Intervista
28 febbraio 2020

Un riformismo che balbetta irrimediabilmente fallisce

Intervista di Gianni Giovannetti - LEFT


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Gli uffici della fondazione ItalianiEuropei di cui Massimo D’Alema è presidente, affacciano su due degli scorci più belli della Roma rinascimentale: da un lato Campo de’ Fiori e dall’altro piazza Farnese. È un luogo, al terzo piano di un austero e un po’ appassito palazzo seicentesco, che è come sospeso fra terra e cielo sulla testa dei romani e dei turisti che tutti i giorni e a tutte le ore formicolano da quelle parti ignari di molte cose, tra cui la vicinanza di uno degli ultimi capi di un comunismo che non c’è più, né in Italia né altrove. Un “ex capo” che tuttavia riceve ancora, in questo spicchio sorprendente e saporito della Roma dei papi, una sempre nutrita schiera di potenti e di gran commis, di intellettuali e capitani d’industria che gli fanno visita, lo consultano, si confrontano, chiedono e danno benedizioni”. Mangia ancora una banana per pranzo, Massimo D’Alema, e si aggira per questi stanzoni ampi e dai soffitti con le volte a crociera, le pareti affollate di libri, i tavoli lunghi e spaziosi e di design, come un sacerdote con i suoi riti, dedito alla scrittura e alla lettura di libri, più propenso a coltivare gli studi che l’agone politico. E per un combattente della politica e un maestro dell’arte del governo, per un capo che non ha mai rinunciato alla sua vocazione leaderistica, l’dea di una sua estraniazione dalla competizione in campo aperto stride rumorosamente con una storia e un presente che - talvolta anche suo malgrado - lo vedono ancora protagonista polemico e ‘informato dei fatti’.

Ma perché lei vuole a tutti i costi dare di sé questa immagine distaccata, quasi da stilita, del suo rapporto con la politica e i politici italiani?

«Ma perché è così, è la verità. Mi sono messo in pensione da tutto questo: dalle polemiche, dalle grida, dalle competizioni sgangherate, ma non mi sono appollaiato su una colonna. Provo a dare il mio contributo alla politica e alla cultura di sinistra studiando, scrivendo, riflettendo senza dovermi ogni volta assoggettare al peggio che solo una certa politica sa esprimere».

Ma nel frattempo coltiva relazioni importanti, capeggia riunioni, si dice anche che dispensi consigli a certi suoi successori istituzionali in difetto di esperienza...

«Non ci siamo capiti: non mi sono dimesso dalla politica, ma dalla praticaccia della politica del giorno per giorno. Ho fatto anche scelte dolorose per evitare di essere invischiato umanamente in un cattivo rapporto tra le persone e, diciamo pure, mi sento meglio e più libero di pensare e di dire. Lavoro molto, come sempre, e mi fa piacere se qualcuno mi chiede pure consiglio: Non potendo dare cattivi esempi, provo a dare buoni consigli, come ci cantava Fabrizio de Andrè...».

D’Alema, che significato ha per lei la parola Socialismo?

«È una parola grande che, storicizzandosi, ha in parte esaurito la funzione che ha avuto nel corso del ‘900. Quel movimento di idee e di uomini ha rappresentato a lungo una certa visione critica del capitalismo e guidato un processo di emancipazione che ha cambiato ovunque le sorti della crescita civile e dello sviluppo delle società d’Occidente. Il problema oggi non è tanto l’attualità della parola. Il punto da cui riprendere le mosse è una critica forte alla globalizzazione capitalistica che pure, in un primo momento anche nel perimetro della cultura socialista europea, era stata considerata portatrice di espansione e ricchezza. Ma quando la crisi ha fatto sentire i suoi artigli di fuoco sulla carne dei ceti più deboli e di fronte all’impoverimento di vaste aree sociali, la sinistra era già in ritardo, dopo aver dato una lettura troppo ottimistica della globalizzazione. Così ha fatto mancare un agire politico che ponesse un argine agli squilibri e alle diseguaglianze di un turbocapitalismo senza regole, nel quale ancora viviamo».

Insomma, la sinistra non si è accorta, non ha ascoltato, non ha compreso quel che capitava e ancora capita sotto i propri occhi, non solo in Italia. Come scrive Brian Eno, a proposito della Brexit nella sua Inghilterra: Eravamo lì dietro, seduti, a guardare Netflix... E su questa breccia, per l’appunto, sono montati i sovranisti e i populisti di ogni latitudine. E ora?

«Si, la sinistra aveva abbracciato una visione acritica della globalizzazione ed il punto di rottura si colloca tra il 2007-2008 quando, di fronte al brutto manifestarsi della crisi, è drammaticamente mancata una capacità di reazione politica ugualmente determinata quanto spregiudicata è apparsa la strategia espansiva degli interessi neoliberisti. Una globalizzazione senza una pari affermazione di politiche progressive, che pongano in essere meccanismi di difesa per i più deboli, di redistribuzione delle risorse e delle opportunità, è una globalizzazione che genera disequilibri, conflitti, rancori, precarietà. E un senso di precarietà che non appartiene soltanto alla sfera lavorativa, ma è una vera e propria precarietà di vita. Questo senz’altro ha scatenato un disagio e una ribellione sociale che in gran parte è andata a rifugiarsi tra le braccia dei nazionalismi, degli etno-razzismi, dei populismi più beceri, portatori di passioni bieche e tristi: un paese come l’Italia, che secondo l’Istat perde ogni anno più di 100 mila abitanti - ogni anno una città come Modena scompare! -, un paese che invecchia e si deprime ma si dà come orizzonte di chiudere i confini, coltiva una prospettiva disperata».

Eppure, quelle stesse passioni bieche e tristi sembrano gonfiare irresistibilmente, ancora oggi, le vele delle destre. Dov’è la sinistra e dove l’Europa?

«C’è da dire innanzitutto che la sinistra non è arrivata all’appuntamento con quella sconfitta sul fronte della globalizzazione, in una condizione di totale inconsapevolezza. Era a tutti noto che occorresse un governo, locale e internazionale, delle ricadute dell’espansione capitalistica globale; che in Europa la moneta comune presupponesse un’unione politica più strutturata e capace; che i sovranismi erano in agguato. Ma, ecco, la politica non ebbe la forza sufficiente di contrastare lo strapotere economico dei mercati e delle lobbies. E se poi, con un capitalismo globale che estende e fortifica i propri interessi, l’agire politico resta chiuso nell’ambito dei propri confini nazionali, allora fatalmente perde nel confronto con l’economia. Per questo l’Europa diventa, ancor più oggi, cruciale, altro che nazionalismi! Ma un’entità europea che non sia solo più banca, moneta, mercato. Abbiamo bisogno di un’Unione europea e di un governo di quell’Unione che metta in campo una più forte e coraggiosa politica di correzione delle storture e delle sperequazioni sociali prodotte da un capitalismo
senza più regole e vincoli pubblici. Rivedendo anche i suoi parametri, certo. Ma soprattutto avendo più lucida contezza delle proprie capacità e dei propri orizzonti. Joseph Stiglitz ci ricorda - e non è mai tardi per impararlo - che le diseguaglianze uccidono le democrazie».

E la sinistra?

«E la sinistra deve riappropriarsi di se stessa, fino in fondo. Vede, quando una sinistra, e il riformismo non riescono più a trasmettere un’idea di società e un’idea di futuro; quando non riescono a farsi ascoltare e non ascoltano più; quando non raccolgono un bisogno e/o una speranza che pure arrivano chiassosamente dalla società; quando non si parla più la stessa lingua e si fa fatica a riconoscere e condividere un cammino comune, allora bisogna fermarsi e ricominciare...».

Per esempio, ricominciare da dove, D’Alema?

«Dalla ricostruzione di un ‘rapporto fisico’ con il popolo. Un rapporto che abbiamo smarrito, abbiamo accantonato dietro le quinte del partito liquido, post-ideologico, post-identitario; un partito all’americana, con le primarie e le convention da comitato elettorale. Occorre ricostruire invece una forma di soggettività politica organizzata, e ricostruirla in mezzo al popolo. Ma non è possibile una sinistra che non ha più radici e identità. Non è pensabile un riformismo che si risolve in una gestione dell’esistente: di fronte alla domanda di un orizzonte di speranza, se il riformismo balbetta, irrimediabilmente perde. E ci deve essere un luogo fisico dove le persone, anche se incazzate con te, sanno che ti trovano. Certo, c’è anche la ‘Rete’ e un modo più professionale ed efficace di usarla. Ma una forza organizzata, in grado di utilizzare i mezzi contemporanei, è soprattutto una forza organizzata fatta di persone reali, che ti servono in rete e fuori».

Di recente lei ha detto che bisogna ri-sintonizzare “il realismo politico con l’utopia” per ritrovare un contatto con quel popolo “che abbiamo smarrito”. Dentro questa sua lettura sta anche la scelta dell’alleanza di governo con i 5Stelle?

«La scelta di questo governo con Pd, Leu e 5Stelle era una scelta obbligata, un tentativo da fare. Ma sarebbe stato meglio farlo appena dopo il voto. Aver sospinto invece, in quel passaggio, Di Maio e gli altri tra le braccia della Lega, è stato un errore storico. Un governo fondato su questa alleanza avrebbe potuto invece vedere la luce in un contesto diverso e più coerente, dentro un’idea di ritorno a un bipolarismo che serve alla democrazia italiana. Ma il cammino era, e lo è ancor più oggi, complicato. Qui pesano due fattori: la frattura di Renzi e questo suo giocare su più tavoli contemporaneamente; e poi la crisi dei 5Stelle che è a tutti gli effetti una grande crisi culturale, secondo me. Il Movimento aveva ed ha bisogno di tematizzare quello che è successo in questi due anni. Ma stenta a farlo e adesso si ritrova con dei paradigmi nei quali la realtà fa fatica ad entrare anzi proprio non ci sta in quei paradigmi. E cosi il movimento sbanda, perde lucidità».

Per caso rimugina su quel popolo che ha voltato le spalle al Pd per votare 5Stelle e oggi se ne può essere pentito?

«Sarebbe semplicistico immaginare di poter approfittare elettoralisticamente di una crisi culturale. È in gioco una sfida ben più importante e che riguarda l’orizzonte politico di questo paese. Ripeto: la realtà è entrata in rotta di collisione con uno schema che dice, per esempio, che non esistono più né destra né sinistra. Non è stato mai così vero il contrario, perché da un lato Salvini è riuscito a ricucire un fronte di destra più coeso e agguerrito, dall’altro Zingaretti - perché la destra ha risvegliato la sinistra - lavora alla rifondazione di un nuovo campo progressista in cui collocare la sua idea di ‘nuovo’ Pd, e confido ci riesca. Ecco: se il movimento 5Stelle non riuscirà a cambiare la sua narrazione, se non capirà che la sua carica innovativa e visionaria ha bisogno di collocarsi in un’alleanza più strutturata e forte nel campo del centrosinistra, allora fatalmente l’Italia verrà riconsegnata nelle mani delle destre».

Si è scritto che lei nutre una certa ammirazione per Giuseppe Conte, peraltro, ricambiata, proprio sul discrimine tra destra e sinistra e sulla comune, fiera opposizione a Salvini. È così?

«Non so di ammirazioni ricambiate... Dico soltanto che Conte ha colto perfettamente la necessità per loro di “essere portatori di un populismo gentile - come dice lui - che si opponga strenuamente a una destra becera, razzista e nazionalista”. Il fatto di aver colto e di riproporre questa sostanziale distinzione del campo politico, me lo fa certamente apprezzare. L’alternativa a questa visione, vorrebbe dire arrendersi alla destra. E basta dare uno sguardo all’America di Trump per capire qual è il rischio e quali le drammatiche conseguenze».

Ammirazione per Conte, e la sua opinione su Renzi?...

«La prego, non mi induca in tentazione...».

A proposito di Trump, se lei fosse un elettore del partito democratico americano, a chi darebbe il suo voto tra Sanders, Biden e Buttigieg?

«Io cercherei un candidato in grado di battere Trump. Sanders ha una personalità molto forte come molto forti, e condivisibili, sono alcune sue analisi sulla società americana. Quello che penso, però, è che questo suo grande carisma di uomo di sinistra alla fine potrebbe non funzionare con il consenso largo degli americani. Io sono peraltro convinto che la maggioranza dei cittadini di quel grande Paese non sta con Trump, d’altra parte, anche nel confronto con Hillary Clinton, lui ottenne meno consensi della sua avversaria democratica. Il problema è che l’elettorato democratico è una sorta di coalizione di minoranze: ci vuole un candidato capace di metterle insieme. Spero ci riescano, perché il danno che produce questo attuale presidente è enorme. E non solo dall’altra parte dell’Oceano».

L’intervista è giunta al termine, stiamo per accomiatarci da Massimo D’Alema anche se con lui resta spesso una buona voglia di continuare a chiedere e a sapere. Un po’ per il timore di aver smarrito per strada qualche argomento, poi per il dubbio di non aver colto - nei suoi ragionamenti, in qualche sopracciglio alzato, in un’incidentale, apparentemente innocua allusione - magari il senso di questa o quella possibile rivelazione. Infine, si esita anche perché risulta stimolante conversare di politica con Massimo D’Alema, a prescindere dalla condivisione o meno dei punti di vista. Ed esitando, vengono fuori magari ulteriori curiosità extra-intervista. Come correzione di bozze al suo ultimo libro per l’editore Donzelli dal titolo (provvisorio) Grande è la confusione sotto il cielo. Sei lezioni sulla crisi dell’ordine mondiale. “Sto letteralmente ammattendo”, annota...

Un’ultima cosa, D’Alema: è ottimista o pessimista la sua visione del futuro?

«Gramsci sosteneva il Pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, contro ogni concezione fatalistica che cancella totalmente la funzione attiva degli uomini nella storia. In una visione
nella quale l’esistenza di ciascuno non segue uno sviluppo lineare, ma determina un campo di esiti possibili. Dentro questo campo è poi l’azione umana che cambia gli orizzonti e spinge in avanti il progresso. Dunque, il futuro dipende da ciò che riusciamo a fare fin da adesso, prima che arrivi. E bisogna subito rimboccarsi le maniche per correggere drasticamente la qualità dello sviluppo. Per la salvezza dell’umanità, prima che sia tardi».

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