Matteo Renzi ci sta seriamente pensando. La strada per Palazzo Chigi è aperta davanti a lui, solo che decida di percorrerla. Ma pesa il ricordo, anzi il fantasma, del ’98 quando cadde Romano Prodi e fu sostituito alla guida del governo da Massimo D’Alema.
Un trauma ancora vivo nella memoria del centrosinistra. Fosse per Renzi andrebbe subito a nuove elezioni: ieri l’ha persino confessato. Gli importerebbe di meno risvegliare l’altro fantasma dei democratici, quello del 2008, quando la vittoria di Walter Veltroni alle primarie del Pd accelerò l’agonia del governo dell’Unione e la fine della legislatura. Il problema è che, senza una riforma elettorale, le urne produrrebbero ingovernabilità e frammentazione. Il segretario del Pd non può permetterselo. Ieri, per rafforzare il proprio impegno sulla legge elettorale, ha detto che essa è indissolubilmente legata alla riforma del Senato: ma tutto ciò allunga i tempi della legislatura e richiede un quadro solido di governo.
Per Renzi il nodo è intricato. E la spinta a bruciare i tempi del governo è forte. In realtà, rispetto al ’98 e al 2008, il sindaco di Firenze ha un vantaggio: il suo margine di manovra, dunque di scelta, è maggiore di quello che ebbero D’Alema e Veltroni. Soprattutto ha un’alternativa: fare un nuovo investimento su Enrico Letta e aiutarlo a definire con gli alleati un programma di governo per il 2014. Insostenibile sarebbe invece far finta che il Pd possa rilanciarsi mentre disprezza il governo di cui è l’azionista di riferimento.
Eppure quei fantasmi del passato ritornano. Deformati rispetto alla concreta vicenda storica. Perché la ricostruzione di quegli eventi è diventata nel tempo una delle più spietate armi di battaglia politica dentro il centrosinistra. Tuttavia, il ’98 e il 2008 assai difficilmente avrebbero potuto avere esiti diversi. Prodi cadde la prima volta per una ferma volontà di Fausto Bertinotti, che aveva già tentato quell’anno di affondare il governo votando contro il Dpef e l’allargamento della Nato. E fu lo stesso Prodi a portare Cossiga nell’area di maggioranza, utilizzando in quelle due occasioni i voti Udr per neutralizzare la trappola di Rifondazione. Poi però, quando perse per un voto alla Camera, si rifiutò di rivolgere un appello pubblico a Cossiga (che era pronto a votare per il governo). D’Alema, dal giorno dopo la sfiducia a Prodi, si mise al lavoro per un governo Ciampi. Lo ricorda nelle sue memorie lo stesso ex presidente della Repubblica. Anche Scalfaro – che si opponeva alle elezioni anticipate per l’order act già attivato in Kosovo e per le procedure dell’euro ancora in via di definizione – voleva un governo Ciampi. Prodi però visse come un affronto l’ipotesi di mettere il suo ministro del Tesoro alla guida di un governo-fotocopia di quello che aveva portato l’Italia nell’euro. Per Prodi era come rimuovere la sua persona, e mettere la pietra tombale sull’Ulivo. Nell’impossibilità di andare subito al voto, lui stesso innestò una soluzione diversa. E, a chiudere il cerchio su D’Alema, furono a stretto giro i leader dell’Ulivo: la sola alternativa rimasta era un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato, Nicola Mancino, e tutti allora preferirono quella che appariva come la scelta più forte, cioè un esecutivo guidato dal partito di maggioranza relativa. In seguito, lo stesso D’Alema ha detto che l’aver accettato quell’incarico è stato da parte sua un errore politico. Eppure ancora oggi è complicato immaginare un esito diverso, a meno di non intendere che bisognava imporre il governo Ciampi anche a costo di allargare lo strappo con Prodi.
Pure nel 2008 il fantasma di Veltroni che sgambetta Prodi è figlio di una polemica postuma assai più che di una realistica analisi delle vicende che hanno portato alla nascita del Pd. Certo, il Partito democratico poteva e doveva nascere prima del 2007. Il mancato passaggio dalla lista Uniti nell’Ulivo al Pd prima delle elezioni del 2006 è la vera colpa storica del gruppo dirigente del centrosinistra: senza quel ritardo, sarebbe stata assai diversa la vita del secondo governo Prodi. Ma, quando i capi dei Ds e della Margherita si precipitano a fare il Pd, l’esecutivo nato dall’Unione (e da un sostanziale pareggio elettorale) è già boccheggiante. Dipende dai voti dei senatori a vita; la compatibilità tra la sinistra estrema e le forze di centro appare impossibile; Mastella e Dini sono già in trattativa per fare il salto a destra. Il Pd nasce per salvare il centrosinistra dal naufragio dell’Unione. Il governo Prodi fa il massimo e dimostra ancora grande qualità: ma la richiesta a Veltroni – allora la personalità dell’Ulivo che aveva il maggiore consenso popolare – era proprio quella di dare al Pd un’immagine e un profilo nuovi, che lo liberassero dall’insostenibile logoramento quotidiano. Si può discutere se Veltroni fece bene a tentare l’accordo con Berlusconi su una riforma elettorale di tipo spagnolo: ma non si può addebitare a quel confronto la caduta di Prodi. Peraltro, si dimentica che nel Comitato dei 45 (i promotori del Pd) Veltroni e Bindi furono i soli a votare contro le primarie a fine 2007. Veltroni disse allora che l’elezione di un segretario con le primarie avrebbe creato problemi al governo. Propose un reggente, ma gli dissero di no e gli chiesero di candidarsi.
Renzi non c’era. Ma queste cose le sa. E sa che, anche se oggi in tanti gli chiedessero in coro di andare a Palazzo Chigi (come fecero con D’Alema nel ’98 e come sostennero Veltroni nel 2008), domani la responsabilità sarebbe soltanto sua. La partita comunque non riguarda la politologia: in gioco è il Paese, l’apertura di una fase nuova, la scelta del tempo migliore: perché la storia non si ripete.