CONVERSANO. La politica è cultura nella misura in cui è aperta al
dialogo e alle idee che facciano crescere un Paese. Ospite a Conversano
per il Lectorinfabula, Massimo D’Alema, con la voce e l’esperienza di un
vecchio «lupo di mare» della politica, ha dialogato, nella chiesa di
San Benedetto, con Giorgio Caravale, Giuseppe Laterza e Sofia Ventura
sul tema della frattura tra politica e cultura. Il pensiero non può non
andare subito alla scomparsa del presidente emerito della Repubblica
Italiana, Giorgio Napolitano, che, nel solco degli insegnamenti di
Benedetto Croce, rende l’idea di una politica che non può prescindere
dall’attenzione ai valori intrinseci alla cultura.
Chi era per lei Giorgio Napolitano?
«Ricordare Napolitano è per me, innanzitutto, ricordare una persona
che ha avuto un’influenza molto importante nella mia vita. L’ho
conosciuto nel 1969, quando ero studente, lui responsabile culturale del
Partito Comunista Italiano. Mi ricordo che, con molto scrupolo (è
sempre stato un uomo assai attento), dopo una discussione che avevamo
avuto, mi scrisse una lettera per sottolineare tutte le cose non giuste
che, secondo lui, avevo detto nel mio intervento. Questo ci restituisce
la fotografia di un’epoca in cui la classe dirigente aveva un dialogo
con i più giovani. Poi Napolitano fu la persona che mi mandò in Puglia,
quindi il mio legame con la vostra Regione nasce da una sua decisione.
Tanti ricordi, fino a quelli più recenti che riguardano le vicende degli
ultimi anni. Senza dubbio Giorgio Napolitano ha rappresentato nella
forma più alta il rapporto tra il movimento comunista e la democrazia
nel nostro Paese».
Perché, a suo avviso, la politica e la cultura hanno subito una frattura?
«C’è una crisi della dimensione politica. Paradossalmente la
politica, quand’era più forte, perché strutturata, e aveva un più alto
riconoscimento sociale, era in grado di avere un rapporto corposo col
mondo della cultura. Abbiamo vissuto una lunga fase di destrutturazione
del sistema politico, di esaltazione della non-politica. Il problema è
la crisi del sistema politico: in altre parole è venuto meno uno dei due
interlocutori.
I giovani non hanno fiducia nelle istituzioni e nella politica: quali, secondo lei, le soluzioni per invertire la tendenza?
«Occorre la pazienza di un’opera di ricostruzione nelle forme in cui,
oggi, questo sia possibile. Abbiamo bisogno di ricostruire le culture
fondative, altrimenti i partiti diventano degli agglomerati elettorali
senza fondamento ideologico: i partiti o sono ideologici o non sono. Io
non credo alla tesi secondo cui non ci debbano più essere partiti
ideologici. Da questo punto di vista, la destra ha mantenuto un filo
ideologico molto più forte, che le consente di dare delle risposte agli
elettori. La sinistra deve ritrovare le sue radici culturali, valoriali,
anche, forse, ripensando a scelte compiute in questi anni, in cui
abbiamo finito per distaccarci da una tradizione che non era solo una
sequela di errori, ma una storia di conquiste e avanzamenti democratici.
E, poi, quelli che hanno perduto fiducia nella democrazia sono
soprattutto i più poveri: basti pensare che la partecipazione al voto
nella popolazione più povera è bassissima, perché c’è la convinzione che
“tanto non cambia nulla”. È veramente una grande crisi della
democrazia».