Mentre scrivo questo editoriale si combatte ancora per le strade di Kobane. Solo l’eroismo dei peshmerga e della popolazione curda sembra ostacolare l’avanzata degli integralisti dell’IS. L’offensiva aerea voluta e condotta dagli americani si è rivelata scarsamente efficace, mentre permane la sostanziale inerzia e l’impressionante cinismo della Turchia e di diversi paesi arabi che, dopo avere sostenuto, finanziato e, talora, armato gli integralisti, ora sostanzialmente assistono alla tragedia in atto. D’altro canto, fino a poche settimane fa gli Stati Uniti e le maggiori potenze europee sembravano pronte ad appoggiare anche con attacchi aerei l’avanzata di al-Nusra verso Damasco e la distruzione del regime di Assad. In realtà, dopo aver brutalmente emarginato le forze democratiche e laiche gli integralisti sono il nerbo militare della lotta contro Assad, condotta ormai, più che dal popolo siriano, da una vera e propria
legione straniera che il capo dell’IS Abu Bakr al-Baghdadi ha inviato in Siria per riguadagnare consensi, rompere l’isolamento internazionale, raccogliere denaro e armi e reclutare volontari. Così i bombardieri
americani hanno in poche ore cambiato obiettivo, trovandosi a colpire i nemici del regime siriano, degli Hezbollah e dell’Iran (senza magari per ipocrisia renderlo esplicito), schierandosi dalla parte di chi, insieme ai curdi, cerca di fare argine all’ondata nera del fondamentalismo sunnita più sanguinario. La confusione e l’incertezza della posizione americana, occidentale e della comunità internazionale fanno una certa impressione e rivelano una difficoltà radicale a comprendere le dinamiche reali in quella parte del mondo e, più in generale, all’interno delle comunità islamiche. Pesa un’assenza di visione strategica che consenta di valutare in modo meno episodico la natura dei pericoli e le reali priorità di un’azione per la sicurezza; pesano i condizionamenti di interessi e posizioni particolari, come quelle di Israele, che non coincidono con le esigenze più generali di stabilità e sicurezza. Se consideriamo l’arco dei paesi che
comprende Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, Israele e i territori palestinesi, Egitto fino alla Libia e oltre (penso alla minaccia rappresentata da al Qaeda nel Maghreb), il quadro che si presenta è carico di minacce, quando non segnato da tragici e sanguinosi conflitti in atto.
Eppure dalla guerra contro il terrorismo, che doveva radicare la democrazia in Afghanistan e in Iraq, al processo di pace in Medio Oriente, che secondo gli impegni solennemente assunti ormai da quattro presidenti americani avrebbe già dovuto portare alla nascita di uno Stato palestinese, alle primavere arabe, cariche di speranza di libertà e di democrazia, tutto sembrava volgere verso una stagione ricca di promesse positive di pace e di crescita civile. Che cosa è accaduto? Dove abbiamo sbagliato? Che cosa deve cambiare nella strategia e nell’azione della comunità internazionale, degli Stati Uniti e in particolare dell’Europa?
Bisognerebbe in realtà partire da molto lontano, dal modo in cui si è conclusa l’esperienza coloniale e dal conflitto che, esasperato dal clima di guerra fredda, ha visto l’Occidente opporsi al nazionalismo arabo di impronta laica e progressista. Certo, questo nazionalismo arabo, anche per l’influenza non positiva dell’Unione Sovietica, ha inclinato verso forme di autoritarismo e di dittatura militare. Ma certamente dall’altra parte sono stati assai negativi gli effetti di una politica che ha visto l’Occidente incoraggiare il fondamentalismo religioso in chiave antiprogressista e con l’obiettivo di dividere e indebolire il mondo arabo. Ciò è accaduto con il sostegno americano ad al Qaeda e con il sostegno israeliano ad Hamas, salvo poi doversi pentire amaramente di avere, come apprendisti stregoni, evocato demoni che nessuno in seguito è riuscito più a controllare. Appare chiaro che l’idea – coltivata in modo particolare dalla destra neoconservatrice americana – che si potesse esportare, magari con la forza, il modello occidentale di democrazia nel mondo arabo si è rivelata infondata e naïve. Si è finito così per favorire una generale destabilizzazione, senza avere alcun progetto di come ricostruire la stabilità. Non si governano a colpi di maggioranza paesi multietnici e multireligiosi, in molti casi privi di una tradizione nazionale statale, talora strutturati ancora su base tribale, senza che i principi della tolleranza religiosa si siano affermati come precondizione di ogni sviluppo democratico.
D’altro canto, non fu così anche nella storia europea? Non furono l’illuminismo e Voltaire con il “Trattato sulla tolleranza” a segnare la fine di secoli di guerre religiose, creando le premesse delle moderne democrazie? È evidente che in questi paesi non può esserci stabilità senza politiche di unità nazionale in grado di includere e garantire ogni diversa componente della società. Ma molto spesso il mondo occidentale ha agito in senso contrario, ostacolando processi di riconciliazione nazionale e incoraggiando lacerazioni e guerre civili. Basti pensare a ciò che è accaduto in Libano o al modo in cui è stata accolta l’ipotesi di un governo di unità nazionale tra i palestinesi – che sarebbe una precondizione essenziale per ogni possibile soluzione basata sull’esistenza di due Stati. Nello stesso tempo, è evidente che una politica di riconciliazione fra diverse componenti etniche e religiose comporta la creazione di un equilibrio regionale che non può che fondarsi sul riconoscimento del ruolo di due paesi chiave nella regione, che sono da una parte l’Iran e dall’altra l’Arabia Saudita. Se si vuole davvero isolare e contenere quello che appare come il pericolo principale, e cioè il fondamentalismo terrorista di al Qaeda e dell’IS, non si può prescindere dall’Iran, che è con ogni evidenza un possibile fondamentale fattore di stabilità nella regione. Lo è nel contesto iracheno, lo è nella prospettiva futura dell’Afghanistan se si vuole evitare che la fine della presenza della NATO veda il ritorno dei talebani, se non a Kabul, nel controllo reale di tanta parte del paese. Eppure noi abbiamo fatto dell’Iran il nostro nemico principale, sulla base di una visione che corrispondeva esclusivamente alle esigenze della destra israeliana e che era ed è con ogni evidenza contraria agli interessi sia degli Stati Uniti che dell’Europa. C’è da sperare che ora lentamente si cerchi di correggere la rotta, cogliendo l’occasione di una leadership iraniana più aperta e disponibile al dialogo con la comunità internazionale.
C’è stata negli ultimi anni un’impressionante caduta di credibilità dell’Occidente in questa parte del mondo. Gli Stati Uniti hanno oscillato tra il bellicismo neoconservatore e le delusioni create da Obama, dopo le speranze suscitate dallo storico discorso tenuto al Cairo. Ma in definitiva vi è la generale convinzione che la politica americana dipenda dalla volontà della leadership israeliana e che quindi la maggiore potenza del mondo non sia in grado, non dico di perseguire obiettivi coerenti con il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite, ma neppure di perseguire i propri interessi in una parte cruciale del mondo. L’Europa in quanto tale è una pura entità erogatrice di aiuti: definita appunto
payer, not player. I singoli paesi europei appaiono divisi e non in grado di esercitare un peso determinante. Siamo ben lontani dai momenti in cui l’Unione europea seppe esercitare un ruolo di spinta verso la pace, anche talora in una positiva dialettica con gli USA: una sorta di gioco delle parti nel sostenere le ragioni legittime degli israeliani e dei palestinesi, che aveva comunque garantito un certo equilibrio dell’immagine e del ruolo dell’Occidente. Eppure un esempio positivo c’è, anche perché fortunatamente ce ne siamo occupati poco. Si tratta della Tunisia. Un paese nel quale appunto si sono create le condizioni per una collaborazione fra Islam politico e componenti laiche e progressiste. Paradossalmente la fortuna della Tunisia è che, non avendo petrolio, l’Occidente non se ne cura. Evitando così di combinare guai come in tutto il resto della regione.