Massimo D’Alema è in partenza per l’Albania. “Collaboro con quel
governo”. A dicembre, poi, andrà in Messico e di lì in Brasile, dove
incontrerà Lula a San Paolo. “Spero vincitore (il ballottaggio è il 30
ottobre, ndr). Mi ha detto: ‘Comunque ci abbracceremo sia che vinca sia
che perda’. Io sono andato a trovarlo da presidente ma anche in carcere.
In fondo, sono un vecchio comunista”. Presidente parliamo dell’Italia.
“Già l’Italia”.
La destra ha vinto.
La destra ha preso 12 milioni di voti, gli stessi del 2018, con una
forte concentrazione in FdI: un balzo in avanti compensato dal
dimezzamento degli alleati. È un risultato sconvolgente, perché la
maggioranza parlamentare poggia su un consenso espresso dal 28%
dell’elettorato, in termini assoluti.
Neanche uno su tre.
Pensi che nel 2006, l’Unione vinse con 19 milioni di voti e un
margine risicatissimo. Oggi la destra avrà il controllo delle
istituzioni con 12 milioni di voti: sono elezioni che mostrano una
profonda crisi del sistema democratico. Una crisi non solo italiana, si
pensi anche alla Francia. Ovviamente tutto questo non mette in
discussione la legittimità del risultato. Diciamo che è un’avvertenza
per i vincitori.
Cioè?
Dovrebbero mostrare una certa prudenza. Non sono la maggioranza del Paese.
C’è un pericolo fascista?
No, anche se questa destra è venata di aspetti nostalgici. Ma se
questa maggioranza accentuatamente minoritaria imporrà riforme
costituzionali o una compressione dei diritti civili avrà una reazione
di tutti quelli che non l’hanno votata e che sono molti di più.
La destra ha vinto. Ma ha vinto facile.
Parto da un paradosso: la destra che ha vinto è stata divisa per quasi tutta la legislatura, spacchettata in tre.
Lega coni 5S, Salvini e B. con Draghi, Meloni sempre all’opposizione.
Non a caso ha vinto, Meloni. Draghi è caduto e i tre si sono messi insieme senza neanche dare una spiegazione.
E dall’altro lato non c’era più nulla.
Persino un commentatore come Tony Barber del Financial Times,
che non è mai stato tenero con la sinistra italiana, trova inspiegabile
che le forze di centrosinistra che hanno governato insieme il Paese si
siano presentate divise.
Tre anni insieme, dal governo Conte-2.
Un esecutivo che ha fatto bene durante il Covid e ha rappresentato con dignità l’Italia nell’Ue. Conte ha portato i soldi del Recovery Fund. Lo hanno accusato per non aver preso il Mes, ma neanche Draghi lo ha chiesto, eppure nessuno ha detto nulla, tutti zitti.
Anche i giornaloni.
Conte è caduto per il sabotaggio interno e per alcune pressioni esterne.
A sua volta, Conte, ha poi fatto cadere Draghi.
Si è mosso convinto che fosse oggetto di una campagna contro di lui,
per metterlo in un angolo, come dimostra la scissione di Di Maio.
Un complotto, insomma.
Dico una campagna. Una campagna per logorarlo: tutto questo lo ha
esacerbato. Lo trovo comprensibile. Certo, poteva avere un maggiore self
control, ma ricordiamo che pure Salvini e Berlusconi sono stati
corresponsabili della fine di Draghi.
E il Pd di Letta se n’è liberato subito.
Poteva essergli più vicino, fargli da sponda su alcune delle richieste fondate dei 5S ed evitare così la crisi.
Invece nulla, fino al voto.
I dirigenti del Pd hanno pensato che la fine di Draghi provocasse
un’ondata popolare nel Paese, travolgesse Conte e portasse il Pd, la
forza più leale a Draghi, a essere il primo partito. Io non so che
rapporti abbiano i dirigenti del Pd con la società italiana. Mi domando
persino dove prendano il caffè la mattina, perché il risultato ha detto
esattamente l’opposto. La scena del voto è stata dominata dai due leader
che hanno contrastato Draghi. La tecnocrazia evoca sempre il populismo e
la vicenda Monti avrebbe dovuto vaccinare il Pd.
La rottura con il M5S è stata irreversibile.
Un confronto era obbligatorio. Bisognava fare punto e a capo.
Il Pd ha seguito il piffero magico dell’ establishment e dei suoi giornali.
Il problema è che le élite economiche e culturali del Paese, quelle
che leggono i giornali, non hanno più rapporti con la realtà. Sa che mi
hanno detto alcuni vecchi compagni comunisti? Questo: “Votiamo Conte
perché i grandi giornali ne parlano male”.
Tutto torna. Però è saltata anche l’alleanza con Calenda e Renzi.
In questo Letta è stato fortunato. Quest’alleanza avrebbe portato Conte al 20 per cento.
Ma era una coalizione riformista.
Riformismo è ormai una parola talmente ambigua da essere diventata impronunciabile.
Detto da lei, presidente.
Il riformismo era imbrigliare il capitalismo sulla base delle
esigenze sociali, un processo di graduale trasformazione in senso
democratico.
E oggi?
È imbrigliare le questioni sociali sulla base delle esigenze del capitalismo globale.
Definizione formidabile. Alla fine Conte e i 5S sono stati la sinistra.
Vorrei ricordare che i 5S già all’inizio della legislatura avevano
scelto il Pd come partner naturale, ma ci fu il diniego dell’allora
leader del Pd (Renzi, ndr). Conte ha rifondato e ricollocato i 5S e il
Pd ha bisogno di lui perché non intercetta più il voto popolare. Legga
qua (un’analisi dei flussi di Swg, ndr): tra chi ha difficoltà
economiche il 29% ha votato Meloni, il 23 il M55 e il 14 il Pd. Il
risultato dei 5S è 8 punti sopra la loro media nazionale, quello del Pd 5
sotto. Il voto dei poveri, degli operai si è polarizzato tra la destra e
i 5S, il Pd ne prende davvero pochi. Ora bisogna ricomporre il campo
largo e fare un lavoro profondo per riguadagnare la passione di chi non
vota più. Sapendo che c’è una coalizione democratica e di centrosinistra
potenzialmente maggioranza.
Lei consiglia Conte?
Mi capita di sentire Conte, ma io non faccio più politica attiva. È
un uomo che ascolta e valuta e ha anche un tratto di grande civiltà
personale. Per esempio se viene a sapere che stai male ti chiama e ti
chiede: “Come stai?”. Qualità rara oggi.
Il Pd è un partito morto?
Non ho la passione per il rito delle autocritiche e non sono più
iscritto al Pd. Il centrosinistra sarebbe molto più forte se avessimo
avuto un partito socialista e un altro di sinistra cattolica.
Premesso questo.
Il Pd non può pensare di riassumere in sé la sinistra ed è diventato
scarsamente attrattivo. Tuttavia c’è bisogno del Pd. Penso che dovrebbe
fare un bilancio serio e onesto degli ultimi anni e fare anche quelle
correzioni statutarie che consentano di ricostituire un partito nel
senso proprio del termine.
Un partito vero.
Dopo tanti anni in cui siamo stati travolti dal nuovismo, dovremmo
prendere atto che le elezioni sono state vinte dal partito più
novecentesco in circolazione, che ha persino mantenuto la fiamma nel
simbolo.
C’è il congresso per questo.
Che dovrebbe aprirsi con un ampio dibattito culturale su che cosa
deve essere il Pd. L’identità non la fa il totonomi. Un partito deve
avere una visione del mondo e un progetto di società. Le sembra normale
che in campagna elettorale una forza di sinistra non abbia mai
pronunciato la parola pace?