Oggi c’è un problema singolare: la compresenza di una crisi dei partiti e di una loro necessità. In realtà dobbiamo capire che il fenomeno non riguarda esclusivamente l’Italia, ma si tratta di una crisi generalizzata a livello europeo. Infatti, nella parte emergente del mondo, penso a Paesi come India e Brasile, i partiti continuano ad avere un ruolo centrale: non si mette in discussione la loro egemonia, anche perché guidano una crescita economica in tumultuoso sviluppo.
Ma parliamo più specificatamente dell’Italia, dove la questione riguarda il rapporto tra personalizzazione della leadership, che è necessaria, ed esistenza di una classe dirigente in grado di fare da contrappeso. Negli Stati Uniti c’è Barack Obama, ma c’è anche John Kerry. Insomma, è la figura di un presidente molto forte, affiancato da una altrettanto forte classe dirigente.
Nell’Unione europea i partiti si sono difesi e rinnovati e si vive un generale consenso dei cittadini nei confronti dello Stato democratico. In Italia, viceversa, i partiti sono stati travolti anche per la fragilità dello Stato democratico, che ha radici antiche nella storia del nostro Paese.
In Germania il sistema politico è forte, autorevole e legittimato. Pensiamo alla Fondazione che fa riferimento alla SPD, la Friedrich-Ebert Stiftung. Bene, essa ha 90 sedi nel mondo, pagate dallo Stato, e riceve risorse come tutto il finanziamento pubblico ai partiti italiani. La forza del sistema politico tedesco è uno degli asset di quel Paese nel mondo. Ci sono altri esempi, come quello francese. In questo quadro, noi siamo l’anello debole della catena.
In Italia il rischio è che venga meno il carattere “anfibio” del partito, che deve avere necessariamente la testa nello Stato e il corpo nella società, con la quale adesso stiamo perdendo il contatto. E dobbiamo sapere che, senza rappresentanza dei partiti, pezzi di società perdono voce e crescono le diseguaglianze a favore di quei ceti e poteri ricchi, in grado di autorappresentarsi.
Quali sono le condizioni affinché i partiti possano tornare a esercitare il loro ruolo? Io ne ho individuate quattro.
1. Non può esserci rinascita del ruolo dei partiti se non in una visione europea e transnazionale. In questo senso, a mio parere, vi è il nodo della collocazione del PD. Oggi la politica, che rappresenta la libertà di scegliere tra opzioni diverse, si dipana in una dimensione che non è più esclusivamente nazionale. Anzi. Se i partiti vogliono continuare a esercitare un ruolo, non possono ridursi a fare “i compiti a casa” dettati da Bruxelles. Il cittadino americano sa per chi votare: per i democratici se vuole un sistema di protezione sociale, per i repubblicani se vuole la riduzione delle tasse per i ceti abbienti. Il cittadino europeo per chi vota, vota: in ogni caso, si vedrà tagliare il welfare. Non ci sono alternative. Dunque, è necessario politicizzare la dimensione europea in una prospettiva in cui l’Europa torni a essere un luogo di confronto tra visioni contrapposte: destra/sinistra, conservatori/progressisti e così via. D’altra parte, sappiamo bene che trattati e politiche non sono neutrali, come invece vengono presentati. Se ciò non dovesse accadere, il mio timore è che nell’opinione pubblica europea il conflitto passi sul piano nazionalistico, con espressioni come l’ostilità verso la Germania o verso i Paesi “spendaccioni”. Tecnocrazia e populismo sono due facce della crisi della democrazia europea.
2. Dobbiamo invertire la tendenza secondo la quale si esce dalla crisi dei partiti con la deideologizzazione, in sostanza sbiadendo i tratti identitari della nostra forza politica. I partiti riacquistano un senso, infatti, attorno a opzioni forti. Guardiamo alla destra: religione, terra, sangue nelle espressioni più estreme, ma anche tratti identitari marcati nella destra neoliberista. Noi siamo stati afoni e il recupero di valori forti oggi deve avvenire nel conflitto tra economia reale e un dominio del capitalismo finanziario globale che è soffocante. Il nuovo nucleo di questi valori forti, che dobbiamo rilanciare, deve guardare alle contraddizioni del mondo di oggi e partire dalla lotta alle diseguaglianze e da un nuovo umanesimo democratico. E’ chiaro che i partiti non possono più avere la pretesa del monopolio della rappresentanza. Sarebbe una pretesa sciocca. Il problema non sta nel monopolio dei partiti, ma nell’evitare la loro subalternità, promuovendo anche un nuovo processo di selezione della classe dirigente e strumenti propri di analisi della società.
3. Ricostruire la forma organizzativa in forme molteplici. Il partito è un organismo che deve offrire diversi tipi di organizzazione, dal web ai circoli, ai gazebo. Ma io pongo anche una domanda che riguarda i vari livelli di partecipazione: chi si iscrive al partito e pratica una forma di militanza dovrà avere maggiori diritti rispetto a chi va a votare alle primarie? Un grande partito moderno, che aspira a governare, può non avere presenze organizzate nelle varie articolazioni della società? Può non avere un dialogo strutturato e costante con il mondo del lavoro, dall’operaio al piccolo imprenditore? Con chi il lavoro non lo ha più o lo ha precario? E’ ovvio che, in questo quadro, la rete è uno strumento fondamentale e complementare per un dialogo tra la leadership e le diverse realtà del Paese.
4. Io sono un convinto assertore della personalizzazione della leadership, che, d’altro canto, non significa affatto partito personale: questo il PD non potrà mai esserlo. Se è chiaro - ripeto - che noi non saremo mai un partito personale, è chiaro anche che abbiamo bisogno di leadership forti che siano controbilanciate dall’esistenza di una forte classe dirigente. Il leader del centrosinistra potrebbe essere il segretario del PD, ma potrebbe anche non esserlo. In questo senso, invito a riflettere sul fatto che il centrosinistra sarà inevitabilmente una coalizione. Io auspico un segretario che abbia forza e si occupi della ri-costruzione del partito, impegnandosi per una leadership forte, riconosciuta per quando ce ne sarà bisogno per vincere le elezioni. Le due cose possono coincidere, ma non è obbligatorio, come ha osservato oggi anche Epifani. Il tema del congresso non può essere la ricerca di un leader futuro, in grado di vincere le elezioni nell’anno in cui verranno. Sarebbe oltretutto assurdo e autolesionistico che il partito che esprime oggi il presidente del Consiglio dedicasse un intero congresso a come sostituirlo, anziché occuparsi dei problemi del Paese.