«Non dico che quasi bucammo la Bolognina…». Seduto alla scrivania del suo studio alla fondazione Italianieuropei, Massimo D’Alema ha davanti agli occhi la prima pagina dell’Unità del 13 novembre 1989, all’indomani del clamoroso discorso in cui Achille Occhetto annuncia quei grandi cambiamenti che culmineranno – oltre un anno dopo – nello scioglimento del Pci. Il giornale apre con il titolo «Il giorno di Modrow» (primo ministro della Germania Est che stava per entrare in carica), mentre il discorso della Bolognina occupa solo il taglio centrale («Occhetto ai veterani della Resistenza: “Dobbiamo inventare strade nuove”»). Intervistato oggi da quello stesso giornale di cui allora era direttore, in occasione del novantesimo anniversario dalla sua fondazione, D’Alema comincia dunque con un’autocritica.
«Non c’è dubbio che l’Unità di quel 13 novembre rivela una certa freddezza, con un titolo così generico in prima e la notizia relegata a pagina 8, dove invece c’era il titolo più forte (“Il Pci cambierà nome? Tutto è possibile”). Insomma, il contrario della logica giornalistica».
Per quale motivo?
«Prevalse in me la prudenza. In fondo, pensavo, Occhetto aveva solo risposto alla domanda di un giornalista, dicendo che non escludeva nulla. La notizia era questa e io scelsi di non enfatizzarla, di darla in questo modo, nella sua dimensione problematica. E così il giorno della Bolognina divenne per l’Unità il giorno di Modrow».
Possibile che lei, anche come dirigente del Pci, fosse preso così alla sprovvista?
«Non ne sapevamo nulla, fummo colti di sorpresa. Lo stesso Occhetto ha poi raccontato di avere maturato la decisione all’ultimo, mentre tornava da Mantova, dove aveva riflettuto a lungo davanti a “La caduta dei giganti”, l’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te. Fu una decisione solitaria. Non che non fossero in corso discussioni su come uscire dalla crisi in cui ci trovavamo: un partito in declino, una situazione politica bloccata, un cambiamento del mondo che avveniva in una forma molto diversa da quella che avevamo potuto immaginare noi, che avevamo a lungo coltivato l’illusione di una riformabilità del comunismo».
Dunque, la svolta era poi così imprevedibile?
«Era chiaro che vivevamo un passaggio d’epoca che richiedeva un cambiamento. Avevamo fatto un congresso all’insegna del “nuovo Pci”. Su questo sforzo di promuovere un cambiamento radicale si era aperta una discussione, in particolare sul rapporto col movimento socialista e l’idea di entrare nell’Internazionale socialista. A questo stava lavorando il gruppo dirigente. Occhetto fece il salto: l’idea di sciogliere il Pci, di promuovere un nuovo inizio. Rappresentò un salto di qualità improvviso e bisogna dire tutto sommato provvidenziale».
Per molti fu un trauma.
«Personalmente non solo fui colto alla sprovvista, ma fui attraversato da molti e sofferti dubbi. Andai a parlarne con mio padre, il quale, sorprendendomi, disse: “Ha ragione Occhetto”. Io ero dubbioso sul modo in cui questa operazione veniva avanti, per la rapidità, i rischi di rottura, non sulla direzione di marcia. Ma lui mi disse che quello era l’unico modo possibile, che altrimenti non ce l’avremmo mai fatta».
Torniamo all’Unità. Domenica Occhetto lancia il sasso della Bolognina. Poi che succede?
«Lunedì mattina ci fu la segreteria del partito, Occhetto si presentò con un testo scritto e rese del tutto chiare le sue intenzioni, quindi si convocò subito la direzione. Normalmente aveva un carattere riservato, in questo caso invece i verbali furono pubblicati sull’Unità. Insomma, dopo l’incertezza della domenica, la trasparenza fu totale e si aprì un grande dibattito, che fu un dibattito politico ma per molti anche un bilancio esistenziale, una discussione di grande intensità e di grande drammaticità. Quella settimana, che si concluse con la riunione del comitato centrale, fu cruciale per le sorti della svolta».
Immagino anche per l’Unità, o sbaglio?
«Di sicuro in quei giorni vendemmo un sacco di copie. Il fatto straordinario fu che in pochissimi giorni si aprì un dibattito democratico di enorme portata. Martedì 14 la direzione, con 45 interventi, il 20 la riunione del comitato centrale, con 230 iscritti a parlare. Dal punto di vista del giornale il bello di quella settimana secondo me fu che riuscimmo a tenere sempre insieme tre elementi: la discussione nel gruppo dirigente, il contesto internazionale – perché il nostro travaglio stava dentro un grande cambiamento del mondo, con il muro di Berlino che era appena caduto – e le reazioni del nostro popolo. Alcuni articoli a rileggerli appaiono ancora veramente belli, parlo di reportage da luoghi emblematici dove andammo a raccogliere le reazioni della nostra gente, per esempio tra gli operai della Fiat, o nella sezione romana di Ponte Milvio che era stata la sezione di Enrico Berlinguer».
La redazione come visse quel passaggio?
«In redazione era nettamente prevalente il consenso alla svolta. Il giornale prese posizione a favore, ma con l’impegno a raccontare tutto. “Fischi e applausi sotto il palazzo di Botteghe Oscure”, come recita un titolo sulla riunione del comitato centrale. E poi c’era la preoccupazione politica, che marcò un po’ gli editoriali, a cominciare da quello che scrissi io mercoledì, il bisogno di dire che non era una svendita, che intendevamo continuare a essere una forza di cambiamento».
Quali furono le prime reazioni all’esterno del partito?
«Lo sforzo dell’Unità fu anche quello di raccontare un dibattito che si apriva nel mondo politico e intellettuale, le diverse reazioni, che furono particolarmente entusiaste nella sinistra diffusa, perché l’idea di Occhetto era che questa fase costituente potesse coinvolgere un mondo che fino a quel momento si era tenuto lontano dal Pci».
E all’interno del partito?
«Il fronte del no che gradualmente andava formandosi temeva che fosse la fine della sinistra. Noi invece tentavamo di spiegare che cambiavamo allo scopo di evitare semmai che quel patrimonio di idealità e valori fosse travolto dal crollo del comunismo. E poi l’altra idea che era sottesa alla svolta era che con la fine della diversità comunista e della guerra fredda si apriva la strada alla possibilità di un’alternativa di governo nel nostro Paese. La possibilità di sbloccare il sistema, ma senza passare sotto le forche caudine dell’unità socialista lanciata da Bettino Craxi. Questo fu il rovello fin dal primo momento».
O la contraddizione?
«C’era un elemento di acrobazia, lo si vede anche nel mio editoriale di quel mercoledì, che in sostanza consisteva nell’intenzione di diventare socialisti bypassando Craxi. Dicendo che l’ostacolo all’unità non era solo la diversità comunista ma anche la diversità del Psi craxiano rispetto alle altre forze del socialismo europeo».
Certo la polemica con i socialisti non si attenuò, neanche sul giornale.
«In quei giorni sia a me che a Michele Serra capitò di polemizzare con Giuliano Ferrara, a me in tv e a lui sul giornale. Ferrara aveva detto che era lieto di accoglierci tra gli ex comunisti. Io gli dissi: “C’è una differenza, ed è che tu te ne sei andato da solo, noi invece stiamo cambiando tutti insieme e andiamo da un’altra parte”. Serra invece gli scrisse: “Comunque sia, caro Ferrara, mi consola una certezza, che ovunque noi stiamo andando tu non ci sarai”».
In conclusione, che ricordo ha dell’Unità di quel tempo?
«Era un grande giornale, che naturalmente in quella fase aveva un accesso privilegiato alle fonti, a cominciare dal fatto che il direttore partecipava alle riunioni della segreteria e della direzione. Anche se devo dire che io mi sdoppiavo e non raccontavo mai i retroscena…».
Nemmeno da direttore dell’Unità?
«Mai».
Non dava le notizie ai giornalisti dell’Unità?
«Non raccontavo i retroscena. Del resto io, quando ci fu la riunione della segreteria del partito per decidere di cambiare nome al Pci, tornai a casa e non dissi nulla a mia moglie. Me lo ha sempre rimproverato. E io le dissi: “Ma era la riunione della segreteria, era riservata”».
Non è mai venuto meno a questa regola?
«Una sola volta, perché era uscita un’agenzia su un battibecco con Cervetti che si diceva fosse avvenuto in direzione. Ne discussi con i caporedattori, che volevano riportare questa notizia per dimostrare che l’Unità era indipendente. Io dissi: “Rompo un vincolo, vi racconto come sono andate le cose”. In breve, la storia non era vera. Loro mi guardarono e mi diedero una straordinaria lezione di giornalismo. Mi dissero: “Ma che sia vero o falso non importa nulla, il buco lo prendiamo lo stesso”. In quel momento pensai che forse il giornalismo non era un mestiere adatto a me».
L’articolo cui è rimasto più legato?
«Un articolo che scrissi perché ero arrabbiato per il modo in cui seguivamo il Parlamento. Dicevo: non seguiamo mai un dibattito parlamentare, riportiamo solo chiacchiere da Transatlantico. E così una cronaca me la scrissi da solo. Un dibattito sulla violenza sulle donne, illuminante, in cui veniva fuori davvero la civiltà di un Paese, con quelli che parlavano di “vis grata puellae”, quelli che dicevano “ma anche queste donne con le minigonne…”. Feci il resoconto. Credo sia uno dei miei migliori articoli».