Cari amici,
voglio ringraziarvi per la vostra partecipazione alla discussione di oggi. E’ stato un dibattito di alto livello, dal quale sono emerse important analisi, idee e proposte.
Non pretendo di offrire risposte alle tante questioni che sono state poste qui oggi. Del resto, la ricerca su questi temi è ancora in corso.
In particolare, vorrei segnalare che il risultato più importante del nostro lavoro, non solo di questi due giorni ma degli ultimi due anni, è che, grazie anche al vostro prezioso contributo, abbiamo dimostrato che esiste un’alternativa all’austerità.
Sembra facile, ma non lo è. Per gli stessi socialisti è stato difficile affermarlo, per molti anni. Eppure c’è una valida alternativa all’austerità, e dimostrandolo in modo chiaro potremmo cambiare non solo lo scenario politico europeo, ma anche quello culturale.
Lasciatemi ora riprendere alcuni punti emersi durante la discussione.
Vorrei iniziare dai segni di ripresa nell’eurozona. La ripresa, infatti, sarà al centro della campagna elettorale dei conservatori l’anno prossimo. Diranno che la crisi è finita grazie alle misure di austerità, il che è falso. Certamente vi sono indizi di un miglioramento, ma con dei limiti.
Alcuni Paesi vulnerabili hanno avuto ottime performance in termini di esportazioni, segno di una maggiore competitività, e abbiamo visto un rafforzamento della domanda interna nei Paesi più forti. In generale, sembra che la recessione stia ora lasciando il passo a una modesta ripresa.
La crescita è relativamente vitale in Germania, più modesta in Francia, meglio delle attese nel Regno Unito. Purtroppo in Italia è ancora negativa, ma si prevede che l’anno prossimo il segno volga, seppur moderatamente, in positivo.
Forse stiamo iniziando a vedere la luce in fondo a un lungo tunnel. Eppure, non è tempo di adagiarsi sugli allori e procrastinare decisioni vitali.
La questione è: è abbastanza? Sarà una crescita sostenibile e duratura? Sarà sufficiente a creare lavoro?
La ripresa, infatti, è ancora debole, piena di rischi, ed è diseguale, asimmetrica e sbilanciata, finora senza alcun impatto rilevante sull’occupazione, e le previsioni non annunciano miglioramenti almeno per altri due anni.
Penso che questa fragilità sia legata al fatto che si tratta di una ripresa trainata principalmente dalle esportazioni, il che potrebbe avere l’effetto di rendere gli squilibri tra Paesi europei ancora più profondi di quanto non siano attualmente.
Non è certo mia intenzione sottovalutare l’importanza della competitività tra Stati, dalla quale, tra l’altro, anche la stessa Italia ha tratto alcuni vantaggi (guardiamo, ad esempio, al settore manifatturiero). Tuttavia, non possiamo pensare che i Paesi europei possano fondare la ripresa economica soltanto sulle esportazioni. Ogni Paese al mondo desidera esportare i propri prodotti, ma vi sono anche dei limiti alla ricerca di nuovi mercati: non siamo ancora capaci di esportare sulla Luna…
Pertanto, è assolutamente indispensabile promuovere una strategia che si regga anche su altri pilastri.
Inoltre, vi sono limiti alla nostra ripresa che sono strettamente legati alle peculiarità della struttura dell’Europa. Lo scorso anno, la performance economica dell’eurozona è stata decisamente inferiore a quella di altre economie avanzate che pure sono state colpite dalla crisi. Ad esempio, il divario tra la crescita dell’eurozona e quella degli Stati Uniti è impressionante. Ora sappiamo che i fattori che hanno ulteriormente minato la ripresa risiedono principalmente nei difetti dell’architettura dell’Unione monetaria europea.
La mancanza di una vera unione bancaria e di un adeguato sistema di regole per le banche e gli altri istituti finanziari e la mancanza di coordinamento nelle risposte nazionali alle difficoltà delle banche hanno causato una pericolosa frammentazione del mercato unico finanziario, facendo lievitare i costi di finanziamento in alcuni Stati membri e innescando una spirale negativa, che ha messo a repentaglio la stessa esistenza della moneta comune europea.
Ma c’è di più, perché il problema principale nella struttura dell’Unione monetaria è la sua debolezza politica, l’illusione che un mercato unico e una moneta unica potessero sopravvivere senza una forte autorità politica, che è stata rimpiazzata da un lato dalla Banca centrale europea – con il suo fondamentale obiettivo: quello di preservare la stabilità monetaria – e dall’altro da un sistema di regole e vincoli.
Questa illusione, questa ideologia del “governo dei vincoli e delle regole”, l’inflessibilità di queste regole, la mancanza di visione di questi vincoli, l’impossibilità di adottare strategie anticicliche, insomma, l’assenza della politica, si sono dimostrati disastrosi. La politica, infatti, ha l’enorme vantaggio di essere flessibile rispetto a regole e vincoli rigidi e prefissati.
Ecco il peccato originale. Ecco perché la crisi dell’euro non è solo una crisi economica, ma anche una profonda crisi politica.
Le mancanze nell’assetto istituzionale dell’Unione sono state un ostacolo per il progresso e la solidarietà nel nostro continente. Non possiamo negare che i vari trattati e patti stipulati si siano concentrati eccessivamente sul ruolo del coordinamento e sui criteri monetari, senza alcun riferimento alle regole di solidarietà e agli standard sociali. La solidarietà, invece, dovrebbe diventare un’importante componente delle fondamenta istituzionali dell’UEM.
Vorrei essere chiaro: il fatto che chiediamo più solidarietà in Europa non vuol dire che siamo contrari alla responsabilità fiscale. Direi piuttosto il contrario. Tuttavia, concentrarsi esclusivamente sulla questione del debito pubblico dei Paesi dell’Europa meridionale come la radice di tutti i mali è stato un errore. Avremmo dovuto, invece, focalizzarci sul fatto che l’eurozona è caratterizzata da profondi squilibri macroeconomici, che la rendono debole e difficile da gestire, e che non possono essere risolti con una politica fiscale di tipo “one size fits all”.
In circostanze simili, correggere questi squilibri è importante quanto pretendere responsabilità fiscale e politiche volte a creare lavoro e crescita.
In altri termini, abbiamo bisogno di una strategia più ampia di quella portata avanti finora, il che richiede necessariamente un’inversione delle nostre priorità.
Innanzitutto, sarà essenziale introdurre politiche a sostegno di investimenti e occupazione. Qui lo Stato gioca un ruolo fondamentale. In secondo luogo, occorre una correzione del sistema finanziario e la creazione dell’unione bancaria. E, da ultimo, il consolidamento fiscale.
La crescita deve essere rafforzata, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. E’ certamente necessario investire in capitale fisico, ma anche in capitale intangibile (ossia in conoscenza) e in capitale umano (ossia in istruzione).
Dovremmo promuovere l’istituzione di una sorta di “area di ricerca europea” e incoraggiare la competitività, in particolare nel settore dei servizi.
Il Mercato unico europeo è ancora largamente incompleto e il suo completamento potrebbe offrire nuove prospettive e potenzialità.
Innovazione e crescita verde, non solo nel settore energetico, migliorerebbero la nostra qualità della vita, oltre a creare opportunità significative di crescita.
L’occupazione aumenterà se la domanda sarà abbastanza forte, ma anche se vi saranno maggiori incentivi ad assumere. Ciò richiede politiche fiscali orientate alla creazione di lavoro e politiche attive per l’impiego dei giovani.
Le riforme nel campo del lavoro sono costose. Tuttavia, sono convinto che dovrebbero costituire la priorità nei bilanci nazionali.
Si potrebbe adottare una “golden rule dell’occupazione”, che preveda lo scomputo della spesa per l’occupazione dal calcolo del deficit, allo scopo di rispettare i criteri di Maastricht.
Per quanto riguarda, invece, la questione della correzione del sistema finanziario, vorrei sottolineare il fatto che finché il sistema – mi riferisco, in particolare, alle banche – non sarà nuovamente messo in condizione di fornire credito all’economia reale, né la politica monetaria (anche espansiva), né la politica fiscale, né le riforme strutturali saranno in grado di avere effetti significativi sulla crescita e l’occupazione.
Le politiche fiscali, inoltre, non dovrebbero essere soltanto uno strumento per ottenere un bilancio in equilibrio e non dovrebbero basarsi su un approccio “one size fits all”. Invece, dovrebbero essere utilizzate come politiche anticicliche.
Quindi, è necessario un maggiore coordinamento tra l’Unione monetaria e le politiche fiscali nazionali e un più ampio budget per la UE, come è stato sottolineato nel corso del nostro dibattito.
L’introduzione degli Eurobonds potrebbe contribuire a ridurre i debiti nazionali e a creare un debito europeo. Ciò potrebbe rappresentare anche passo estremamente importante verso l’istituzione di una vera e propria unione politica.
Infine, bisognerebbe individuare delle forme di sostegno al debito per i Paesi europei pesantemente indebitati.
Dobbiamo riconoscere che siamo strettamente interconnessi tra noi e che, se vogliamo essere competitivi, non possiamo introdurre riforme esclusivamente nei Paesi in deficit. Piuttosto, dobbiamo attuare politiche macroeconomiche e strutturali volte ad aumentare la domanda interna.
Dobbiamo promuovere una crescita che non sia trainata esclusivamente dai salari, di cui pure condivido la necessità, ma penso che abbiamo bisogno di andare oltre: la crescita deve essere sostenuta dagli investimenti, in particolare in innovazione.
Inoltre, dobbiamo certamente aumentare il potere d’acquisto delle famiglie. Ciò significa agire sulle politiche salariali, ma anche sulla lotta alla povertà e sul welfare.
Vorrei anche sottolineare che l’aumento della domanda interna è ancora più importante nei Paesi in surplus, come la Germania.
Accanto a queste misure, sarà necessario stimolare lo sviluppo industriale. Gli investimenti produttivi in Europa, infatti, sono sostanzialmente fermi dalla metà degli anni Novanta. Anche questo è un campo in cui lo Stato gioca un ruolo centrale.
Vorrei ora apprestarmi a concludere. Nel corso del dibattito di oggi ci è stata posta una domanda cruciale, che per noi rappresenta una sfida: perché le tendenze elettorali in Europa premiano i conservatori alle spese dei progressisti, a maggior ragione nel mezzo di una crisi economica e sociale?
A mio parere, anzitutto, è una tendenza che sta cambiando, rispetto ad alcuni anni fa. Dopo la sconfitta del Labour in Inghilterra e dei socialisti in Spagna, infatti, il Cancelliere austriaco era rimasto l’unico socialista all’interno del Consiglio europeo. Ora sono in dodici.
Tuttavia è vero: è difficile sconfiggere la destra. E non sto parlando solo dei partiti conservatori tradizionali, ma anche delle destre nazionaliste e populiste, attive in tutti i Paesi europei.
Penso che la chiave per comprendere questo fenomeno è la seguente: se l’approccio alla crisi rimane nazionale, se ci rinchiudiamo nei nostri rispettivi confini, la destra sarà sempre più forte di noi. Essa prevarrà anche perché è maggiormente in grado di creare un senso di diffidenza nei Paesi nordici verso quelli del Sud dell’Europa da un lato, e risentimento nei Paesi meridionali verso quelli nordici dall’altro.
L’unico modo per i Progressisti di invertire questa tendenza è di elaborare un forte e solido programma comune, una visione comune. Soltanto in questo modo i nostri valori e i nostri obiettivi, dalla giustizia sociale alle politiche per il lavoro, raggiungeranno una dimensione realistica.
La fragilità dei partiti socialisti europei, in particolare quando eravamo al governo, è sempre stata quella di provare ad attuare progetti deboli, che ci rendevano ostaggi di regole imposte da schemi nazionali e da burocrazie neoliberiste europee.
Prima di salutarci, vorrei aggiungere che alla FEPS, assieme ai nostri partner, come l’ECLM e il CDPR, abbiamo preparato una ricerca che dimostra che, come ricordavo all’inizio di questo mio intervento, un’alternativa è possibile. Un modello economico progressista non è solo desiderabile, ma è anche fattibile. Quello che ci è mancato finora è il coraggio e la volontà politica per metterlo in pratica.
Sta a noi Progressisti farlo insieme, preparando con coerenza le prossime elezioni europee.
Perché, siamo onesti: siamo molto forti nel parlare e prendere posizione, ma deboli nell’azione di governo. E’ tempo di agire con decisione, è tempo di lavorare per cambiare le politiche europee per un’Europa più democratica, un’Europa in grado di offrire lavoro, di offrire speranza, di offrire un futuro migliore ai giovani: l’Europa che vogliamo, l’Europa per la quale lavoriamo.
Grazie.