Intervista
22 settembre 2020

«Grazie alle sue critiche il Pci riuscì a misurarsi con il Sessantotto»

Intervista di Cosimo Rossi - il Manifesto


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«Rimasi assolutamente ammaliato dal fascino freddo, aristocratico di questa donna di straordinaria e finissima intelligenza». Fascinazione che ha quasi i contorni della seduzione, quella esercitata dall’allora deputata comunista Rossana Rossanda nei riguardi di un 18enne Massimo D’Alema, fresca matricola universitaria che si sarebbe poi «legato politicamente all’esperienza del manifesto rivista fino a che non si consumò la rottura col partito».

In che occasione hai conosciuto Rossana Rossanda?

Era la fine del 1967. Io ero uno studente appena iscritto al primo anno della Normale e fui inserito nel comitato nazionale del Pci per l’università in cui noi studenti ci trovavamo insieme a dei mostri sacri come Cesare Luporini e appunto Rossanda. E ricordo molto bene l’impressione di fascino che esercitò su di me questa donna minuta, altera, dall’intelligenza acutissima…

In quel contesto, a cavallo del ’68, vi hanno impegnato nell’organizzazione di qualche iniziativa o solo in occasioni di dibattito politico?

Più che l’organizzazione di iniziative, con Rossanda erano la capacità di analisi e di apertura, lo spirito e il pensiero critico, il senso del rispetto a venir chiamati in causa. Parliamoci chiaro: se il Pci non ha avuto verso il Sessantotto l’atteggiamento ottuso e autodistruttivo dei comunisti francesi è dovuto in parte proprio a lei. Rossanda proveniva da un ambiente milanese, quello del filosofo Antonio Banfi, foriero di una lettura moderna del marxismo. La mia formazione era più tradizionalmente storicista. Lei veniva invece dalla tradizione più scientifica e innovativa del razionalismo critico. E credo che questa influenza sia stata significativa: certamente lo è stata per me. Non si capirebbe altrimenti la diversità del Pci in rapporto al Sessantotto rispetto ai comunisti francesi, che da quel momento si sono instradati al declino. Rossanda ha esercitato un’influenza importante sul modo in cui la sinistra politica ha saputo misurarsi col movimento, che ha consentito a una parte di quella generazione di avvicinarsi alla sinistra italiana. Nella sua visione, poi, occorreva certamente accelerare di più nel senso di una maggiore revisione e innovazione culturale. Paradossalmente però, pur avendo spinto la critica al partito fino a consumazione della rottura, è a quella sua stessa influenza che si deve l’apertura del Pci al Sessantotto.

In quel frangente il ventenne Massimo D’Alema che rapporto intrattenne col «gruppo del manifesto»?

Insieme a Fabio Mussi c’eravamo legati piuttosto strettamente a questa esperienza, che da studenti militanti condividevamo sul piano politico e intellettuale. Quando iniziò la pubblicazione del manifesto rivista c’impegnammo in un’attività di corrispondenza da Pisa, con tra gli altri Maurizio Iacono: facevamo gli abbonamenti e promuovevamo la rivista; incontrandoci a volte a Roma con Rossanda, Filippo Maone, Lucio Magri. Eravamo studenti del partito e al tempo stesso partecipi del movimento. E nel partito ci venne rimproverato anche con una certa asprezza di far abbonamenti per una rivista che veniva sempre più accusata di attività frazionistica che, debbo dire francamente, il gruppo del manifesto in realtà non svolgeva affatto. Al riguardo, mi ricordo una discussione alquanto tempestosa col compagno Giorgio Napolitano, che nel frattempo dal 1969 aveva assunto la responsabilità culturale. Quando poi apparve chiaro che avrebbero testimoniato il dissenso fino a farsi espellere, decidemmo di non seguirli.

Avevate forse considerato la possibilità di farlo?

Abbiamo avuto il dubbio: sarebbe stato abbastanza naturale per le convinzioni che avevamo. Facemmo in proposito una lunga conversazione a due con Fabio Mussi, il quale concluse lapidario: extra ecclesiam, nulla salus (fuori dalla chiesa non c’è salvezza, ndr). Con tutti i difetti, il partito rimaneva per noi un riferimento irrinunciabile di lotta, e non ci sembrava che andarsene avrebbe dischiuso grandi prospettive. Sono sicuro che Rossanda rimase delusa da quella che le parve una nostra mancanza di coraggio. Non molto tempo dopo, venne a Pisa a fare un seminario su Rosa Luxemburg al quale partecipai e dovetti sostenere i suoi algidi sguardi di rimprovero. Diciamo pure che fu un momento doloroso. Quando poi, nel ’75, diventai segretario della Fgci Luciana Castellina scrisse sul manifesto un bellissimo articolo molto amichevole verso questo giovane che aveva condiviso parte della loro esperienza e perciò non era da intendere solo come una variante della burocrazia interna.

Con Rossanda invece ci sono state occasioni di rinnovare un dialogo?

Onestamente non tanto. Da allora ho avuto numerose occasioni di contatto con Luciana e soprattutto con Lucio Magri. Con Rossana e Luigi (Pintor ndr) siamo rimasti lontani. Il che non ha mai appannato la mia grande stima intellettuale. Ho continuato a leggerla, devo dire riscontrandone sempre la straordinaria lucidità e passione politica. Lei stessa, d’altronde, si è allontanata anche fisicamente dalla scena politica italiana trasferendosi a Parigi. È stata una compagna di straordinaria passione militante, ma è sempre stata prima di tutto una grande intellettuale: appassionata alla politica ma altresì con un certo, quasi necessario distacco dalla politica in senso stretto.

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