Massimo D’Alema, rispetto a quando lei era premier e poi ministro degli Esteri, le alleanze in Medio Oriente sembrano essersi capovolte. I nemici di ieri sono diventati nostri alleati. A cominciare dall’Iran.
«Era sbagliato l’ostracismo verso l’Iran. Ed è divenuto insostenibilmente sbagliato con il passaggio dal conservatore Ahmadinejad al riformista Rohani. L’ostracismo era dettato non dagli interessi dell’Occidente, ma da quelli dei due alleati dell’Occidente: Arabia Saudita e Israele. I quali, più che alleati, si sono rivelati due problemi».
Come spiega la sfida dell’Arabia Saudita all’Iran?
«È un conflitto di potenze che tende a degenerare in un conflitto religioso; e i conflitti nazionali ammettono risoluzioni, quelli religiosi no. Eppure sciiti e sunniti hanno convissuto per secoli. La vera questione è l’egemonia nell’area. L’Arabia Saudita teme l’ascesa dell’Iran. E con un atto deliberato, privo di senso, ha messo a morte un chierico che non era un estremista, Nimr Al Nimr, per provocare la reazione dell’ala conservatrice del regime iraniano».
Nimr Al Nimr aveva avuto espressioni poco cortesi nei confronti del defunto re saudita…
«Il defunto re saudita auspicava che fosse “schiacciata la testa del serpente”, vale a dire che venisse distrutto l’Iran sciita con le bombe atomiche. Diciamo che è stato uno scambio di espressioni poco cortesi… Il punto è che l’apertura all’Iran non è contestata solo in Occidente. Ha nemici anche tra gli estremisti di Teheran. L’Arabia Saudita tenta di farla saltare nella speranza di restare partner privilegiato degli americani. La nuova leadership ha attitudini belliciste preoccupanti; si pensi all’avventura militare in Yemen. Io conoscevo bene il principe Faysal, figlio dello storico re Faysal, che è stato ministro degli Esteri per 39 anni — questa è stabilità, altro che l’Italicum —: era uomo di grande saggezza, non avrebbe mai fatto azzardi muscolari».
Chi sconfiggerà l’Isis?
«Fino a quando resterà questa tensione tra Arabia Saudita e Iran, l’Isis non sarà sconfitto. Purtroppo gli Usa hanno commesso errori gravissimi nella regione, dalla guerra in Iraq alla scelta del governatore Bremer — il quale non passerà alla storia come un genio — di liquidare, con Saddam, anche lo Stato e l’esercito iracheno. Oggi alcuni capi dell’Isis sono ex ufficiali di Saddam».
Quali sono i rapporti tra Riad e l’Isis?
«L’estremismo dell’Isis ha una radice culturale nell’islamismo più retrogrado, che ha il suo epicentro proprio nel Golfo. Questo non vuol dire che sia un’emanazione del regime saudita; ma non dimentichiamo che gran parte degli attentatori delle Twin Towers provenivano dalla migliore élite saudita».
E di Netanyahu cosa pensa?
«Il governo della destra israeliana sta giocando un ruolo negativo nella regione. Con l’espansione delle colonie, la prospettiva di uno Stato palestinese è di fatto scomparsa. La coltiva ancora la leadership politica, che vive di aiuti internazionali; ma la società civile no. Gli intellettuali credono ormai allo scenario che chiamano sudafricano».
Vale a dire?
«Un unico Stato, in cui i palestinesi dovranno battersi per i propri diritti. È nata così la nuova Intifada. Ma Israele, negando uno Stato palestinese, mette in pericolo la propria stessa idea di Stato ebraico. E la comunità internazionale accetta il doppio standard: Israele non rispetta gli impegni sottoscritti, viola le risoluzioni dell’Onu. Questo alimenta nel mondo arabo l’odio verso l’Occidente. Usa e Europa dovrebbero smetterla di avere nella regione alleati privilegiati, ai cui interessi finiscono per essere sacrificati gli interessi della stabilità e della pace. Noi abbiamo bisogno di un equilibrio fra i diversi Stati e di una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e dei principi del diritto internazionale».
Lei nel 2006 fu molto criticato per la sua passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.
«Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano».
Come andò?
«Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».
Ora i guerriglieri sciiti sono nostri alleati?
«Alleati no; ma combattono il nostro stesso nemico. E in Siria noi dobbiamo costruire un fronte anti-Isis tra il governo, i suoi sostenitori interni tra cui la minoranza cristiana, i suoi sostenitori esterni che sono la Russia e l’Iran, e i gruppi sunniti appoggiati dall’Occidente».
In Libia cosa si può fare?
«Dopo il disastroso intervento di Francia e Gran Bretagna, in Libia c’è stata una gestione debolissima della crisi da parte dell’Onu. Né si è capito perché l’Europa l’abbia accettata. Ci si è impantanati in un’estenuante mediazione tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, anziché individuare una forte personalità politica, un alto rappresentasse delle Nazioni Unite, in grado di coinvolgere i diversi Paesi arabi che su un fronte e sull’altro hanno fomentato il conflitto».
Si era parlato di Prodi.
«Prodi avrebbe potuto essere una soluzione adeguata. Nel frattempo invece l’Isis si è insediato sulla sponda meridionale del Mediterraneo».
Qual è oggi il ruolo dell’Italia?
«Non siamo tra i protagonisti. Questo ci ha evitato se non altro di commettere errori. Non siamo tra coloro che hanno destabilizzato, ma neppure tra coloro che cercano di rimettere insieme i pezzi».
In Libia siamo stati una potenza coloniale.
«Ma in Libia non c’è affatto un sentimento anti-italiano, come mi hanno confermato i sindaci delle principali città. Anzi, tutti sperano che assumiamo un ruolo. Purtroppo il giorno dopo che Renzi ha rivendicato un ruolo-guida in Libia, l’Onu ha nominato l’ambasciatore tedesco».
L’Italia è passata dalla fase in cui «si andava in Europa con il cappello in mano» a quella in cui «si picchiano i pugni sul tavolo». Ma qual è la strategia giusta?
«Non siamo mai andati in Europa con il cappello in mano. Il centrosinistra vi andò con l’autorevolezza di governi che ridussero il debito pubblico dal 132 al 102% del Pil, portando l’Italia nell’euro e ottenendo per Prodi la presidenza della Commissione. Quando Ciampi prendeva la parola a Ecofin, non era considerato un questuante. A picchiare i pugni sul tavolo provarono Berlusconi e Tremonti, senza grandi fortune. Non seguirei quella strada. Renzi, anziché baccagliare con la Merkel, dovrebbe farsi promotore con gli altri leader del socialismo europeo di una nuova politica. Che fine ha fatto il piano di investimenti Juncker?».
I socialisti europei a Bruxelles e a Berlino fanno i vice dei conservatori.
«In tempo di rivolta contro l’establishment, i socialisti rischiano di rinchiudersi nel fortilizio con i loro antichi avversari, per giunta in una posizione subordinata. Invece devono dialogare con i nuovi movimenti. Che possono essere deviati a destra, in nome dell’antipolitica. Ma possono anche essere declinati a sinistra. Sono segnali interessanti sia il nuovo governo portoghese sia la scelta del socialisti spagnoli, che respingono le pressioni per una grande coalizione con i popolari e dialogano con Podemos».