Cari amici, cari compagni,
è molto importante trovarci oggi qui a discutere su un tema così cruciale per il futuro dell’Europa e dei progressisti, che, come ormai tutti noi ben sappiamo, devono necessariamente spingere con forza e convinzione per un’Europa forte, unita, che abbia ancora voce in capitolo sullo scenario internazionale.
Per darvi un’idea di cosa rischiamo, se non saremo abbastanza ambiziosi al livello europeo, vi citerò alcuni dati abbastanza impressionanti sull’evoluzione del nostro posto nel mondo: secondo un rapporto della Commissione europea, se all’inizio del Ventesimo secolo la ricchezza prodotta in Europa rappresentava il 40% del PIL mondiale, oggi non va al di là del 25%. Quota che continuerà a diminuire, per attestarsi attorno al 15-17% nel 2050. Altro dato allarmante: secondo Pricewaterhouse&Coopers, se nel 2011 tra le prime dieci economie mondiali figuravano ancora quattro Paesi europei (Germania, Francia, Italia e Regno Unito), nel 2030 ve ne saranno soltanto tre e, nel 2050, non rimarranno che Germania e Francia, le quali, per di più, occuperanno gli ultimi posti della classifica. Niente di cui rallegrarsi neanche per loro, visto che, già in fondo, questi Paesi saranno necessariamente destinati ad avere un ruolo sempre più marginale.
Allo stesso tempo, la popolazione del nostro continente oggi rappresenta un mero 7,3% della popolazione mondiale (lo stesso dato era del 19% nel 1960) e non cesserà di diminuire (arrivando a rappresentare il 5,7% nel 2060), mentre, da qui al 2050, il 95% dell’aumento demografico sarà dovuto ai Paesi in via di sviluppo (in particolare l’Africa). Ma il dato più preoccupante riguarda l’invecchiamento della nostra popolazione. Cito soltanto un numero che mi pare riassumere efficacemente il dibattito attuale sul peso che grava e graverà sempre più sulle generazioni future, già messe a dura prova dalla crisi: nel 2050, in Europa, a sostenere il peso economico di ogni persona oltre i 65 anni ve ne saranno soltanto due in età attiva (attualmente sono quattro), mentre la media mondiale è oggi di circa dieci e scenderà a tre nel 2060.
Ecco la portata delle sfide che abbiamo di fronte. Ecco fino a che punto il peso dell’Europa nel mondo sarà drasticamente ridimensionato.
Una simile prospettiva di declino può alimentare sentimenti antidemocratici, populistici, nazionalistici, localisti. Oppure può diventare una motivazione, una leva, una spinta per reagire nell’unico modo serio, utile e democratico: nel senso, cioè, della presa di coscienza della necessità di una radicale svolta politica. Mi riferisco all’unità politica dell’Europa.
C’è, infatti, solo un modo di reagire a questa deriva: immaginare cosa potrebbe essere l’Europa unita. L’Europa unita potrebbe continuare a rappresentare una grande potenza. Per riprendere la classifica in termini di PIL che ho appena citato, un’Europa unita potrebbe occupare ancora uno dei primi posti a livello mondiale, accanto a potenze come la Cina, gli Stati Uniti, l’India, e, quindi, esercitare ancora la propria influenza sulla scena globale.
Invece, è evidente che un’Europa divisa cesserebbe di svolgere un proprio ruolo nel mondo.
Lasciatemi sottolineare che non si tratta soltanto di una questione di orgoglio: è importante anche dal punto di vista della protezione dei nostri valori, del senso di quella che è stata la civiltà europea: la forma più avanzata di sintesi di valori democratici e di inclusione sociale.
Certo, è vero che l’Europa è composta da una pluralità di civiltà, di storie e di culture, ma è anche vero che vi è un patrimonio comune – anche se, magari, non un vero e proprio demos europeo –. Un patrimonio che deve essere preservato, perché rappresenta un grande valore in termini di conquiste storiche.
In questa originale sintesi tra valori liberali e di giustizia sociale, peraltro, c’è stata anche un’impronta fondamentale della tradizione della sinistra, ragione in più per noi progressisti per volerla difendere.
E promuovere l’unità politica dell’Europa è l’unico modo per preservare questo patrimonio così prezioso, altrimenti destinato inesorabilmente a disperdersi.
Ma cosa significa tutto ciò?
Oggi assistiamo a una separazione netta tra Politica e politiche. La prima è ancora fondamentalmente vissuta a livello nazionale: è a livello nazionale che si trovano ancora i grandi conflitti politici, che continua a vivere il confronto tra idee, valori, tra destra e sinistra e così via.
Quando poi si arriva a Bruxelles, però, tutto sembra scomparire, a vantaggio di una visione meramente “tecnica”: a Bruxelles valgono i criteri, le compatibilità, i vincoli. Come se si trattasse di scelte neutre e non, in realtà, di scelte che presuppongono una certa visione politica.
Insomma, l’Europa ha vissuto nell’illusione che questi criteri, questi obblighi, severamente presidiati dalla tecnocrazia, potessero sostituirsi alla politica. Ma la politica è tutta un’altra cosa: la politica è capacità di capire i problemi della società, di agire per risolverli, adattandosi con flessibilità alle nuove sfide che emergono e, ciò che rappresenta il cuore stesso della democrazia, rispondendo dei propri atti di fronte ai cittadini. E’ chiaro che tutto ciò non può funzionare con una serie di vincoli rigidi e apparentemente neutri e che il cosiddetto “governo delle regole” non è che un’utopia, oltretutto pericolosa.
Inoltre, la scelta dell’austerità, la scelta secondo cui la missione fondamentale della BCE è quella della lotta all’inflazione e della stabilità monetaria e non, ad esempio, il sostegno alla crescita economica, non sono affatto scelte neutrali: sono scelte perfettamente politiche, imposte dall’egemonia culturale neoliberale, che ha dato una propria impronta alla costruzione europea negli ultimi decenni. E’ importante sottolineare il dato temporale, perché all’inizio questo processo storico era stato invece segnato da valori di solidarietà, di pace, di uguaglianza. Cioè dai nostri valori, dai valori della sinistra.
E’ quindi lecito domandarsi perché la costruzione europea recente sia avvenuta sotto l’impronta neoliberale e conservatrice. La ragione è semplice: noi non siamo stati capaci di diventare la forza trainante dell’unione politica dell’Europa, abbiamo lasciato questo ruolo ad altri, che hanno avuto gioco facile a imprimere la loro direzione all’integrazione europea. E mi dolgo del fatto che non abbiamo saputo cogliere l’opportunità di trasformare l’Europa nella seconda metà degli anni Novanta, quando eravamo in maggioranza al Consiglio.
Dobbiamo ammettere il nostro errore, dobbiamo invertire l’impianto neoliberista, la gente lo reclama con forza. L’unione politica dell’Europa deve costituire il punto fondamentale su cui si misurerà la nuova generazione, la futura classe dirigente progressista.
Siamo noi che dobbiamo costruire un’Europa unita, nel segno di un inedito, originale federalismo europeo, perché altrimenti neanche quello che sosteniamo sul piano economico e sociale sarà realizzabile. Non ci sarà alcuna strategia di sviluppo possibile senza misure come l’armonizzazione delle politiche sociali, il superamento della concorrenza fiscale, un grande piano europeo di investimenti per rilanciare la crescita.
Certo, è vero che il dibattito sulle istituzioni appare come un dibattito astratto, che i cittadini vogliono un’Europa capace di deliver, che c’è urgente bisogno di risposte ai problemi della disoccupazione, dell’aumento delle diseguaglianze. Ma almeno noi che ci occupiamo di politica dobbiamo sapere che c’è un nesso inscindibile tra gli obiettivi che ci poniamo dal punto di vista delle politiche e un pur progressivo e graduale cambiamento dell’impianto istituzionale dell’Unione, che metta l’Europa in grado di incidere concretamente sulle grandi sfide che abbiamo di fronte.
Spetta a noi progressisti di assumerci la responsabilità forte dell’unità politica dell’Europa.
A questo proposito, ho molto apprezzato l’intervento recente di Hollande sulla necessità di una simile prospettiva: un contributo che rappresenta indubbiamente un grande passo in avanti dal punto di vista della Francia.
Ora voglio essere chiaro: non c’è più tempo da perdere, bisogna agire rapidamente. Già dal prossimo Consiglio europeo ci attendiamo misure concrete per l’occupazione giovanile, che abbiano un impatto reale sulla situazione attuale, sempre più allarmante.
Da italiano, personalmente non ho mai guardato con ostilità al ruolo trainante esercitato da Francia e Germania in Europa. Tuttavia, devo constatare che la cosiddetta “locomotiva” franco-tedesca funziona bene soltanto quando si fa promotrice del processo di costruzione europea. Al contrario, ogniqualvolta si è concentrata sui rispettivi interessi nazionali dei due Paesi, essa ha prodotto uno stallo politico e un rallentamento dell’integrazione europea.
Quindi, la mia speranza è che una Francia di nuovo convintamente europeista come quella di Hollande da un lato, e, dall’altro, una Germania finalmente libera dall’ossessione per l’austerità e i vincoli di bilancio, che si renda conto che la crisi economica europea finisce per danneggiare il suo stesso sistema industriale, possano dare nuovo slancio a tutta l’Unione.
Insomma, abbiamo bisogno di un rilancio deciso dell’iniziativa franco-tedesca, che mantenga, sì, una certa disciplina e dei controlli, che rimangono necessari, ma che punti anche e soprattutto su una forte strategia di crescita. Altrimenti, il nostro destino è già segnato.
Grazie.