Massimo D’Alema parla
senza mai fermarsi. È in Albania, ospite del premier Edi Rama. “Parlo da una
residenza del Governo museo della storia albanese in particolare del comunismo
che hanno appena ristrutturato: me lo hanno fatto visitare, un posto
incredibile, molto bello”
In queste ore – dice - ho letto delle cose
incredibili: che io avrei fatto da mediatore per la vendita di corvette, che io
avrei guadagnato milioni con Fincantieri e Leonardo. Tutte fandonie”.
Partiamo dal
principio, presidente. Che ci fa lei a parlare di vendita di armi italiane con
il governo colombiano?
“Se è possibile,
farei un ulteriore passo indietro. Dal 2013 io non sono più parlamentare. Da
dieci anni. Da quando ho lasciato ogni responsabilità politica, svolgo un’attività
di consulenza regolare: ho una mia società e lavoro con Ernst&Young, di cui
sono presidente dell’Advisory Board.
Il mio lavoro è quello di consulenza strategica, relazioni, ma non sono uno che
va a fare mediazione di vendita. Con la mia professione cerco
di sostenere anche le imprese italiane all’estero.
Spero non sia un reato”.
Non lo è. Ma lei è un
ex presidente del consiglio. Non un consulente qualsiasi.
“Infatti per policy
aziendale non accetto incarichi da società pubbliche. Ma solo da private. Non
sarebbe vietato, intendiamoci. Ma ritengo sia più giusto così”.
Perché trattava per
conto di Fincantieri e Leonardo?
“Questa è una bugia.
Io non ho alcun rapporto di lavoro né con Fincantieri né con Leonardo e non
trattavo per conto di nessuno”.
Ma era al tavolo con
i colombiani. Per quale motivo?
“In questi mesi mi
sono occupato di Colombia, ma su altri temi: energia, portualità e sempre per
conto di alcune delle società private per cui collaboro. Nell’ambito di questo
mio lavoro sono stato contattato da
personalità politiche colombiane, con incarichi istituzionali, che mi hanno
detto: “Il parlamento colombiano ha deliberato uno
stanziamento per l’ammodernamento delle forze armate. E noi vorremmo puntare sui prodotti italiani”. È un mercato in cui la
competizione è durissima. Per l’Italia sarebbe una commessa molto importante: si tratta di un investimento di circa 5 miliardi”.
Perchè vengono da
lei?
“Non dovete fare a me
questa domanda. Io ho informato subito Leonardo e Fincantieri, che sono importanti
clienti di Ernst&Young. Ho parlato con il
direttore commerciale di Leonardo. E ho detto a questi signori colombiani che
era necessario trovare una società seria per iniziare la discussione. Loro
hanno scelto questo studio legale americano, un business law molto attivo in
America Latina. Hanno preso contatti, questa società americana ha creduto nel
progetto, ha investito, si è impegnata. E tutto questo è accaduto senza che
Leonardo e Fincantieri pagassero una lira. Giustamente: perché prima era
necessario vedere i risultati. Ci sono due aspetti che vanno chiariti dunque.
Il primo è che le società italiane si sono comportate con grande prudenza e
correttezza, non hanno dato soldi o incarichi a nessuno. Il secondo aspetto è che
i contatti che sono stati avviati hanno avuto un carattere ufficiale, la
lettera di invito alle società italiane in Colombia reca l’intestazione della
Cancelleria, cioè del ministero degli Esteri e non di qualche gruppo di
cittadini privati.”.
Lei aveva una
consulenza con questo studio americano?
“Assolutamente no”.
Che succede dopo il
suo interessamento?
“Le due aziende italiane ricevono la lettera ufficiale come
dicevo. C’è stata una visita, alla quale non ho
partecipato, perché appunto non avevo alcun ruolo. So che ci sono stati una
serie di incontri di natura istituzionale: in particolare è stata presentata la proposta sul piano tecnico alle forze
armate e si sono conseguiti risultati: per
Fincantieri, si è arrivati anche a un memorandum of understanding”.
Tutto bene, quindi.
“C'era una circostanza, nel report che mi era stato inviato, che
mi aveva però colpito: non c’erano stati contatti a livello governativo. Per questo
ho fatto due cose: ho parlato con l’ambasciatrice della Colombia. Non ne sapeva nulla, ne sono rimasto sorpreso. E ho provveduto a informare il vice ministro alla Difesa, Giorgio
Mulè, delle attività in corso”.
Mulè che le ha
risposto?
“Non ha parlato direttamente con me. Mi è stato riferito
che avrebbe detto di andare avanti”.
Veniamo alla
registrazione, pubblicata da “La Verità”: perché lei dice ai colombiani “è stupido
creare problemi. Siamo convinti che riceveremo 80 milioni, questa è la
posta in gioco”.
“Uno dei colombiani che ha chiesto di parlarmi, mi considera il garante dell’operazione. Lamentava che non erano stati pagati. Ho spiegato che l’unica maniera per avere un riconoscimento economico per il loro lavoro era
partecipare a una “success fee” ove mai l’affare fosse
andato in porto”.
Quando si blocca
invece?
“Qualcuno rende pubblica la
telefonata che aveva registrato in maniera
illegittima. Non tanto per nuocere a me, perché cosa
gliene frega di me in Colombia, ma per danneggiare le società italiane. Non a
caso in questi giorni in Colombia sono usciti articoli sulla possibilità di
acquistare le navi e gli aerei dalle imprese di altri
paesi, in particolare statunitensi”.
Lei dice oggi: non
avrei guadagnato un euro, anche se fosse andata bene.
“Certo”.
Perché allora dice in
quella riunione “riceveremo 80 milioni”?
“Innanzitutto io non
ho un’idea precisa di quanto possa essere la success fee in un’operazione di
questo tipo, ho fatto riferimento al valore che normalmente si dà a queste
transazione, è anche evidente che dovevo convincere un interlocutore riluttante
e convincerlo naturalmente a fare una scelta nell’interesse dell’Italia e non
della mia persona. In questa vicenda, ripeto, non ho contratti con nessuno. Per me era già importante, far conseguire un risultato a
Leonardo e Fincantieri, che hanno un rilevante peso nel sistema economico
italiano anche perché questo indubbiamente accresce
la credibilità di chi fa lavoro di consulenza. Temo che tutto questo clamore
avrà l’unico effetto di far perdere alle imprese italiane una commessa da 5
miliardi.