Il comunismo, la presidenza del Consiglio, le scarpe costose («me le avevano regalate, un cane le ha morsicate e mi sono arrabbiato»), la barca e poi i vigneti. Adesso la polemica su quei 5.000 euro netti al mese pagati dalla Fondazione: «In 50 anni di politica ho provato tanti dispiaceri»
«Forse è stata colpa mia», dice a un certo punto Massimo D’Alema quando l’intervista arriva al tasto più dolente, e cioè a quella grande distanza tra il come D’Alema dice di essere e il come lo vedono gli altri, tra l’immagine riflessa allo specchio e quel gigantesco percepito di una parte dell’opinione pubblica che in mille momenti del suo mezzo secolo in politica – presidente della Federazione dei Giovani Comunisti, direttore dell’Unità, segretario e poi presidente dei Democratici di Sinistra, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri – l’ha messo su un banco degli imputati o chiamato in correità. Le ultime, di chiamate in correità, arrivano a riguardare persino presunti interessi in traffici di ventilatori cinesi durante pandemia («Ho tutto documentato, legga qui: i ventilatori funzionavano e il nostro governo li ha pagati anche poco») e la retribuzione da presidente della Fondazione dei socialisti europei («Sono vittima di un attacco meschino»). Scompare anche il «forse» della prima frase, quando l’intervista è finita.
«È stata colpa mia. O anche mia. Non mi sono mai preoccupato troppo della mia popolarità e in questo ho sbagliato. L’aver lasciato che venisse veicolata un’immagine così sbagliata della mia persona, arricchita spesso da menzogne, è stata una colpa. Snobismo, noncuranza, in certi casi sottovalutazione. Sono colpe».
Non ci si arriva subito, a quest’ammissione. La prima chiave che scardina la barriera che D’Alema mette tra sé e il taccuino del giornalista è José Mourinho. Il prossimo allenatore della sua squadra del cuore.
È felice dell’arrivo di Mourinho?
«Sono contento. Per due ragioni. La prima è che per un ambiente come quello della Roma servono un carattere forte e una personalità spiccata. Mourinho le ha entrambe. Come le avevano, in modo diverso, anche Nils Liedholm e Fabio Capello, che infatti hanno vinto lo scudetto. La seconda è che questa proprietà americana (i Friedkin, ndr) ha dimostrato di voler puntare in alto. Non era scontato».
Di Mourinho i detrattori dicono le stesse cose che i suoi detrattori dicono di lei. La prima: è antipatico.
«Capita a volte che siano i “fresconi” a definire antipatici quelli più intelligenti».
La seconda: è una vecchia gloria che da un certo punto in poi ha collezionato solo sconfitte.
«I combattenti possono vincere o perdere. Solo gli ignavi non perdono mai».
La storia di questi cinquemila euro netti al mese per un lavoro in esclusiva che svolgeva da presidente della Fondazione dei socialisti europei, contestati dall’attuale vertice, l’ha fatta imbufalire.
«Si sbaglia. Non sono arrabbiato. Sono dispiaciuto e amareggiato da questa iniziativa folle. La meschinità umana non provoca arrabbiature. Provoca amarezza e dispiaceri. Sa, le ho provate tante volte queste sensazioni. Faccio politica da cinquant’anni: se anche solo il dieci percento delle accuse che mi hanno rivolto si fosse rivelato fondato, a quest’ora sarei all’ergastolo. Secondo una vecchia barzelletta che si raccontava in Unione Sovietica, uno che non ha fatto nulla merita una pena di massimo cinque anni. A me è andata anche meglio che al tipo della barzelletta: non solo sono incensurato ma ho anche vinto tantissime cause per diffamazione».
Guardandosi indietro, qual è stata la scelta che le ha messo più paura?
«La guerra».
L’intervento in Kosovo?
«Sì, scelta fatta da presidente del Consiglio. L’ho vissuta con grande angoscia, anche personale. Di quelle angosce che ti impediscono di prendere sonno la notte. Sono stato pieno di dubbi, fino al giorno prima».
Si è mai pentito?
«Dopo? Mai. Quella guerra pose fine a dieci anni di guerra civile nella ex Jugoslavia, fu la pietra su un genocidio, su atrocità indicibili. Quella guerra fu la fine di una guerra, non l’inizio».
Si è mai chiesto il perché della sua antipatia, diciamo così, percepita?
«Diciamo che ci ho messo del mio. Di fronte a una battuta sarcastica non ho mai resistito. E la gente non ama particolarmente l’essere oggetto di battute. Va anche precisato che tanti di quelli che pensavano fossi antipatico, conoscendomi personalmente, hanno poi cambiato idea. Non tutti. Ma tanti».
Le capita di piangere?
«Sì. Non spesso. Però mi capita. Ora non saprei quantificarle il numero di volte che è successo negli ultimi anni ma è capitato. Con l’avanzare dell’età succede più di frequente. Ma questo credo che lei possa immaginarlo, è abbastanza comune».
Certo che sì.
«Forse però ho sbagliato a dirlo. Non vorrei che si facesse l’idea che piango più volte di quelle che in realtà piango davvero».
Ci sono politici che non trattengono le lacrime. Se lo ricorda Berlusconi di fronte ai profughi albanesi, no?
«Le racconto questa cosa. Alla fine degli Anni Novanta, c’erano due bambine che erano state rapite dal loro padre naturale, portate a Tripoli e poi sottratte di nuovo alle loro mamme, che avevano avviato una disperata e coraggiosa campagna per riaverle. Le due donne avevano ottenuto l’affidamento ma non avevano il permesso per tornare in Italia. Una storia drammatica».
E poi?
«Durante una visita di Stato in Libia chiedo a Gheddafi di liberarle e di consentire che tornassero con me. Può immaginare quanti miei colleghi sarebbero scesi dalla scaletta dell’aereo tenendo per mano le due bambine di fronte a fotografi e telecamere. Sono quelli che normalmente i giornali considerano simpatici».
E invece che cosa successe?
«Una delle due donne però non voleva essere ripresa: feci atterrare l’aereo a un lato della pista e arrivare una macchina con i vetri oscurati che prelevò le donne e le figlie senza che venissero viste dai fotografi. Io scesi da solo. È sempre stata una questione di pudore. Pudore per i miei sentimenti, certo; ma anche per quelli degli altri. Mi sono preoccupato più di questo che non della mia popolarità».
Per le bambine liberate non la ricorda nessuno. Per le scarpe fatte a mano che valevano milioni di lire sì.
«Guardi queste scarpe (D’Alema mostra le scarpe con un marchio molto visibile, ndr). Questo è il tipo di scarpe che uso, belle comode. Costeranno, che ne so, centocinquanta/duecento euro? Mia figlia lavora presso l’azienda che le produce, le ho prese col suo sconto dipendenti ».
La storia di quelle artigianali che indossava negli Anni Novanta le è rimasta appiccicata come un chewing-gum. Le gente se la ricorda ancora. L’ex comunista con le scarpe fatte a mano.
«Me le aveva regalate un artigiano calabrese, di tasca mia non le avrei mai comprate. Una sera vado a cena a casa di Alfredo Reichlin e il suo cane, decisamente malmostoso, le mordeva. Dissi ad alta voce a Reichlin di richiamare all’ordine il cane perché stava mordendo scarpe “che costano un sacco di soldi”. E qualcuno dei presenti lo raccontò ai giornalisti. La mia, però, non era la vanteria di quello che spende tantissimi soldi in scarpe artigianali. Era semmai il grido di dolore di un poveraccio, che di fronte a quel cane correva il rischio di rovinare l’unico paio di scarpe di valore che possedeva. Che poi fu l’esatto contrario di come venne percepita la faccenda».
Le rinfacciano di aver accusato Bettino Craxi di essersi arricchito con la politica.
«Frase mai detta e mai pensata. Quando Craxi ricevette il primo avviso di garanzia fui l’unico suo avversario a rispondere, a precisa domanda di un giornalista, che non si doveva dimettere per quello. L’ho combattuto politicamente ma non ho mai partecipato al linciaggio moralistico-giudiziario. E le garantisco che, nel 1993, non era un pensiero che andava molto di moda».
Le capita di sentire Berlusconi?
«Mai. L’ultima volta è stato nel 2015, prima dell’elezione del presidente della Repubblica. Mi chiese se pensassi che quella di Giuliano Amato era una buona scelta e io risposi che lo era».
Vi date del tu?
«No, del lei. Ma lui mi chiama col nome di battesimo. Tipo “guardi, Massimo”. Nel Pci succedeva il contrario. Ci si dava del tu ma chiamandosi per cognome».
Ci racconti un “guardi, Massimo” riservato.
«Nel 2006 fui il primo candidato al Quirinale del centrosinistra. Berlusconi mi telefonò per dirmi che Forza Italia non poteva sostenermi perché per il loro elettorato ero considerato l’avversario numero uno. Gli chiesi scherzando di ripeterlo in pubblico, visto che per una certa stampa ero l’uomo dell’inciucio. Fu molto cortese. Dopo aver parlato con lui, chiamai Fassino e decidemmo di convincere Giorgio Napolitano a candidarsi ».
La cosa che non rifarebbe?
«La prima che mi viene in mente è l’aver accettato di fare il presidente del Consiglio dopo che Bertinotti aveva fatto cadere il governo Prodi. A conti fatti fu un errore. Non so se per il Paese, per me personalmente sì. Io spingevo perché nascesse un governo Ciampi ma non c’erano le condizioni. Avrei dovuto insistere di più».
Si è dimesso dopo aver perso le Regionali un anno e mezzo dopo. Un azzardo.
«La sera di quelle elezioni sono andato a letto a mezzanotte, dopo i primi risultati Dissi a mia moglie “vado a dormire perché domani devo andare al Quirinale a dimettermi”. Dormii benissimo».
Ha rinunciato alla barca a vela per produrre vino. Pentito?
«Sono una persona tutto sommato normale, anche se guadagno bene. Quando voglio andare in barca, adesso, la affitto».
Strano che di lei non si sappia nemmeno la musica che ascolta.
«Soprattutto classica. Un’eredità di mio papà, che aveva studiato fagotto al Conservatorio. E poi certo, i cantautori italiani. Mia moglie in questi giorni è disperata per la morte di Franco Battiato, che piaceva anche a me. Con Dalla mi è capitato di avere anche lunghe conversazioni, persona di un’intelligenza raffinata, amico e ammiratore di Bettino Craxi. Ho sempre apprezzato tanto De Gregori, che ho frequentato per parecchio tempo, e pure Venditti. Ma il cantautore che ho sempre sentito più affine alla mia personalità l’ho visto dal vivo solo di sfuggita».
Chi è?
«Paolo Conte».