Intervista
16 settembre 2024

"Vidi il presidente serbo nello studio del mio dentista. Poi fu necessario l'attacco

Intervista di Francesco Verderami - Corriere della Sera


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«Sono il
presidente del Consiglio che portò l’Italia in guerra. La crisi del Kosovo
segnò la mia esperienza alla guida del governo». Il 21 ottobre del 1998 Massimo
D’Alema varcava il portone di palazzo Chigi accompagnato dalla profezia di Francesco
Cossiga, secondo cui «il leader della sinistra era indispensabile per poter
fare la guerra in Kosovo». Scoppiata cinque mesi dopo. C’è quindi un motivo se
il primo premier post comunista della storia repubblicana esordisce dicendo che
«noi siamo stati alleati leali degli americani ma, insieme ad altri europei in
un rapporto dialettico che non fu sempre facile». Ed è per questo che inizia il
suo racconto sul conflitto nei Balcani partendo da un antefatto.



«Quando il
governo di Romano Prodi cadde eravamo in una situazione pre-bellica», ricorda
D’Alema: «Prodi infatti aveva già deliberato l’activation order, che è
l’atto con cui i governi dell’Alleanza Atlantica pongono le loro Forze Armate
sotto il comando unificato della Nato. Era un momento di possibile e imminente
guerra. Risultò quindi evidente che l’idea di Prodi e di suoi collaboratori che
si potesse uscire dalla crisi con elezioni anticipati non era realistico. Io
sondai in questo senso il Presidente della Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro fu
netto: “Voi siete matti”. La strada per le urne era preclusa. È chiaro che
questo fatto condizionò tutto lo sviluppo della crisi. Io feci di tutto per
evitare che ci si arrivasse alla guerra. Di tutto».



In che senso
«di tutto»?



«Arrivai a
incontrare, in modo informale, il presidente della Serbia Milan Milutinovic,
che era uomo molto vicino al presidente della Federazione jugoslava Slobodan
Milosevic. L’appuntamento fu organizzato dal mio dentista».



Il suo
dentista?



«Un uomo
appartenente a quel mondo “giuliano” che ha vissuto ed esercitato la
professione a cavallo tra l’Italia e la ex Jugoslavia, che aveva come paziente
Milutinovic. Nel suo studio di Roma organizzò il nostro incontro. Fu un
colloquio drammatico, perché avvenne all’indomani del massacro di Racak, dove i
paramilitari serbi avevano ucciso decine di civili kosovari di etnia albanese.
Gli dissi: “Voi non vi rendete conto della tragedia che avete provocato e che
alimenta la spinta ad intervenire militarmente”. Mi rispose in modo cinico:
“Noi non temiamo queste minacce. La Nato non avrà mai il coraggio di mettere
piede da noi”. Era il segno di una classe dirigente irresponsabile che non si
rendeva conto di quanto stava per accadere».



Fu allora che
si rassegnò al conflitto?



«Fu più
avanti. Quando la pulizia etnica si fece più forte, organizzammo una missione
umanitaria insieme all’Albania ai confini con il Kosovo. Trascorsi la Pasqua al
valico di Kukes e vidi migliaia di profughi che fuggivano dalla guerra con le
loro storie di sofferenza. A quel punto mi convinsi che non c’erano alternative
ad un’azione militare. Era la vigilia dell’attacco».



Così decise
di aderire alla missione?



«Prima ebbi
un colloquio delicato con Bill Clinton. Quella discussione con il presidente
americano sarebbe stata molto importante per il prosieguo della vicenda e per
il ruolo dell’Italia. Clinton mi disse: “Capisco che siete in una posizione
difficile. E comprendo la difficoltà del tuo governo. Perciò se metterete a
disposizione le vostre basi militari e in sede Nato non vi opporrete all’uso
degli asset dell’Alleanza, non sarà necessaria una vostra partecipazione
diretta. Le operazioni saranno coordinate da un quartetto: Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia e Germania».



E lei?



«Gli risposi:
“In questa vicenda non ci sarà un quartetto. Ci sarà un “quint”». Se avessimo
ridotto l’Italia al ruolo di portaerei della Nato, non avremmo più contato
nulla. Senza partecipazione diretta, non avremmo avuto peso politico nella
conduzione della crisi.  E Quintetto fu.
Noi entrammo nel circolo dei Paesi che si assumeva piena responsabilità. Ed
avemmo pari dignità con gli alleati».



Così il 24
febbraio del 1999 li affiancaste, iniziando l’attacco alla Jugoslavia. E senza
mandato dell’Onu.



«La
conduzione della guerra fu complessa. E comportò momenti di aperto dissidio tra
i partecipanti al Quintetto. Noi per esempio eravamo contrari al bombardamento
delle città serbe. E come noi anche i tedeschi».



Ma Belgrado
venne colpita lo stesso.



«Quelle
operazioni erano fatte dagli americani e dagli inglesi con missili lanciati
dalle loro portaerei stanziate nell’Adriatico e con velivoli che venivano dagli
Stati Uniti, riforniti in volo prima dell’attacco. La nostra aeronautica si
concentrò invece sulle truppe serbe di stanza in Kosovo: che poi era quello il
target fondamentale dell’operazione militare».



Fu l’unico
passaggio delicato?



«Il momento
più drammatico avvenne nell’aprile del 1999, al vertice Nato di Washington, in
occasione del cinquantesimo anniversario dell’Alleanza. La guerra in Kosovo
continuava ma Milosevic non arretrava. Così durante una riunione ci dividemmo».



Chi c’era
oltre lei all’incontro?



«Clinton, il
premier inglese Tony Blair, il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder,il
presidente francese Jacques Chirac e il primo ministro spagnolo Jose Maria
Aznar, che era stato invitato a partecipare. Ovviamente c’era anche il generale
americano Wesley Clark, comandante supremo delle Forze Nato».



Cosa accadde?



«Blair,
sostenuto da Aznar, sostenne la necessità di una vera e propria invasione con
truppe di terra. La discussione si fece molto aspra. L’Italia, la Francia e la
Germania si opponevano nettamente alla soluzione. Clarke disse: “Faremo quanto
ci verrà ordinato. Abbiamo dei piani, ma non pensiate che manderemmo i nostri
militari a fare la guerriglia sulle montagne del Kosovo. Se decidessimo di
intervenire, dovremmo entrare in Serbia”. Formalmente rimase neutrale, ma
mettendo l’accento sull’imponenza dell’operazione e sui suoi rischi, ci aiutò a
far prevalere il buon senso. Contrariamente a quello che si pensa, i militari
sono sempre i più prudenti a fare la guerra, perché la conoscono. Sono i
politici i più guerrafondai».



Restava
Clinton a dover parlare.



«E il
presidente americano mise mirabilmente fine alla discussione, dicendo: “Non
faremo nulla che divida l’Europa. Faremo quindi solo ciò su cui siamo tutti
d’accorso. Il presidente degli Stati Uniti non può dividere l’Europa”. Così
l’ipotesi dell’invasione fu archiviata. Ma nel momento in cui si escludeva
l’invasione si poneva il problema di come spingere per una soluzione politica. Nessuno
durante il conflitto disse mai “vogliamo vincere la guerra contro la Serbia”.
Questa frase stupida non fu mai pronunciata. Noi ripetevamo che la pressione
militare era volta a indurre la Serbia a ritirare le sue truppe dal Kosovo e a
proteggere la popolazione. Bisognava dunque lavorare in modo incisivo alla
soluzione politica. Lo spiegai agli americani».



E loro?



«L’Italia era
l’unico Paese che aveva tenuto aperta la sua ambasciata a Belgrado e avevamo
mantenuto dei canali. Quei canali furono alimentati anche dalla comunità di
Sant’Egidio, in modo particolare Mons. Vincenzo Paglia, che giocò un ruolo
importante d’intesa con il governo. Dissi allora a Clinton che bisognava
negoziare con Milosevic la liberazione di Ibrahim Rugova: il “Gandhi dei
Balcani”, che aveva ricevuto il premio Sacharov del Parlamento europeo ed era
il simbolo della resistenza kosovara non violenta. Lui rappresentava l’ala
moderata del nazionalismo kosovaro, quella più predisposta alla convivenza
etnica con i serbi. Rugova era gli arresti domiciliari e noi negoziammo la sua
liberazione, d’accordo con gli americani. E sempre d’accordo con gli americani
coinvolgemmo la Russia nella mediazione».



Ma la Russia
all’Onu aveva posto il veto all’attacco della Nato contro la Serbia.



«È vero, ma
l’ex primo ministro russo Viktor Chernomyrdin venne due volte riservatamente a
Roma. Cenammo insieme a palazzo Chigi e poi chiamammo Clinton per concordare
quali fossero i margini per condurre la trattativa. Il giorno dopo Chernomyrdin
andò a Belgrado a parlare con Milosevic. Tutto questo mentre era in corso la
guerra, con l’Italia in un ruolo attivo nei bombardamenti».



E Clinton?



«Aveva una
sola preoccupazione: “Se Milosevic libera Rugova, da pacifista potrebbe parlare
contro l’azione della Nato”. Si fidò. E Rugova fu rilasciato. Ci fu qualche
osservatore che all’epoca scrisse: “L’Italia ha liberato un cadavere politico”.
Rugova in realtà fu prezioso per una soluzione della crisi e stravinse le
libere elezioni all’indomani della fine della guerra, e avrebbe potuto avere un
grande ruolo nella pacificazione della regione se la malattia, purtroppo, non
lo avesse fatto morire in pochi mesi. Comunque, i servizi italiani andarono a
prendere Rugova per portarlo a Roma. E appena arrivato lui disse: “Ringrazio la
Nato che sta difendendo il mio popolo”. Ero per strada quando ricevetti una
chiamato di Clinton, che ringraziò per il successo dell’operazione. Il terreno
per una soluzione politica era stato preparato».



Che vuol
dire?



«Che questo
lavorio contribuì a trovare uno sbocco diplomatico. Aprendo la strada
all’iniziativa ufficiale del presidente finlandesi Martti Ahtisaari. Quando si
trovò l’accordo con la Serbia e la Serbia si ritirò, a entrare in Kosovo, non
fu la Nato ma un corpo militare nato sotto l’egida delle Nazioni Unite, di cui
facevano parte anche militari russi. Così si ricompose anche quel quadro di
legalità internazionale che era stato lacerato, visto che la Nato aveva agito
senza l’autorizzazione dell’Onu. Se penso a ieri e guardo oggi, la cosa che mi
colpisce è: dov’è finita la politica? Dov’è lo sforzo per costruire uno
scenario sostenibile per il dopo?».



Si riferisce
al conflitto in Ucraina?



«Mi riferisco
a certi discorsi senza senso. A certe persone che dicono “dobbiamo vincere la
guerra”. Penso a Blair o all’ex segretario generale della Nato Jens
Stoltenberg. Questa è una guerra che nessuno può vincere, da una parte c’è una
potenza nucleare e dall’altra parte la forza militare dell’Occidente. Se non ci
si ferma, l’esito può essere una catastrofe mondiale. La politica dovrebbe
trovare una via d’uscita».



È pensabile
una via d’uscita in base alla quale l’Ucraina debba accettare la perdita di un
pezzo del suo territorio?



«Ma il Kosovo
non era un pezzo della Serbia? A decidere fu il popolo kosovaro. Forse anche
ora, sotto tutela internazionale, potrebbero alla fine essere cittadini del
Donbass a decidere».



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