoziato. Da questo punto di vista, dobbiamo anche riconoscere che la decisione europea di non avere relazioni con Hamas è stata un errore, in quanto ha rappresentato un ostacolo all’unità del popolo palestinese.
In secondo luogo, credo spetti all’Europa e, in particolare, alle forze progressiste riportare la questione sul tavolo, garantendo un sincero impegno della comunità internazionale per la ricerca di una via d’uscita, che deve imperativamente formarsi nel rispetto del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Secondo voci attendibili – confermate da un autorevole quotidiano israeliano – in Europa si sta attualmente lavorando all’elaborazione di un piano politico per sbloccare lo stallo nel negoziato. Un piano il cui punto centrale dovrebbe essere l’instaurazione di uno Stato palestinese lungo i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale e una tabella di marcia definita per riavviare le trattative nel 2013, dopo le elezioni israeliane e la formazione del nuovo governo.
Sembra che i principali promotori di tale iniziativa siano Inghilterra e Francia, con il sostegno tedesco. Inoltre, l’Alto rappresentante Catherine Ashton starebbe valutando la possibilità di farne un progetto dell’Unione europea. Lo spero, e mi auguro vivamente che l’Italia possa unirsi al gruppo dopo le elezioni, con un serio governo di centrosinistra.
Non posso che gioire a una simile notizia e spero che sia presto confermata da fonti ufficiali. Naturalmente, auspico una piena adesione dell’Europa al piano, che includa – voglio sottolineare questo punto – la possibilità di prendere misure concrete per poter aiutare entrambe le parti negoziali, perché, senza una seria azione di mediazione internazionale, rimarrà soltanto un piano.
Infine, sono convinto che sia anche arrivato il momento di riflettere sulla necessità di dare una nuova cornice istituzionale alle relazioni tra la Ue e i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. E’ indubbio, infatti, che le esperienze del processo di Barcellona e dell’ancor più disastrosa Unione per il Mediterraneo siano ormai dietro le nostre spalle e non possano essere rivitalizzate.
Certo, lo sforzo di ripensare i principali tratti della Politica europea di vicinato è apprezzabile, in particolare la proposta di rafforzare la cooperazione e offrire maggiori vantaggi ai partner che siano disposti a introdurre maggiori elementi di democratizzazione: mi riferisco al cosiddetto approccio “more for more”.
Ricordiamo tutti fino a che punto la prospettiva di ingresso nell’Unione abbia costituito un forte incentivo, nei Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, all’introduzione delle riforme necessarie a renderli compatibili con i criteri di Copenhagen di governance democratica e rispetto dei diritti umani.
Non sosterrò qui che si debba offrire ai Paesi arabi un allargamento, come si poté fare con i Paesi dell’Est dopo la fine della guerra fredda. Mi rendo conto che non sia possibile. Tuttavia, sono convinto che dovremmo esplorare con coraggio ogni possibile nuova forma di integrazione tra noi e il mondo arabo, che è qualcosa di diverso e qualcosa di più rispetto al Mediterraneo. Dobbiamo sviluppare ogni area di cooperazione, attraverso istituzioni comuni e il coinvolgimento della società civile, di attori economici e organizzazioni rappresentative, non solo dei governi.
In altri termini, quella che dobbiamo sforzarci di costruire è una nuova comunità di Stati democratici, aperta all’ingresso di tutti quei Paesi che vogliano collaborare con l’Unione europea e che siano in grado di garantire standard adeguati di libertà e di rispetto dei diritti umani e civili.
Concludendo, credo spetti a noi europei lanciare un chiaro messaggio al mondo arabo, alle grandi masse di persone che combattono con coraggio per liberarsi dalle dittature. Il nostro messaggio dovrebbe essere “siamo con voi”. Se ci mostriamo scettici di fronte alla loro lotta per la democrazia – anche se in alcuni Paesi sta avvenendo in modo decisamente brutale –, allora temo che, alla fine, libertà e diritti saranno le vittime, mentre a prevalere saranno le componenti più ostili all’Europa.
Un grande storico francese, Fernand Braudel, ha sostenuto che il Mediterraneo, dopo essere stato la culla della civiltà umana, ha visto spostarsi prima verso l’Atlantico e poi verso il Pacifico il fulcro dello sviluppo e della crescita e il crocevia degli scambi economici e culturali.
Oggi, per molte ragioni, il Mediterraneo è tornato a essere centrale, poiché attraverso di esso passano rischi e opportunità. Le grandi sfide del nostro tempo si giocano per una parte importante lungo la sua frontiera.
Parecchi secoli fa, intorno a questo mare si parlava greco e latino. In queste lingue antiche ci sono due modi diversi per dire “mare”: pelagos, parola che ancora oggi evoca l’ignoto e la minaccia, e pontos, che ha la stessa radice di “ponte”. Due parole completamente diverse. E’ interessante come gli antichi percepissero la duplice natura del nostro mare.
Fare del Mediterraneo un ponte tra civiltà unite, finalmente, dagli stessi valori di democrazia e libertà è, appunto, la grande opportunità del nostro tempo. Ed è un compito che spetta ai progressisti.