Cari amici, cari compagni,
sappiamo tutti bene che l’Europa è ancora nel pieno di una grave crisi. Alcuni Stati membri stanno anche soffrendo una situazione di recessione economica. Lo abbiamo ripetuto tante e tante volte. Non mi stanco di sottolineare la gravità della situazione e non mi stancherò di farlo, finché non saremo in grado di dire, una volta per tutte, che la crisi è finita, che ce la siamo lasciata alle spalle.
La crisi economica e finanziaria non solo si trasmette alla sfera politica, condizionando negativamente l’atteggiamento delle nostre società e dei nostri cittadini nei confronti delle istituzioni nazionali ed europee, alimentando il loro distacco dalla politica e dai politici e, soprattutto, da Bruxelles e dal progetto europeo. Ma questa crisi rischia anche di diventare l’unica realtà conosciuta dalle persone: quest’Europa, quest’Europa tecnocratica e dell’austerità, potrebbe diventare la sola Europa conosciuta dai suoi cittadini.
E’ uno scenario pessimistico, ma plausibile, e non possiamo escluderlo con superficialità. Anzi, la recente edizione dell’Eurobarometro mostra questo preoccupante trend: non solo gli europei vivono nella paura di un ulteriore declino socioeconomico, ma temono anche che ci sia ben poco da fare per prevenirlo.
Noi continuiamo a parlare dei problemi delle banche, dei debiti sovrani e degli spread, ma non dobbiamo mai dimenticare, neanche per un momento, che questa crisi incide prima di tutto sulle persone comuni, sui nostri vicini, sui nostri giovani. Che, al di là delle cifre, ci sono giovani adulti che non riescono a trovare un lavoro, pensionati che non arrivano a fine mese, donne che rimangono fuori dal mercato del lavoro, famiglie il cui reddito si è costantemente ridotto nel corso degli ultimi anni.
Da decenni l’Europa non aveva visto simili tassi di disoccupazione e la situazione sociale, soprattutto nei Paesi del Sud e dell’Est, si sta ugualmente deteriorando. Parliamo di una vera e propria emergenza: crescente impoverimento, polarizzazione sociale e marginalizzazione, aumento del numero dei disoccupati.
Queste sono le ombre all’orizzonte europeo. Potranno non riguardare tutti i Paesi e le società allo stesso modo, ma il loro impatto sarà certamente grave per tutti.
E la risposta politica a questa drammatica situazione di solito è stata “non ci sono risorse”, “non ci sono possibilità”, “non ci sono alternative”.
E’ davvero questa l’Europa che vogliamo lasciare alle prossime generazioni?
Il progetto europeo è stato immaginato e delineato con obiettivi molto diversi. Negli anni ’50, quando fu avviato il processo di integrazione, la parola d’ordine era “solidarietà”. E la solidarietà era uno dei valori fondanti delle Comunità europee che furono costruite sulle ceneri della guerra per prevenire nuovi conflitti, garantire la cooperazione tra i Paesi che vollero prendere parte a questo impegno e raggiungere un nuovo mix originale tra capitalismo, da un lato, e politiche sociali, dall’altro.
L’espressione “economia sociale di mercato” trasmette quest’idea di compromesso tra l’economia di mercato e la domanda di solidarietà che si realizzò in Europa, in forme diverse, negli anni del dopoguerra.
Oggi, la crisi e le misure di austerità finora introdotte per affrontarla si ripercuotono nel fallimento di questo equilibrio, perché mettono in discussione la stessa fattibilità dei modelli di welfare che si sono sviluppati in tutta Europa negli ultimi sessant’anni. I meccanismi di inclusione sociale e di solidarietà si stanno gradualmente indebolendo e un altro paradigma ideologico sta prevalendo: quello neoliberale.
Il welfare state è oggi sempre più considerato come un lusso che l’Europa non può più permettersi. Il risultato di questa tendenza è l’aumento delle diseguaglianze. Diseguaglianze tra Stati membri, con la conseguente diffusione di risentimenti nazionalistici tra Paesi - Paesi del Nord e Paesi creditori contro Paesi del Sud e Paesi debitori - ma anche diseguaglianze all’interno dei Paesi stessi, nelle loro società.
L’occupazione e gli indicatori sociali segnalano un aumento della divergenza tra Paesi del Sud e periferici da un lato, e Paesi centrali e del Nord dall’altro. Ciò è il risultato delle diverse prestazioni dei rispettivi mercati del lavoro e dei sistemi sociali in reazione alla crisi.
Inoltre, il rischio di povertà è si è aggravato in circa metà degli Stati membri e, secondo uno studio della Commissione, “l’evoluzione del poverty gap, che evidenzia ‘quanto poveri sono i poveri’ (…), indica che la povertà si è generalmente aggravata dall’inizio della crisi, con un aumento dell’indice in quasi tutti i Paesi membri (…)”.
Naturalmente, questi sviluppi si sono prodotti nel contesto di trasformazioni oggettive che stanno avvenendo su scala globale. Pensiamo soltanto alla pressione esercitata sulle economie europee dall’emergere di nuove potenze con costi del lavoro più bassi, che hanno modificato le condizioni della concorrenza globale e determinato una riduzione della competitività dell’Europa, costringendo al contenimento dei salari anche i Paesi europei.
Ma pensiamo anche al tema dei differenti sistemi fiscali connessi ai movimenti di capitale, che hanno imposto il peso fiscale quasi interamente sulle imprese e sull’industria, creando squilibri che hanno inciso sulla distribuzione della ricchezza.
E’ evidente che l’Europa ha mostrato finora una seria incapacità ad affrontare questi fenomeni e garantire una protezione adeguata ai propri cittadini.
Alla fine degli anni ’90 è stato promesso che proprio l’Unione europea e il suo Modello sociale avrebbero costituito la cornice di protezione dei cittadini di fronte alla globalizzazione, consentendo, allo stesso tempo, all’Europa di accedere e vincere la competizione globale. Quella promessa non è stata mantenuta e i partiti europei di centrosinistra sono quelli che, alla fine, stanno pagando il prezzo più alto per quel fallimento, perché era soprattutto da noi che i cittadini si aspettavano la capacità e la volontà di difendere i loro diritti e le conquiste sociali degli ultimi decenni.
Sono convinto che oggi non possiamo pensare di rilanciare il progetto europeo senza rilanciare allo stesso tempo la dimensione sociale dell’Europa, sapendo tuttavia che non usciremo dalla crisi semplicemente tornando alla situazione precedente.
Questo non è possibile.
Negli ultimi vent’anni, una parte del movimento socialista ha aderito al paradigma neoliberista. Un’altra parte, invece, si è illusa che sarebbe stato possibile preservare il tradizionale modello di welfare europeo, non comprendendo che questo non era più sostenibile nelle nuove condizioni determinate dalla competizione globale.
Oggi la questione dello sviluppo di un nuovo sistema di welfare può essere affrontata soltanto al livello europeo, non può essere più demandata a strumenti nazionali.
Dobbiamo dire la verità, chiaramente e senza timori: senza un certo grado di coordinamento tra gli standard di diritti e politiche sociali e senza un’armonizzazione delle politiche fiscali - in particolare per quanto riguarda i redditi da capitale - una zona monetaria comune non potrà durare a lungo.
Quindi, dobbiamo ripensare gli standard di un nuovo welfare europeo, tenendo presente che non sarà possibile ripristinare i sistemi di welfare nazionali così come li abbiamo conosciuti nel Ventesimo secolo.
A questo scopo, sarà necessario riorientare i sistemi di welfare verso la crescita, in modo tale da favorire le giovani generazioni. Una delle più gravi emergenze sociali in Europa è data dal fatto che milioni di giovani sono esclusi dal mercato del lavoro, con tragiche conseguenze psicologiche, sociali e politiche.
Secondo gli ultimi dati, il numero di disoccupati all’interno dell’Unione ha quasi raggiunto (a settembre 2012) la cifra di 25,8 milioni. 2,4 milioni in più che ad aprile 2010. Una tendenza in aumento nella maggior parte dei Paesi membri e, ciò che non dovrebbe sorprendere, che colpisce in particolare proprio i giovani: 22,8% di quelli attivi (tra i 15 e i 24 anni) erano disoccupati nel mese di settembre e il dato sale al 23,3% se si considera la sola area dell’euro.
Per affrontare questo problema e offrire soluzioni praticabili, sarà essenziale concentrarsi sul lavoro, come ho già detto, e sull’economia reale. Questo vuol dire che dovremo ridurre il peso dei redditi da capitale e regolare i mercati finanziari.
Allo stesso tempo, dovremo lanciare una strategia per la crescita che non può e non deve basarsi sulla formula “austerità più riforme strutturali”, che ha ampiamente mostrato i suoi limiti. Ma non ci sarà crescita senza alcune condizioni fondamentali: innanzitutto, la messa in campo di un’ampia strategia europea di investimento; in secondo luogo, un’interpretazione flessibile del Fiscal compact che consenta misure nazionali di investimento, in particolare nei settori dell’innovazione e della ricerca, allo scopo di aumentare la produttività e la competitività dell’Europa; in terzo luogo, una più equa redistribuzione delle risorse per stimolare i consumi interni.
Viviamo in un mondo diverso in confronto a quello di un secolo fa e quelli che dichiarano che la ripresa deve basarsi su austerità ed esportazioni non tengono conto del fatto che, in un mondo in cui tutti i Paesi, dalla Cina, all’India, all’Indonesia, al Brasile, esportano in misura crescente, a meno di non trovare modi nuovi e originali per vendere i nostri prodotti sulla Luna, saremo inevitabilmente costretti a sostenere i nostri mercati interni. E questo lo si potrà fare soltanto aumentando i salari e migliorando le condizioni di vita della classe media.
Dobbiamo innescare un circolo virtuoso, perché, senza una rinnovata capacità di generare ricchezza, semplicemente non avremo ricchezza da redistribuire. Ecco perché, senza un rilancio dell’economia, non potremo sviluppare un welfare davvero europeo.
Come ha scritto il sociologo tedesco Ulrich Beck nel suo libro “Europa tedesca”, “se le persone devono percepire l’Europa come qualcosa di significativo, lo slogan giusto deve essere ‘Più sicurezza sociale con più Europa!’”. Tuttavia, questo welfare non può essere lo stesso per tutti, come è stato in passato, quando l’Europa si trovava in un altro stadio del proprio sviluppo e potevamo permettercelo.
Lasciate che citi ancora Beck: “Il nuovo contratto sociale che mira ad avvicinare gli individui all’Europa deve cercare di avviare un’era socialdemocratica su un piano transnazionale. Nel farlo, deve decidere come delineare un sistema utopistico ma realistico di sicurezza sociale che non sarà destinato a finire in nessuno dei seguenti vicoli ciechi: nella nostalgia per il welfare state nazionale o nell’arrendevolezza riformista al neoliberismo”.
In futuro, i sistemi di welfare europei potranno contare su risorse ridotte rispetto al passato, quindi dovranno orientarsi verso quei gruppi sociali che sono esclusi o che rischiano l’esclusione e la povertà.
Per raggiungere tale obiettivo abbiamo bisogno di una forte solidarietà europea. La competizione tra idee progressiste e conservatrici deve esistere - su questo non c’è dubbio - ma dobbiamo evitare che degeneri in forme di reciproche incomprensioni nazionalistiche. Fenomeni che il nostro continente ha tragicamente conosciuto in passato e che ci siamo lasciati alle spalle quando abbiamo intrapreso il processo di integrazione.
Da questo punto di vista, quello che ha detto di recente il presidente Hollande è giusto: un rapporto speciale tra Francia e Italia contro la Germania non avrebbe senso. Ogni sentimento antitedesco sarebbe sbagliato e danneggerebbe il progetto europeo. Apprezzo anche le posizioni prese da Hollande riguardo alla prospettiva di un’accelerazione nel processo di integrazione politica.
Sono fermamente convinto che un’Europa federale, basata sul principio di sussidiarietà - quindi non un “super-Stato”, ma una forte unione politica - sia essenziale se vogliamo ottenere una vera svolta e muoverci in direzione di maggiore solidarietà e sviluppo.
Spetta a noi socialisti essere alla testa di questa unione politica. Non possiamo lasciare l’iniziativa nelle mani della signora Merkel. Da quella posizione sarà più facile criticarne le politiche, perché sono esattamente quelle che stanno rallentando lo sviluppo e la crescita dell’Europa e finiranno per danneggiare la stessa industria tedesca e i suoi lavoratori.
Citando un’altra volta Beck, quello che ci piacerebbe è una Germania europea, non un’Europa tedesca.
Questo è esattamente lo stesso spirito che ha ispirato il bellissimo discorso pronunciato da Helmut Schmidt al Congresso della SPD il 4 dicembre 2011. Un discorso che la Fondazione per gli studi progressisti europei (FEPS) ha deciso di pubblicare in sedici lingue dell’Unione per renderlo accessibile a tutti in Europa.
In quel discorso, Helmut Schmidt ha difeso con forza la democrazia europea, sottolineando che “migliaia di trader finanziari negli USA e in Europa, oltre a un numero di agenzie di rating, sono riusciti a trarre in ostaggio i governi europei”. Ma, soprattutto, Schmidt ha evidenziato quale deve essere il livello della responsabilità tedesca nella difesa dell’unità dell’Europa e l’importanza del principio di solidarietà. “Noi tedeschi –ha detto- abbiamo ogni ragione per essere grati. Allo stesso tempo, abbiamo il dovere di mostrarci meritevoli della solidarietà che abbiamo ricevuto, esercitandola noi stessi con i nostri vicini”.
E’ evidente che la Germania gioca e continuerà a giocare in futuro un ruolo centrale nell’Unione europea. Attualmente, nella UE, le dinamiche di politica interna di uno Stato hanno sempre un impatto sui suoi vicini. Ciò è ancora più vero per la Germania. Quindi non possiamo che guardare con interesse e partecipazione al confronto politico che sta avendo luogo qui e alla campagna della SPD e del suo candidato, Peer Steinbück.
Per questa ragione, ho ritenuto che fosse estremamente importante decidere di dedicare all’Europa questa giornata di studio alla vigilia delle celebrazioni per il 150mo anniversario del Partito socialdemocratico tedesco. Una lunga storia, della quale dovete essere molto orgogliosi e che rappresenta un patrimonio per tutti i progressisti e i socialisti d’Europa.
Prima di concludere questo interessante seminario, lasciate che aggiunga alcune parole sulla nostra prossima sfida. Ci stiamo rapidamente avvicinando alle elezioni europee del 2014. Questo è il momento di dimostrare, con l’elaborazione di un programma progressista comune, che ci candidiamo al governo dell’Europa, allo scopo di rendere l’Unione più democratica e in grado di garantire più sicurezza e opportunità a tutti i cittadini europei.