Presidente D’Alema, siamo in piena rievocazione della Terza Via. Lei ne è stato uno degli iniziatori, nel 1999, con il vertice di Firenze. Quale è il suo significato attuale?
«Nessuno. In tempi recenti sono state avanzate critiche anche aspre di quella esperienza: troppo liberismo, troppe concessioni alla deregulation. Ma cosa fu la Terza Via? All’indomani della caduta del muro di Berlino, quindi in un clima di grande mutazione, fu lo sforzo di far incontrare i principi del socialismo con una visione di tipo liberale. Penso ancora oggi che abbia avuto un impatto positivo, sia pure con effetti contraddittori che non possono essere nascosti. Ma è un’esperienza di 15 anni fa. Allora diede i suoi frutti, anche nel nostro Paese. Fu la sinistra al governo che, sulla base di quella visione, ridusse drasticamente la presenza statale nell’economia, avviò le grandi privatizzazioni, lanciò le liberalizzazioni poi continuate nel lavoro di Bersani, riformò le pensioni. Pose fine a una politica di deficit spending, tanto che noi portammo il debito pubblico dal 127 al 102% del Pil, realizzando sistematicamente un avanzo primario del 3% e liberalizzò il mercato del lavoro, per certi aspetti perfino troppo, visto che si produssero forme contrattuali che poi sfociarono in una eccessiva precarizzazione. Quindici anni dopo, i problemi sono completamente diversi. Bill Clinton, non un pericoloso estremista, ha scritto tre anni fa un libro, Back to work , sostenendo che il principale limite di quella esperienza fu di aver sottovalutato il ruolo dello Stato. La Terza Via fu pensata in una prospettiva ottimistica della globalizzazione, che si è rivelata fallace. L’eccesso di liberalizzazione ha portato a enormi diseguaglianze sociali, a grave instabilità economica e, in ultima analisi, alla crisi del 2008».
La Terza Via corresponsabile della crisi del 2008?
«Guardi che la deregulation finanziaria, il “liberi tutti” per banche e speculatori, in America, la fece Clinton, lui stesso lo ha riconosciuto. Quello che io trovo incredibile è che, nel tentativo di offrire un retroterra teorico nobile al governo Renzi, oggi si faccia un’operazione anacronistica. Chi ci spiega che la velocità del mondo, le nuove tecnologie impongono il cambiamento poi ci propone una piattaforma ideologica della fine del secolo scorso come la Grande Novità di oggi. Sul piano culturale è sconcertante. Primo, la riduzione del ruolo dello Stato era il tema di vent’anni fa. Secondo lo abbiamo fatto. In qualche caso forse troppo. Terzo, alcuni dei protagonisti riflettono criticamente su quell’esercizio. Oggi tutto il pensiero economico ruota intorno ad altri tempi. Ci sono Stiglitz, Piketty, Krugman. Il Financial Times ha dedicato una pagina intera al libro della Mazzuccato sulla necessità di riscoprire il ruolo dello Stato come forza propulsiva dello sviluppo. Quelli che invocano la Terza Via sembra abbiano saltato le letture degli ultimi 10 anni, ammesso che avessero fatto quelle precedenti».
E qual è invece il dibattito giusto?
«La crisi di oggi ha radici nella debolezza della politica e dell’azione pubblica, sia a livello europeo sia nazionale. E non si può uscirne senza politiche in grado di promuovere gli investimenti, anche pubblici. Altro che meno Stato. La crisi ha evidenziato i limiti dell’approccio liberista e ha messo la politica di fronte alla responsabilità di promuovere gli investimenti e ridurre le diseguaglianze. La crisi europea si caratterizza soprattutto come crollo della domanda interna. Oggi l’Europa è esportatore netto, malgrado l’euro. Ma il problema è il crollo dei consumi europei che deriva da un impoverimento delle classi medie e del mondo del lavoro».
Lei sta contestando la necessità delle riforme strutturali, che ci chiedono la Commissione, la Banca centrale di Mario Draghi, a cominciare da quella in corso del mercato del lavoro, per dargli più flessibilità?
«Secondo i dati Ocse, non miei, il mercato del lavoro è più flessibile in Italia che in Germania e in Francia. In ogni caso, trovo stravagante e incomprensibile che oggi, con i dati economici peggiori dell’eurozona, sia la riforma elettorale la priorità di un governo che dice di voler rimanere in carica fino al 2018. Non credo che l’Europa ci chieda questo. Detto ciò, la riforma del mercato del lavoro contiene molti aspetti positivi, io sono favorevole al contratto unico a tutele crescenti perché riduce la precarietà del lavoro. Ma contesto il fatto che la nuova generazione di occupati non possa accedere alla tutela dell’articolo 18, che invece rimane per i lavoratori già assunti. A partire dai principi stessi enunciati dal governo, il meccanismo proposto introduce quindi un elemento che li contraddice, fra l’altro stabilendo una diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dubbia sotto il profilo costituzionale. Inoltre non credo che, approvato il Jobs act, arriveranno investimenti a pioggia o cresceranno tumultuosamente i posti di lavoro».
Quali dovrebbero essere le priorità di un governo di sinistra?
«La riforma dello Stato, delle amministrazioni, compreso il funzionamento della giustizia, la sicurezza. A livello europeo, la prima riforma dovrebbe essere quella dei mercati finanziari. Cominciamo, per esempio, a stabilire che all’interno dell’eurozona non sia possibile la concorrenza fiscale. Non possiamo scoprire solo ora che il Lussemburgo è un paradiso fiscale, magari per indebolire Juncker e con lui la nuova Commissione».
E come la mettiamo con i nostri obblighi, quelli che ci impongono i Trattati?
«Sono convinto che l’austerità come premessa della crescita sia una ricetta sbagliata».
Ma su questo c’è accordo. Il governo Renzi si è battuto per cambiare i termini dell’equazione, privilegiando la crescita.
«C’è accordo a parole. Nella sostanza siamo di fronte solo ad annunci. Dei 300 miliardi del piano di investimenti di Juncker pare ce ne siano solo 21. I segnali di cambiamento sono estremamente timidi. Siccome non c’è più flessibilità nella moneta, si continua a premere su misure di contenimento dei salari. Il punto vero è questo. Ma questa politica è all’origine del crollo del mercato interno europeo. Tanto è vero che oggi perfino in Germania si apre un dibattito: gli industriali tedeschi mettono in guardia da un eccessivo contenimento dei salari. All’ultimo G20 lo snodo centrale è stata la polemica tra Obama e la Merkel sulla politica dell’austerità: è Obama che ha detto alla cancelliera che l’Europa deve spendere più nella crescita. È questo il vero ostacolo alla ripresa, non l’articolo 18».
Siamo alla fine della presidenza semestrale italiana dell’Unione Europea. Che bilancio ne fa?
«Devo dire che, anche per ragioni oggettive, le vicende della Commissione, la battaglia sulle nomine, non mi pare abbia lasciato un segno così indelebile nella storia dell’Unione Europea».