Presidente Massimo D’Alema, gli Usa sono arrivati al voto divisi, in un clima sociale molto teso, dopo una campagna elettorale piena di violenze e vuota di programmi. Adesso Trump grida alla frode e invoca l’intervento della Corte Suprema. La “transition” alla Casa Bianca sarà qualcosa di mai visto prima?
E’ la manifestazione di una crisi drammatica. Un sistema dove chi prende 4 milioni di voti in più potrebbe non essere presidente è il residuo di un’epoca passata, non facilmente comprensibile oggi. Bisogna però dire che in America e in tutto il mondo occidentale le nostre società sono sempre più lacerate. Si sono approfondite le diseguaglianze non solo di reddito: c’è una profonda frattura culturale tra chi possiede gli strumenti conoscitivi per affrontare le incognite della contemporaneità e chi non li possiede. La rottura tra il centro e le periferie, tra l’alto e il basso, è ormai totale. L’incertezza delle prospettive si riflette nella percezione della perdita del ruolo egemone dell’Occidente. Il populismo è espressione anche di tutto questo. E’ inevitabile che il modello americano ne sia scosso: si fonda sull’alternanza all’interno di un sistema di regole condivise, su un sostanziale fair play.
Uno schema che Trump ha gettato alle ortiche. Se si confermerà la vittoria di Biden, sarà la fine del “trumpismo”?
Trump non è stato una parentesi transitoria. Rappresenta un elemento di crisi rispetto alla tradizione democratica americana: ha detto prima del voto che non avrebbe accettato il verdetto, e questo non è normale. Ma è un fenomeno destinato a rimanere: il populismo nazionalista, etnocentrico, basato sul ruolo della razza bianca, attraversa tutto il mondo occidentale. Dall’altra parte, riunita in un solo partito c’è la “coalizione democratica” che deve rendersi consapevole della necessità di cambiamenti profondi perché il neoliberismo non funziona più. Con i Democratici al governo si aprirà una stagione nuova. Ma l’agenda è impegnativa: considerare che si è chiusa una parentesi di follia e si può tornare al solito tran tran sarebbe un grave errore.
I Repubblicani, molti dei quali sono contenti della sconfitta di Trump, sono evaporati in questi quattro anni intorno a un “corpo estraneo”. Mentre i Democratici si sono affidati all’usato sicuro, al buonsenso di un moderato. Come sta cambiando il panorama politico americano?
I Democratici hanno scelto una personalità capace di unire il campo progressista. Ma non è stata una campagna elettorale all’insegna del buonsenso contro la sregolatezza. C’è stato uno scontro drammatico e radicale di sistema. E’ vero che si è parlato poco di programmi, ma il terreno di contesa, come mai prima d’ora nella storia statunitense, è stato quello dei principi di libertà e democrazia, proprio come ha più volte detto Biden. C’è un video dei Democratici, diventato virale, in cui Trump è paragonato a Hitler. Non mi sembra certo un messaggio moderato.
Alla fine, chi avrà sconfitto Trump: Biden o il coronavirus?
Io credo che senza il coronavirus Trump non avrebbe perso. La pandemia ha radicalizzato lo scontro: il primato della vita contro il primato dell’economia, la solidarietà nei confronti dei più fragili contro il superomismo di chi sopravvive. Il rimettere al centro del dibattito i valori della scienza, della vita e della salute, ha mobilitato in forze il popolo Democratico che magari non era stato attratto dalla personalità del candidato.
Molti analisti sostengono che senza l’ombrello di Trumpo il sovranismo mondiale ed europeo verrà ridimensionato. Condivide?
In Italia il sovranismo ha subito una battuta d’arresto anche prima di questo voto. In Francia, Germania, Spagna non è mai passato. Certo, c’è l’Ungheria di Orban. Ma nel cuore della vecchia Europa governa quella che ho chiamato la “coalizione democratica” che, finalmente, con Biden, avrà un interlocutore dall’altra parte dell’Atlantico. E’ un fatto molto importante. E adesso nella destra europea si aprirà una riflessione che forse farà capire che le leadership populiste hanno dei limiti a livello di credibilità di governo.
Che tipo di limiti?
Chi governa un Paese deve essere considerato un interlocutore accettabile dagli altri leader della comunità internazionale. Chi sceglie di non esserlo paga un prezzo altissimo. Un prezzo che per l’Italia sarebbe quasi insostenibile. Forse, a seguito del voto americano, le posizioni estreme verranno ridimensionate. E le destre si attesteranno su posizioni memo illiberali del trumpismo.
Chi guadagnerà la Casa Bianca avrà di fronte un’agenda impegnativa, lei diceva prima. Da dove partire?
Il grande problema di oggi, in America come in Europa, sono le rivolte sociali e culturali, contro la globalizzazione, che si sono espresse attraverso il trumpismo ma hanno tuttora una base forte. All’origine ci sono problemi reali: crisi economica e senso di smarrimento. Le persone non si sentono più padrone del proprio destino. Credo che il primo punto di un’agenda seria di governo sarebbe la riforma del capitalismo. Riprodurre su scala globale quanto è avvenuto nell’Europa del Dopoguerra: rendere lo sviluppo capitalistico compatibile con la democrazia, con un certo grado di eguaglianza, con la tutela della salute e dell’ambiente.
A proposito di salute e ambiente, non è stupefacente – e un po’ spaventoso – come in soli quattro anni siano stati “masticati” i progressi fatti da Obama? Sanità pubblica, diritti, cambiamento climatico, lotta al razzismo… Non vede un grande passo indietro?
Obama è stato un presidente coraggioso e con una chiara visione di futuro, anche se non sempre ha raggiunto i risultati che si era prefisso. È il suo mondo quello che si è rivelato decisivo per la vittoria di Biden, che sarà il presidente più votato della storia degli Stai Uniti. Quell’America non è stata “masticata”: il risveglio progressista c’è stato, è in quella valanga di voti. Adesso si tratterà di strutturarlo in un’agenda politica. L’ultima enciclica di Papa Francesco, accolta con freddezza in Occidente, è una lettura importante anche come ispirazione per un programma di governo.
Come cambieranno gli equilibri geopolitici? Molti ritengono che i rapporti con Cina e Russia non cambieranno in modo sostanziale. Crede invece che Biden porterà avanti il “patto di Abramo” con Israele, Emirati Arabi e Bahrein?
Trovo che l’attuale posizione americana in politica estera sia largamente sbagliata. Ma dubito che nel breve periodo ci saranno mutamenti significativi. In Medio Oriente vi è una politica di consolidamento della coalizione con Israele e con le autocrazie del Golfo in chiave sostanzialmente anti-islamica. Il programma americano è di guerra, non di pace, infatti, è suggellato dalla vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati. L’idea è costruire uno schieramento filo-occidentale con i governi meno democratici della regione per opporsi a Iran e Turchia. L’America dice: ci ritiriamo, ma costruiamo un perimetro di forza saldando Israele con l’area più conservatrice del mondo arabo. A me non sembra una prospettiva di pace.
Quali alternative strategiche vede? Trump ha ridimensionato la teoria dell’America “gendarme del mondo” e picconato la Nato, dopo aver chiesto però invano contributi agli altri Stati. Mentre l’Europa non dispone di un esercito comune.
Il peso relativo dell’Occidente nel mondo si è ridotto. La Cina è ormai una potenza pari agli Usa. La somma delle armi nucleari del Patto di Shangai supera quella della Nato. E la situazione geopolitica vede l’Occidente in conflitto con il resto del mondo: Iran, Russia, Cina, Islam sia sunnita che sciita. Non ho l’impressione che sia una prospettiva brillante. Occorre, piuttosto, creare le condizioni per una nuova coesistenza pacifica superando il quadro attuale. Il vantaggio è che questo tema adesso potrà essere affrontato con delle leadership che magari non sono d’accordo tra loro, ma almeno parlano lo stesso linguaggio.
Sintetizzando l’agenda americana del prossimo mandato presidenziale: riformare il capitalismo per attenuare le diseguaglianze in politica interna, mettere le basi per una coesistenza pacifica tra Occidente e resto del mondo in politica estera. Biden sarà all’altezza?
E’ una persona equilibrata. Forse non è stato un candidato brillante, ma sono convinto che sarà un buon presidente. È un politico. Finalmente il bisturi torna in mano a un chirurgo e non a un macellaio. L’idea demenziale che per salvare la democrazia bisogna mettere al bando i politici viene messa da parte. Come sostiene Max Weber: La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali. Il problema è scegliere i politici giusti.