«Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del “nazionalismo” del “bastare a sé stessi”». Chi scrive è Antonio Gramsci (Quaderno 17), la data è il 1933; lo scenario in cui si colloca il pensiero di Gramsci è quello delle grandi trasformazioni seguite alla crisi del 1929-30. Al centro della sua riflessione c’è la forza espansiva mondiale del modello americano del capitalismo moderno. Non si parla ancora di globalizzazione ma l’intuizione di una crisi possibile della sovranità nazionale, e con ciò delle forme democratiche formatesi negli Stati moderni, appare di una preveggenza illuminante.
Per Gramsci il legame con l’URSS e l’internazionalismo comunista rappresentava allora – pur con tutti gli aspetti problematici che pure seppe vedere – l’unica forma possibile di “cosmopolitismo” della politica. Cioè di un progetto che andasse oltre la chiusura ristretta nel nazionalismo che segnò in senso regressivo l’esperienza del fascismo italiano. Non è un caso che la critica di Gramsci al gruppo dirigente sovietico nel 1926 cogliesse proprio il rischio di un ripiegamento “russo” nella vicenda politica del comunismo internazionale e il possibile appannamento della capacità dei protagonisti della Rivoluzione del 1917 di proporsi come punto di riferimento di un movimento mondiale.
Oggi viviamo il tempo della globalizzazione e i processi di cui Antonio Gramsci aveva intuito la portata hanno ormai dispiegato la loro potenza ben oltre l’egemonia del fordismo e del modello americano. Nel tempo del capitalismo finanziario globale la crisi democratica legata alla perdita di sovranità degli Stati sembra essere giunta a un punto al limite di rottura.
Non è un caso che l’Europa sia l’epicentro di questa crisi. Anzitutto perché nel nostro continente l’esperienza democratica degli Stati nazionali ha toccato il suo punto più alto, producendo una sintesi felice fra diritti di libertà individuale e diritti alla inclusione sociale, tra partecipazione democratica e solidarietà. Non deve stupire, quindi, che in questa parte del mondo che ha goduto, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, del beneficio di una lunga stagione di democrazia e di benessere si avverta oggi più acuto il senso di una crisi profonda e senza prospettive. Anzitutto perché sembra essere caduta la forza della politica, la sua capacità di incidere sui processi reali, di garantire diritti e opportunità, di promuovere percorsi di emancipazione personale e collettiva.
Eppure l’Europa ha rappresentato e rappresenterebbe ancora il tentativo più ambizioso di costruire una unione politica in grado di dare una risposta democratica alla crisi della sovranità degli Stati; in grado cioè di produrre (per riprendere un’espressione gramsciana) l’esperimento più avanzato di “cosmopolitismo della politica” che sino ad oggi sia stato tentato nella storia umana. Tuttavia, questo esperimento appare ora in crisi. La ragione di fondo di questa difficoltà non è di natura economica, ma risiede nella debolezza politica della costruzione europea. Le difficoltà economiche ne sono una conseguenza. Ha pesato certamente, a partire dal 1989, la progressiva prevalenza di posizioni politiche conservatrici in una opinione pubblica europea spaventata dagli effetti della globalizzazione e che sotto l’incalzare della politica della paura ha preferito cercare rifugio nelle posizioni tradizionali e nelle certezze che – peraltro con scarso fondamento – le destre europee offrivano. Il prevalere della destra ha favorito risorgenti nazionalismi che hanno indebolito il progetto europeo. Ma soprattutto a livello dell’Unione ha visto l’affermarsi di un pensiero neoliberista che ha predicato il primato dell’economia sulla politica, che si è messo al servizio della finanza a detrimento del lavoro e dell’economia reale.
Ma l’indebolimento politico dell’Unione è stato anche legato a due eventi cruciali che hanno segnato la storia europea negli anni Novanta e sui quali pesa anche una responsabilità delle forze di sinistra e socialiste. Non si tratta di due eventi in sé negativi, ma di avvenimenti che non possono che essere rappresentati come due straordinari successi dell’Europa: l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centrale e orientale finalmente liberi dal giogo sovietico e la nascita dell’euro. Due grandi successi. Potenzialmente uno straordinario avanzamento del processo europeo, ma, paradossalmente, l’inizio di una crisi. Perché è apparso evidente che non vi è stato il coraggio di un salto di qualità sul terreno dell’integrazione politica, della democrazia, della trasparenza, della efficacia dei meccanismi di governo. Un’Europa allargata senza voto a maggioranza, senza una Commissione ristretta e autorevole, senza quel comune sentire che nasceva dalla storia dell’Europa a 15, si è trovata esposta a veti e condizionamenti che l’hanno fatta diventare sempre di più debole e divisa, spesso sostanzialmente ingovernabile. Basta pensare alla guerra in Iraq e alla frattura che ha spezzato l’UE determinandone la sostanziale impotenza. Così come la moneta unica ha messo in evidenza che senza un coordinamento effettivo delle politiche economiche di sviluppo, senza un’armonizzazione delle regole fiscali e sociali, senza un significativo bilancio federale dell’Unione, anziché essere l’euro il fondamento di una più forte integrazione, esso ha finito per accentuare gli squilibri e le diseguaglianze fra aree con diversi livelli di produttività e di competitività. Insomma, una vendetta della storia: perché nella storia sono gli Stati – cioè la politica – che hanno battuto moneta e non sono le monete che hanno creato gli Stati.
Ma nell’Unione europea di questi anni la politica è mancata. Ci si è illusi che la si potesse sostituire con un “governo delle regole” (percentuali, criteri, sanzioni). Ma le regole, come disse Romano Prodi, sono stupide se non c’è la flessibilità e la libertà di una guida politica autonoma e legittimata in grado di applicarle con intelligenza. Non è un caso che il governo delle regole e il dogma della stabilità monetaria siano sfociati nel dominio di quella ideologia dell’austerità che appare, oggi, un ostacolo alla ripresa economica e dell’occupazione. Ma, soprattutto, in questo modo si è accentuato il carattere tecnocratico della governance europea, alimentando sempre di più un senso di distanza e ostilità nelle opinioni pubbliche di molti paesi.
Tecnocrazia e populismo si presentano così come le due facce della crisi democratica in Europa. Lo spazio dei partiti favorevoli all’integrazione si riduce e si accentuano le tensioni in un quadro di crescenti diseguaglianze, non solo di carattere sociale, ma anche quelle tra diversi paesi e aree dell’Unione. A Sud si diffonde un sentimento antitedesco perché ci si sente oppressi dalle politiche restrittive imposte da Berlino, mentre a Nord si guarda all’Europa mediterranea, sprecona e indebitata, come fosse una palla al piede del continente. È l’idea della solidarietà tra gli europei a essere messa in discussione; ma non dimentichiamo che questo è stato il principio costitutivo alla base di tutto il processo di integrazione: lasciarsi alle spalle i nazionalismi distruttivi dei secoli scorsi e creare una grande comunità di tutti gli europei.
L’Europa non ha mai vissuto una crisi così profonda nei lunghi anni della sua storia. Ma, come in altri momenti della vicenda europea, proprio la crisi può essere l’occasione per un salto di qualità. Certo, per uscirne bisogna innanzitutto cambiare le politiche dell’Unione. Questo significa realizzare quel riorientamento dell’azione comune verso la crescita e l’occupazione di cui ormai si parla anche per l’impulso di diversi governi a guida progressista, a cominciare da quello francese e, da ultimo, con il contributo di Enrico Letta. Tutto questo comporta un meccanismo davvero efficace di solidarietà di fronte al debito sovrano, che consenta di abbattere i tassi di interesse e di contenere e piegare le forze speculative che operano sul mercato. Occorre interpretare in modo più flessibile e intelligente il patto fiscale, non impedendo investimenti che sono necessari per il rilancio economico e la ripresa della competitività. Bisogna, infine, rafforzare il bilancio dell’Unione, perché solo un bilancio federale adeguato può consentire di ridurre gli squilibri, di armonizzare la crescita e di orientarla verso obiettivi innovativi sul piano della ricerca e sul piano ambientale.
Eppure questi cambiamenti così necessari appaiono non solo difficili, ma precari se affidati esclusivamente a una governance intergovernativa come quella che oggi domina l’UE. Per questo c’è bisogno di un cambiamento più profondo che investa la politica. C’è bisogno, cioè, di una “battaglia politica” europea in cui si confrontino diverse visioni del futuro del continente e si misurino soggetti politici europei. Questo è il vero salto di qualità necessario: una profonda riforma della politica, sorretta dalla crescita di una società civile europea e dall’impegno di forze sociali e culturali che si pongano oltre una visione nazionale. Allora il confronto non sarà più fra “Europa sì” e “Europa no”, dove per Europa si intende quella che c’è, con le sue regole inviolabili e la sua ideologia dell’austerità, i suoi dogmi monetari, la sua predicazione del taglio della spesa sociale, la sua incapacità di fronteggiare la speculazione finanziaria. La sfida riguarderà l’Europa che vogliamo e lo sforzo dei progressisti non può che essere quello di ridare slancio all’ideale europeista, legandolo a un progetto di crescita, di piena occupazione e di progresso.
C’è qui un aspetto importante – forse fino ad ora sottovalutato – della crisi e di una possibile rigenerazione dei partiti politici in Europa. È evidente, infatti, che una riforma o rinascita dei partiti deve puntare a rimettere radici nella società, a ritessere un rapporto con gli interessi reali, ma anche con il senso civico, l’umanità e le passioni delle persone. È possibile, questo, senza che i partiti si pongano in un’ottica che vada al di là della dimensione strettamente nazionale?
I partiti hanno perduto in parte la loro peculiare forza, che è consistita, appunto, nell’essere organismi anfibi, capaci cioè di vivere sia nella società che nello Stato, e rappresentando così un tramite efficace fra i cittadini e le istituzioni. I partiti si sono, in un certo senso, “statalizzati”, integrandosi al tempo stesso negli apparati pubblici nazionali e nella loro crisi, soffrendo di quella progressiva erosione di sovranità e potere reale di cui gli Stati stanno soffrendo, non solo rispetto alle istituzioni europee e sovranazionali, ma anche rispetto alla potenza non regolata dei mercati finanziari. Una rinascita dei partiti non è dunque pensabile se non attraverso una azione di riforma che proceda verso il basso e verso l’alto, costruendo nella società nuove forme di militanza e legami fra i cittadini, promuovendo canali di partecipazione e di democrazia deliberativa, ma anche ridefinendosi come partiti europei e internazionali, in grado cioè di consentire alle persone di partecipare e di condizionare – e non più solo di subire – la globalizzazione e la “europeizzazione” delle politiche e le loro conseguenze sociali.
Il Partito Socialista Europeo ha approvato a fine giugno a Sofia il suo programma fondamentale. Il PSE è il primo partito europeo che adotta un documento di questo tipo e di tale impegno. È un passo in avanti importante e si tratta di un testo ricco sul piano dei riferimenti al lavoro e alla giustizia sociale, ma anche alla partecipazione dei cittadini e alla trasparenza dei processi decisionali. Tuttavia, sembra a me ancora debole l’indicazione di un progetto politico per l’Europa. Fatica, per le residue resistenze nazionali, ad affermarsi l’idea di un’Europa federale, che è l’unica soluzione per una accelerazione democratica dell’integrazione. Non per creare il temuto superstato europeo, ma per evitare che le decisioni siano nelle mani di una reale e potente “supertecnocrazia” che finisce per dipendere quasi esclusivamente dai governi degli Stati più forti.
Occorre una svolta, nel senso di portare la politica nel cuore delle istituzioni europee e, nello stesso tempo, portare l’Europa nella politica e nel dibattito dei partiti nazionali. Non l’Europa come spauracchio e come minaccia: quella c’è già purtroppo. Ma l’Europa come tema di un serio confronto politico e progettuale, sia sui contenuti delle scelte concrete che l’Unione compie, sia sulle forme del processo necessario di evoluzione e di integrazione.
L’occasione potrebbero essere le prossime elezioni europee. La decisione socialista di presentare al voto popolare il candidato alla presidenza della Commissione e, ovviamente, un programma innovativo può, se sarà seguita da analoghe scelte degli altri partiti europei, cambiare “dal basso” il funzionamento delle istituzioni e dare un senso nuovo al ruolo dei partiti.
Questo trasformerebbe le elezioni europee in un pronunciamento sul futuro governo dell’Europa e sulle sue scelte qualificanti, e non in una somma di referendum nazionali sull’attuale funzionamento della UE, il cui esito potrebbe essere disastroso per le forze europeiste. Sarebbe giusto – e non in contrasto con l’attuale Trattato – che il Consiglio europeo prendesse atto del leader che dispone del maggiore consenso parlamentare, limitando il proprio ruolo a ratificare la scelta degli elettori. Un piccolo passo? Certamente un passo oltre l’Europa dei governi, verso l’Europa dei cittadini e quindi dei partiti che rappresentano, appunto, il fondamentale legame fra cittadini e istituzioni. L’unico che, sin qui, ha garantito la democrazia. Per questo è certamente necessario rinnovare i partiti, anche uscendo dalla ristretta dimensione nazionale e costruendo nuovi soggetti all’altezza del mondo globale. Ma sarebbe folle e rischioso gettare via ciò che la tradizione democratica ha sin qui costruito e che nessuno si è mostrato in grado di sostituire garantendo, appunto, la democrazia.