Il 5 settembre ha dato appuntamento alle 14 al Capranichetta di Roma per dire “No. Non così”. C’è chi lo accusa di sposare il No solo per riprendersi il Partito, ma da quando il leader Maximo ha deciso di serrare le fila del centrosinistra per il No alla Riforma Boschi, le reazioni non sono mancate. Quelle dal territorio, al di sopra delle aspettative e quelle della classe dirigente oggi renziana. E allora per capire quel “Non così” lo abbiamo cercato e con lui abbiamo parlato anche di sinistra e di Europa.
“No, non così”. Questo è lo slogan dell’incontro che lei sta preparando. Che succede il 5?
Quella del 5 è stata pensata come una riunione organizzativa a cui dovrebbero partecipare tre o quattro persone per ogni regione allo scopo, poi, di promuovere la costituzione dei comitati per il No che si riconoscono nell’area di centrosinistra e si vogliono mobilitare per il No. Ci sono state molte adesioni, quindi immaginiamo ci saranno più persone di quante ne abbiamo previste all’inizio. Ma non è una manifestazione, è una riunione organizzativa.
Ci saranno parlamentari del suo Partito?
È probabile, è una riunione aperta a tutti.
Ha letto le dichiarazioni di Matteo Orfini: «D’Alema? Rinnega la sua storia... La riforma costituzionale è perfettamente in linea con le proposte che il Pds di Massimo D’Alema e Bersani offriva al Paese: il superamento del bicameralismo e addirittura una legge elettorale a doppio turno. Noi stiamo facendo semplicemente le riforme che loro non sono riusciti a fare». Allora perché No?
Innanzitutto, questa è una riforma - ci agita dei fogli di fronte - che in molte parti è simile a quella approvata dall’onorevole Berlusconi e dalla sua maggioranza il 18 novembre del 2005. Prevede il superamento del bicameralismo perfetto e molte modifiche. Noi votammo contro, la bocciammo e poi venne cancellata dal referendum del 2006. Non è vero che il Parlamento non è riuscito a fare le riforme. La riforma di Renzi il Parlamento l’aveva già fatta, è questa - e sempre tra le mani stringe la riforma di Berlusconi -. Solo che noi la bocciammo. Perché? Perché noi dicemmo - e lo dissero anche autorevoli esponenti del Sì attuale - “non baratteremo il superamento del bicameralismo con un sistema nel quale in Parlamento c’è un capo e seicento camerieri”. Non è una mia frase ma, appunto, di un autorevole esponente oggi del Sì, che allora era per il No. E io, coerentemente, come votai contro allora, sono contrario a quella di oggi. Oltretutto, la riforma di Berlusconi per certi versi era anche migliore. Prendiamo, ad esempio, il caso del Senato. Diceva che «il Senato federale della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto su base regionale», cosa che nel testo di Renzi non è contenuto. Mentre è un principio democratico importante.
Eppure una delle foto che rimbalzano sui social di chi vota Sì è la copertina del programma elettorale di Prodi del 1996. L’Ulivo era monocameralista, dice ad esempio Claudio Petruccioli, e questa riforma è monocameralista. Le leggiamo un pezzo, ulivista: «Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza». Allora, di nuovo, perché No o perché “non così”?
Il programma dell’Ulivo prevedeva un sistema federale, ma noi ancor oggi non siamo in un sistema federale. Anzi, direi che la riforma costituzionale che ci viene proposta cancella ogni residuo elemento di federalismo. E una delle ragioni per cui io sono contrario, infatti, è che questa riforma è fortemente centralistica e riporta al governo nazionale molte delle funzioni che la Costituzione ad oggi assegna alle Regioni. Quindi, non essendoci il federalismo, è un non senso fare un Senato federale. Oltrettuto, l’unico esempio di Senato federale importante che si conosca, il Bundesrat, è formato dai capi dei governi delle Regioni, che sono lì a rappresentare il punto di vista delle singole regioni proprio come diceva il programma dell’Ulivo. Il Senato previsto da questa riforma sarà eletto su liste di partito, se sarà eletto, e quindi non avrà un carattere di rappresentanza territoriale, ma un carattere di rappresentanza politico. Un Senato che vorrebbe esser federale ma che non lo è, perché non ne ha compiti né prerogative, è un organo che non si capisce bene a cosa serva sostanzialmente. Tanto è vero che sarebbe stato molto più serio, come ha detto Francesco Paolo Casavola, abolirlo e attribuire determinate funzioni alla Conferenza Stato Regioni e Autonomie. E questo avrebbe comportato un vero risparmio, non solo quello sugli stipendi, che è cosa minima rispetto al costo complessivo di un’assemblea parlamentare.
Il dibattito - anche di parte del suo Partito - si è concentrato sul combinato riforma del Senato/legge elettorale che creerebbe il grande disastro. Basterebbe dunque una modifica dell’Italicum per virare verso il Sì?
Credo che la riforma sia cattiva di per sé, indipendentemente dalla legge elettorale. E questa è l’opinione di gran parte del pensiero costituzionalistico: sfogliavo ad esempio l’ultimo libro di Mario Dogliani (Costituzione e antipolitica, Ediesse 2016), uno che se ne intende di queste cose più di Matteo Orfini, che dice che si tratta di un sistema confuso, approssimativo, che renderà estremamente incerto l’iter delle leggi, prevedendo una molteplicità di iter legislativi. Dogliani spiega che non è chiara la definizione delle materie di cui il Senato potrà occuparsi, e ritiene che questo darà alla Corte costituzionale molto lavoro dal momento che potrà essere contestata l’approvazione delle leggi. Qualcuno potrà alzarsi e dire «ma no questa è una legge che doveva essere approvata dal Senato...». La riforma, di suo, porta quindi caos e non semplificazione e tempi più rapidi.
E quindi la linea Bersani - ma anche Scalfari -, e cioè “se Renzi cambia l’Italicum” votiamo Sì, altrimenti è No, non è anche la sua?
No, non è la mia. Io credo che la Riforma sia sbagliata in sé. Certo, anche la legge elettorale. Ed è chiaro che il combinato rende il tutto ancora più grave. Penso che l’impianto della nuova Costituzione sia gravemente squilibrato a favore dell’esecutivo, senza un adeguato sistema di contrappesi e di controlli. Che fu poi - se ci pensate - la ragione fondamentale per cui votammo no alla Riforma Berlusconi.
Lei è un conservatore?
No. E vorrei far notare che in Italia, anche prima di Renzi, si sono fatte molte riforme. Alcune importanti e positive, come quella della legge elettorale uninominale maggioritaria, che creava un Parlamento autorevole perché formato da persone che avevano un mandato diretto e che certamente fu spinta dal referendum. Io ero capogruppo del maggiore partito di sinistra, Mattarella era relatore e fu una riforma condivisa. Secondo me sarebbe una buona soluzione a cui tornare. Continuo? Ci sono l’elezione diretta dei sindaci e quella dei presidenti delle Regioni. Abbiamo anche fatto diverse riforme costituzionali: abbiamo riformato l’articolo 68 sull’immunità parlamentare, abbiamo introdotto il principio del giusto processo, abbiamo riformato l’articolo 81 che introduce l’equilibrio di bilancio in Costituzione, giusto o sbagliato che sia… Quindi quando si dice che nessuna riforma è stata fatta prima che arrivasse Renzi, si dice una cosa non vera. Io sono un forte sostenitore del fatto che le riforme costituzionali vadano promosse, ma che si debba scriverle con una larga maggioranza. Non per una ragione di bon ton, ma per una ragione di stabilità delle regole fondamentali di un Paese democratico. Se vale il principio che ogni governo può cambiare la Costituzione, la Costituzione stessa perde ogni sacralità e diventa una legge ordinaria. Questo riduce fortemente la certezza del diritto e la stabilità delle istituzioni. Cambiare la Costituzione con una maggioranza risicata significa introdurre precarietà, perché ogni volta che cambia la maggioranza parlamentare potremmo avere un’altra Costituzione.
Perché questa volta molti suoi colleghi di partito invece hanno votato Sì a questa riforma?
Non lo so. Sulle questioni importanti io tendo a non cambiare opinione: avrei votato No per le stesse ragioni di allora. Con l’aggiunta questa volta che la maggioranza che ha votato la riforma di Renzi non è la maggioranza che ha vinto le elezioni, dunque non si può neanche dire di avere un mandato popolare per cambiare così la Carta. Certo, può legittimamente governare perché siamo in un regime parlamentare, tuttavia che questa maggioranza fatta di trasformismo parlamentare possa cambiare la Costituzione è cosa vieppiù discutibile sotto il profilo di principio. Aggiungo che il presidente del Consiglio, dopo aver detto il contrario - ma è un giovane di notevoli accenti - ha dichiarato che anche se vince il No, la legislatura continuerà fino al 2018... e allora c’è tutto il tempo di fare una riforma costituzionale ragionevole.
Questa - e questa volta nelle mani agita il libretto della Riforma Boschi - è un volume che abbiamo letto in pochi, che modifica tanti articoli della Costituzione. Mentre sarebbe stato più sensato invece dividere la materia in cinque disegni di legge e quindi sottoporre cinque quesiti: in questo modo i cittadini avrebbero potuto dire Sì ad alcune modifiche e non ad altre. Invece si è voluto un plebiscito, si è voluto chiedere un Sì o un No sul titolo di un volume, di un libro. Questo non è un referendum.
E quale riforma allora si sarebbe potuta fare?
Si può fare una riforma costituita da tre articoli che preveda la riduzione del numero di deputati di 200 e del numero di senatori della metà e l’eliminazione della navetta prevedendo che se un ramo del Parlamento corregge un disegno di legge anziché ritornare all’altro ramo del Parlamento si istituisce un Comitato di conciliazione (come negli Stati Uniti) ed è poi il Comitato che sottopone il testo prevalente. Si potrebbe anche - se c’è accordo - attribuire alla sola Camera il compito di dare la fiducia a un governo. Insomma, poche pagine in tutto e la risoluzione di quasi tutti i problemi seri: il bicameralismo, le lungaggini, senza questa sbrodazza che invece ci viene sottoposta oggi. È chiara, è semplice e si può approvare in sei mesi. Sono un conservatore? No. Sono una persona di buon senso.
Se dovesse vincere il Sì, cosa succede al Pd? Ha letto il giudizio che ne da Luciana Castellina? «Il Pd è l’aborto del Pci, non è il figlio». Forse la sinistra deve tentare un’altra strada?
Volgo in positivo il ragionamento: se vince il No, si apre una nuova prospettiva per il centrosinistra, si riapre una discussione politica e la possibilità di ristabilire un rapporto con il nostro popolo, che in gran parte se ne è andato. Perché anche questo dobbiamo dire: qui si parla di scissione, ma la scissione è già avvenuta, nel senso che ci siamo scissi da migliaia di elettori che in misura prevalente sono rimasti a casa e in certa misura hanno votato per il Movimento 5 stelle. Nessuno fa questo calcolo. Renzi ha detto, dopo le amministrative, che era difficile esprimere un giudizio perché un po’ avevamo perso e un po’ vinto. In realtà, dati alla mano - e anche quelli ce li mostra - abbiamo perso un milione di voti rispetto alle precedenti amministrative, e il numero dei voti che abbiamo perso è stato spesso superiore al numero delle persone che hanno smesso di votare. Faccio l’esempio di Torino, ma lo stesso è a Milano e altrove: nel 2011 hanno votato 470.946 persone, nel 2016 hanno votato 397mila persone, cioè hanno votato 73mila persone in meno. Fassino nel 2011 ha avuto 255mila voti, nel 2016 ne ha avuti 168mila: sono 87mila voti in meno. Quindi c’è una fetta grandissima di nostri elettori che ha cessato di votarci e non tornerà a votarci e una parte che vota Grillo perché pensa che sia un modo per battere Renzi. Si è consumata una frattura, che io ho definito tempo fa una vera e propria “rottura sentimentale” perché è più di un dissenso politico.
Quindi se vince il No, crede sia possibile immaginare di “riprendersi” il Partito?
Se vince il No io credo che si riaprirà un confronto politico vero nel centrosinistra e quindi anche nel Pd. Ma il problema oramai va ben oltre il Pd, perché io parlo di tantissime persone che non sono più nel Pd, che non rinnovano più la tessera del partito. Il Pd si va sfaldando da tempo.
Ma se invece vince il Sì...
Se vince il Sì il processo di sfaldamento andrà avanti ulteriormente.
C’è voglia di scissione? Di fare altro nella sinistra?
Mi ripeto, la scissione è già in atto. Molti sono andati... si sono scissi. Però, allo stato delle cose non c’è una parte rilevante del gruppo dirigente che sta progettando una scissione. Diciamo, oggi è così, domani non sappiamo.
Lei viaggia e discute molto in Europa e non solo. Non le pare che le difficoltà a immaginare una nuova sinistra non siano solo quelle dell’Italia? Hollande e il Partito socialista francese sono in enormi difficoltà, il Labour è diviso sulla leadership di Corbyn. Non le sembra piuttosto che tutta la sinistra europea attraversi una crisi di identità perché incapace di abbandonare il modello degli anni 90 blairiani? Proprio oggi che una protagonista di quegli anni, Hillary Clinton, corre per la presidenza Usa con una piattaforma molto più spostata a sinistra, centrata su diritti sociali e intervento pubblico in economia.
Che Hillary Clinton si muova su una piattaforma più di sinistra è molto interessante, e lo è anche il fatto che negli Usa ci sia questo ritorno identitario del mondo progressista, come risposta alle disuguaglianze sociali. In Europa questo non c’è ancora, con quei partiti sempre più marginali. In alcuni casi, questa assenza di coerenza politica e ideale della sinistra ha prodotto dei cambiamenti radicali. Come in Grecia, dove il Partito socialista è scomparso ed è stato sostituito da un altro partito della sinistra, o come in Spagna dove Podemos si è affiancato ai socialisti. Mi spiego: non è che non ci sia più la sinistra, è che la socialdemocrazia fatica oggi a ritrovare, con coerenza, un proprio ruolo che non può che essere quello di una grande forza critica della globalizzazione dominata dal capitalismo finanziario e delle disuguaglianze che essa ha prodotto. È un processo che riguarda tutta la socialdemocrazia e direi che il Pd in Italia è l’esempio più chiaro di questa crisi.
Renzi invece si dipinge ancora come l’erede della Terza via…
A Renzi andrebbe detto che la Terza via è fallita e, tra l’altro, che è un’esperienza che risale a vent’anni fa: difficile presentarla come il nuovo che avanza. È fallita perché, muovendo da una visione troppo ottimistica della globalizzazione, ha sottovalutato le contraddizioni che questo processo avrebbe aperto: nuove disuguaglianze, nuova povertà e quindi la necessità di una regolazione. La Terza via - in sintesi - è stata una forte immissione di pensiero liberale nella tradizione socialista, è andata nel senso di favorire la deregulation, ed è stata la premessa della globabilizzazione di questi anni. Ma molti dei protagonisti di quegli anni hanno fatto autocritica, a partire da Bill Clinton, il quale ha detto che l’errore della Terza via fu quella di aver sottovalutato la necessità di un ruolo forte dello Stato. È interessante vedere come oggi ci sia una profonda revisione nel campo culturale dove sicuramente c’è un forte ritorno di pensiero keynesiano e antiliberista, da Stiglitz a Krugman, da Piketty a Mazzucato. Ma questa nuova ondata culturale ancora non ha influenzato adeguatamente la politica che rimane, soprattutto in Europa, prigioniera di una visione liberista. L’ultraliberismo è sottoposto a una grande critica, non solo negli Usa. Guardiamo alla Cina, dove si è rallentata la crescita per migliorare le condizioni di vita delle persone e per ridurre l’inquinamento. I comunisti cinesi sono in sostanza passati da una svolta iperliberista ad una socialdemocratica. Mentre l’Europa rimane dominata ancora da questa cultura ordoliberale di matrice tedesca che ha dato un imprinting a tutta la costruzione europea fino a condizionarne non solo le policies ma le regole e le istituzioni. E in questo contesto, il giovane Renzi invece di intraprendere una via di correzione, sembra muoversi nella direzione addirittura di una riscoperta del blairismo degli anni 90.
Invece che ruolo potrebbe giocare l’Italia in Europa? È auspicabile e fattibile un fronte anti austerity dei Paesi dell’Europa del sud, come chiede Tsipras?
Renzi fa una campagna anche mediatica, giusta, a favore di una politica fatta di maggiori investimenti e meno austerità, ma poi tutto questo si traduce in una richiesta di flessibilità. C’è sempre un elemento di astuzia in lui, per ottenere margini di maggiore flessibilità che gli consentano di fare politiche di acquisizione del consenso. Diciamo che gioca molto per sé più che per un cambiamento generale. Anche se lui però potrà giustamente dire che gli alleati per un cambiamento generale sono deboli e scombinati, e poi magari sono divisi sul tema dell’immigrazione. È molto difficile in questo momento trovare un fronte unito che sia al contempo progressista ed europeista. Bisogna dirlo. E bisogna lavorare affinché si delinei in vista delle prossime europee. Occorre innanzitutto un salto di qualità del movimento socialista che a mio parere deve passare per un forte rafforzamento del Partito socialista europeo. Per ora, siamo tutti troppo dentro al gioco intergovernativo, mentre il vero problema è costruire un governo forte dell’Europa e dare un peso effettivo alle istituzioni comuni, al Parlamento europeo. Perché anche l’idea di un ministro unico dell’Economia, invece, da solo, non è la soluzione. Senza un’armonizzazione delle politiche sociali, infatti, rischierebbe solo di essere un ulteriore controllore.
Che giudizio dà delle politiche migratorie europee e italiane? Che pensa del Migration compact, ad esempio?
È chiaro che siamo di fronte a una situazione di difficilissima gestione, e che c’è una crisi di rigetto, qualcosa che spinge a destra. La somma di crisi economica, disoccupazione, immigrazione e terrorismo è esplosiva. Il nesso improprio, ma che scatta nella testa della gente, tra immigrazione e terrorismo crea il caos. Per questo dobbiamo distinguere: c’è il problema dei rifugiati, e dal punto di vista giuridico è giusto mantenere ferma la distinzione tra rifugiato e migrante, tenendo fermo l’obbligo di accoglienza per il rifugiato. E poi dobbiamo cercare di organizzare un sistema di ripartizione - cosa che per la verità la Commissione ha già proposto, ma con scarsi risultati. Per quanto riguarda la migrazione clandestina, noi da tempo negoziamo accordi di riaccoglienza con i Paesi di provenienza che normalmente si accompagnano con degli aiuti economici. Bisogna continuare a farlo, evitando però di fare quello che il governo Berlusconi fece senza problemi. Da ministro degli Esteri non firmai l’accordo con Gheddafi perché lui non ha mai ratificato la convenzione di Ginevra. Lo fecero pochi mesi dopo Berlusconi e i suoi... erano meno preoccupati dalla questione dei diritti umani.
Se pensa alla sua vita, cosa non rifarebbe?
La principale cosa che non rifarei è accettare di fare il governo nel 1998. Non lo farei più, restando dov’ero, cioè alla guida del Partito democratico della sinistra. Fu un errore di cui non calcolai bene le conseguenze che sono state molto pesanti. Poi ne ho fatti tanti altri, ma non c’è tempo... il mio treno parte.
Cosa rifarebbe invece?
Rifarei gran parte di quello che ho fatto. Io non sono pentito della mia vita, non sono pentito di essere stato un giovane comunista, di avere contribuito alla trasformazione del Pci...
Oggi tra terrorismo, nuove tecnologie, il potere di alcune grandi aziende, immigrazione, le disuguaglianze. Cosa la preoccupa di più?
Le disuguaglianze. La risposta è facile.
Un’ultima domanda. In ballo c’è la Costituzione, era troppo difficile stare a guardare o non si può stare a guardare?
In questo caso, non si poteva stare a guardare. Sono in gioco principi fondamentali per il Paese. Un uomo di Stato è giusto che si prenda le sue responsabilità.