Una maggioranza e un governo con Monti? Certo, perché no. Ma con dentro Nichi Vendola. Perché, questo il punto decisivo, quella maggioranza e quel governo «devono fare anche cose di sinistra»; le cose che servono all’Italia. Senza enfasi ma in maniera assai netta e determinata, Massimo D’Alema spiega qual è il senso di marcia verso il dopo urne del Pd e del centrosinistra. Il dialogo con l’attuale premier e con le forze centriste va bene: «Per il Pd si tratta di una conferma», taglia corto. «Io in particolare sono convinto da moltissimo tempo che l’unica prospettiva seria per l’Italia si fonda su un governo basato sul rapporto tra progressisti e moderati. Sono lieto che quella prospettiva comincia ad affermarsi».
Tuttavia, presidente, la novità sta nel fatto che adesso anche Monti usa termini in qualche modo vicini ai vostri.
«Vede, io penso che le campagne elettorali non vanno mai prese molto sul serio perché la gente fa propaganda. Ora, la propaganda è legittima ma certamente non può sostituire la politica. Forse non essendo candidato mi sento meno obbligato a fare propaganda... Ebbene, la politica dice che l’unica maggioranza in grado di dare una prospettiva al Paese e di rappresentare con forza l’Italia nello scenario internazionale è una maggioranza ampia, rappresentativa e guidata dal Pd. Ma - fattore decisivo di cui Monti ancora fatica a prendere consapevolezza - deve essere una maggioranza che comprenda anche la sinistra perché deve assolutamente fare anche cose di sinistra: redistribuire la ricchezza in modo più equo, promuovere lavoro e giustizia sociale. Il punto vero è che una maggioranza siffatta deve avere come bussola un programma in grado di unire gli aspetti migliori del centro democratico ai valori propri della sinistra. Con una postilla altrettanto fondamentale: che questo asse di governo regge solo se è incardinato su un grande partito, il Pd. Questo è il vero fatto nuovo dell'attuale campagna elettorale».
Fatto nuovo, presidente? Lei conosce già la critica allo scenario che sta tratteggiando: riproposizione dell’Unione stavolta da Monti a Vendola; che porterà agli stessi disastrosi esiti.
«Di che parliamo, scusi? L’Unione era costituita da undici sigle in rappresentanza di altrettanti partiti. Stavolta è diverso. Tra l’altro vorrei ricordare che coloro - come Diliberto, Ferrero e altri - che adesso, dietro l’usbergo del dottor Ingroia, strepitano stracciandosi le vesti proclamando che non si può governare con Monti, sono gli stessi che ai tempi dell’Unione governavano con Mastella. Non mi pare che possano accampare tutte queste purezze».
Dunque la novità è la forza centrale del Pd. Sicuro che sia sufficiente per convincere gli italiani?
«Penso di sì; mi auguro di sì. La prospettiva di governo che offriamo al vaglio degli elettori non si fonda sulla sommatoria di un pulviscolo di sigle bensì è imperniata su un grande partito, il nostro. La vera scommessa delle elezioni sta qui, nella possibilità del Pd di affermarsi come elemento di garanzia della stabilità e anche della possibilità di realizzare una maggioranza ampia. Del resto, non c’è alternativa. L’altra strada, infatti, vedrebbe prevalere la frammentazione che esporrebbe il Paese a rischi drammatici. Non a caso è la prospettiva sulla quale punta Berlusconi».
Veramente Berlusconi sostiene il contrario. Si batte per il voto utile: o il Pdl o il Pd, e niente ai piccoli partiti...
«Lasciamo stare. La verità è che, nel suo cinismo e nella sua sfrenata demagogia, Berlusconi fa un calcolo preciso: se il voto si disperde, anche solo con il 27-28 per cento lui può arrivare a prendere il 55 per cento dei seggi in Parlamento. Per il Paese significherebbe un disastro».
Mettiamola così: su quella prospettiva qualche segnale dai mercati è già arrivato e non è stato propriamente positivo...
«Allora, diciamo questo: se prende corpo uno scenario in cui il voto si disperde nei vari rivoli della protesta, ci ritroveremo Berlusconi e la Lega che con il 28 per cento dei voti si accaparrano il premio di maggioranza. Sarebbe il crollo del Paese. Lo dico perché è necessario richiamare tutti alle proprie responsabilità. Vede, la campagna elettorale è cominciata come se si trattasse di andare a una scampagnata: ebbene non è così, è in gioco il futuro dell’Italia, la reale posta in palio è questa. E noi siamo la forza fondamentale, l’unica in grado di garantire la stabilità. Vogliamo dare vita a un governo equilibrato, ragionevole, allargato a forze democratiche del centro. Quel che accade in queste ore: il filo del dialogo tra Bersani e Monti, è positivo. Fa capire che esiste una prospettiva di governo forte e credibile, internazionalmente accettata. Gli elettori sono messi di fronte a questa scelta, le elezioni sono anche il momento della responsabilità».
Però Vendola rimane un elemento divisivo: Monti e Casini giudicano la presenza di Sel un insormontabile fattore negativo. E il governatore della Puglia replica che assieme a quei due non governerà mai. E allora?
«Guardi, a mio parere Monti sbaglia nell’indicare in Vendola e nella Cgil il pericolo principale per il Paese. E’ evidente che non è così: i rischi sono ben altri. Raffigurare Vendola e Sel come quelli che vogliono la repubblica dei Soviet non sta né in cielo né in terra. Vendola non è il capo di un gruppetto estremista: è un leader che è stato eletto e rieletto dai pugliesi con il 50 per cento. Sel è il partito che esprime i sindaci di Milano e Genova. La Puglia vanta uno dei migliori governi del Mezzogiorno, ha ottenuto ragguardevoli risultati in termini di crescita. La Bosch, per fare solo un esempio, ha fatto in Puglia il suo più grande investimento in ambito Ue».
Presidente, insisto: sono innumerevoli le occasioni il presidente Monti e Casini hanno individuato in Vendola e nella Cgil gli elementi della conservazione, che frenano la necessaria innovazione e il cambiamento.
«Davvero: non scherziamo. In Puglia c’è un governo fortemente innovativo, assai attento agli elementi della cultura, con politiche creative volte alla valorizzazione dei talenti giovanili. Una cosa è la raffigurazione ideologica, altra cosa è la realtà. Occorre una guida politica forte, e il Pd si sta impegnando in questo senso. L’idea che si possa governare contro i maggiori sindacati non solo è sbagliata e ingiusta ma soprattutto è velleitaria. Non è immaginabile che chi è forte del 12 per cento di consenso del Paese decida di governare contro un sindacato che ha più iscritti dei voti che quello schieramento può prendere».
Parliamo della campagna elettorale, la scampagnata come lei l’ha definita. Il confronto destra-centro-sinistra si impernia su promesse fiscali aleatorie. Le chiedo: non c’è anche una responsabilità del Pd? Lei stesso ha detto che serve una scossa: quando arriva?
«Effettivamente penso anch’io che la campagna elettorale è partita su questioni, come dire, fortemente affabulatorie. E’ ovvio che tutti vogliamo una riduzione della pressione fiscale; ma il nodo vero sono la crescita e il lavoro. In questa fase il problema è come si può intervenire sulla fiscalità per renderla più funzionale a politiche volte alla crescita. Abbiamo messo in Costituzione il pareggio di bilancio: significa che non possiamo finanziare la diminuzione fiscale aumentando il debito. Per questo chi parla di riduzione indiscriminata di tasse fa discorsi visibilmente fasulli, ingannando gli italiani. Tuttavia anche io credo che gli inganni non basta denunciarli. Il Pd è entrato in campagna elettorale troppo convinto di aver già vinto le elezioni. Bersani c’è, fa la sua parte, è credibile e affidabile. Ma l’ho visto un po’ troppo solo. Serve uno scatto, che non può che essere nella direzione della ripresa di contatto con i cittadini. E’ lo spirito delle primarie che deve riaffacciarsi con prepotenza. Non credo ai sorpassi berlusconiani. Però per essere ancora più tranquilli è bene spingere di più il piede sull’acceleratore».
E questo scatto in cosa dovrebbe sostanziarsi?
«In un grande piano per il lavoro, in particolare per quello giovanile. So che ci si sta lavorando. Deve essere il primo impegno del nuovo governo, magari riprendendo esperienze positive del passato come il credito d’imposta per i nuovi assunti; il finanziamento delle cooperative giovanili e dei contratti di formazione-lavoro su vasta scala. Penso in particolare al Mezzogiorno, ma non solo».
Nell’attesa, c’è altro?
«Certo. L’altro grande tema è come l’Italia sta in Europa. Da questo punto di vista, l’appuntamento di domani e dopodomani a Torino della fondazione per gli studi progressisti europei è significativo. L’idea è che non ci si può candidare a governare i principali Paesi dell’Unione senza un programma condiviso, una comune visione dell’Europa. Si parlerà di economia, però l’argomento principale sarà l’integrazione politica, la necessità di maggiore democrazia nelle istituzioni continentali. Se a Bruxelles si decidono questioni che influenzano la vita dei cittadini, i cittadini devono poter esercitare un controllo più diretto. Non ci piace l’idea tecnocratica della Ue. Respingiamo le sparate antieuropee di Berlusconi e Grillo, ma neanche accettiamo l’idea di un’Italia acquiescente alle politiche conservatrici imposte dalla signora Merkel».